Ah, la fortuna di Goffredo Bettini – “discendente della famiglia aristocratica marchigiana Rocchi Bettini Camerata Passionei Mazzoleni”, si legge sulla biografia di Wikipedia– di avere avuto un avvocato come padre. E che avvocato, Vittorio, elettore e anche di più del Partito Repubblicano di Ugo La Malfa e di Oronzo Reale, che ne frequentavano studio e casa, come ha raccontato lo stesso figlio sul Foglio per spiegare l’aria, diciamo così, in cui è cresciuto. Fra “stanze in cui si parlava di diritto e libertà, ma non come slogan: come destino delle persone”. Oronzo Reale peraltro fu ripetutamente anche ministro della Giustizia.
“Da bambino -ha raccontato ancora Goffredo Bettini come per spiegare ai suoi compagni di partito che sapeva di sorprendere, spiazzare e quant’altro rivelando di essere d’accordo sulla separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri- ascoltavo, curioso, i racconti degli avvocati del tempo” e il papà che gli “ripeteva spesso una frase che allora sembrava paradossale e oggi mi pare una lezione altissima di civiltà: meglio dieci colpevoli fuori dalla galera che un innocente dentro”. Diceva anche, il padre, che “il potere giudiziario è sempre un potere, e come tutti i poteri ha bisogno di contrappesi, di cautele, di consapevolezza dei propri limiti”. “Il giudice nel processo -ha scritto ancora Goffredo Bettini, non so però se riportando ancora le parole del padre o scrivendone di proprie- rappresenta lo Stato. L’imputato è solo. La sproporzione di forza è immensa”. E non c’è avvocato difensore, per quanto bravo, autorevole e famoso, che possa bastare da sola a compensare questa sproporzione.
Pertanto – scusatemi se mi dilungo nella citazione dell’articolo di Goffredo Bettini- “non si tratta di fare la guerra ai magistrati, come troppo spesso avviene nella polemica pubblica” anche sulla separazione delle carriere, “ma di rimettere al centro il principio di equilibrio, come nella nostra Costituzione, come nella grande lezione del liberalismo di sinistra”. Ma soprattutto “come ci ha insegnato Montesquieu, il quale teneva un potere giudiziario stabile, organizzato, chiuso, permanente. Lo voleva invece intermittente, aperto, invisibile”. Un aggettivo, quest’ultimo, che è francamente l’opposto della visibilità eccessiva di tanti magistrati, che appaiono forse più numerosi della realtà per la capacità che hanno di farsi sentire e vedere. Ma una visibilità sufficiente a suggerire spesso richiami da parte del capo dello Stato, e presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Non solo di quello in carica, ma anche dei predecessori, fatta eccezione – che io ricordi- per la buonanima di Oscar Luigi Scalfaro. Spintosi a impegnarsi pubblicamente con la magistratura, da cui proveniva, a non controfirmare una legge che ne separasse le carriere. E che infatti non arrivò mai sul suo tavolo, al Quirinale. Vi arriverà forse con Sergio Mattarella.
Pubblicato sul Dubbio
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