Lo scompenso cardiaco di cui soffre il referendum abrogativo in Italia

Si può ben chiamare scompenso, come quello cardiaco, la malattia di cui soffre il referendum abrogativo, anche per il batticuore che procura ai promotori di turno. Costretti, mancando il cosiddetto quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto richiesto per renderne valido il risultato, a misurare la distanza dall’obbiettivo per ritenersi in qualche modo soddisfatti lo stesso. E contestare la disfatta – scusate il pasticcio delle parole- attribuita loro dagli avversari. Sono mancati questa volta una ventina di punti.

Questo è chiaramente un esercizio dialettico e politico alquanto arbitrario, a dir poco, perché appeso solo agli interessi o convenienze degli sconfitti. Più da asilo infantile che da accademia.

La causa dello scompenso referendario sta non nella perfidia o nella indifferenza dell’elettorato, o nella spregiudicatezza del governo di turno nel boicottare l’affluenza alle urne, giocando sulle date o sul controllo, reale o presunto, dell’informazione, ma nell’abuso che si fa della possibilità elettorale di abrogazione totale o parziale di leggi in vigore, vecchie o nuove che siano.  Persino l’immagine ormai consueta dei grappoli referendari, a titolo di semplificazione o risparmio, è negativa.

Il referendum abrogativo scritto nella Costituzione è di opposizione alle norme che si vogliono abolire o modificare tagliandone una parte, non di opposizione al governo di turno. O, peggio ancora, di giochi interni all’opposizione. Composta di partiti dove una nuova maggioranza vuole ribaltare le scelte legislative della vecchia. Com’è accaduto nel Pd sul cosiddetto jobs act  introdotto  a suo tempo col governo del segretario del partito e insieme presidente del Consiglio Matteo Renzi.

Mi è accaduto personalmente di seguire in televisione nei giorni scorsi  due confronti fra lo stesso Renzi, che difendeva la sua legge pur avendo partecipato alla raccolta delle firme di contestazione, e il segretario generale della Cgil Maurizio Landini. Quando ho sentito quest’ultimo, incalzato dall’ex premier, impegnarsi per ristabilire l’obbligo, se abrogato, del reintegro a favore  dei dipendenti dei sindacati licenziati ingiustamente, mi sono convinto definitivamente della speciosità e aleatorietà dello scontro. I sindacati d’altronde si sono tirati fuori volontariamente dal Parlamento, dove una volta venivano rappresentati con i candidati ospitati nelle liste dei partiti. Di quali mezzi avrebbe disposto Landini per mantenere il suo impegno se non ricorrendo ad un altro referendum di segno opposto e contrario? Si può legiferare referendariamente sostituendosi a questo punto al Parlamento? Via, siamo seri.

E’ stato allora, sentendo Landini,  che ho deciso di preferire non il mare, non la montagna, né la collina ma semplicemente casa mia al grappolo referendario, tutto intero come offertomi. E mi ritrovo vittorioso nel mio piccolo, anzi piccolissimo.  

Pubblicato sul Dubbio

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