Per quanto non competitivo, di certo, con il Conclave per l’elezione del successore di Papa Francesco, il 47.mo anniversario della morte di Aldo Moro – crivellato di colpi nel bagagliaio di un’auto dai brigatisti rossi che l’avevano sequestrato il 16 marzo 1978 sterminandone la scorta in via Fani, a Roma, e trattenuto prigioniero per 55 giorni sino al 9 maggio- conserva tutta la sua drammaticità. Non foss’altro per i misteri nei quali è ancora avvolta, nonostante tutte le indagini giudiziarie e parlamentari che ne sono seguite, la più grave, clamorosa tragedia politica della Repubblica italiana assaltata dal terrorismo rosso, accomunato per le sue trame misteriose a quello nero delle stragi di una decina d’anni prima.
La morte recente di Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle brigate rosse con Renato Curcio, ha fornito un’occasione preziosa per riproporre i misteri del “caso Moro”, dal quale ingenuamente qualche giorno fa ho visto proporre dall’ottimista di turno di separare lo statista democristiano morto sul campo del suo impegno politico per mano, certamente, del terrorismo ma ancor più, forse, degli avversari non armati.
Claudio Martelli visse quella tragedia accanto al leader socialista Bettino Craxi, fra i pochi ad opporsi a viso aperto alla linea della fermezza adottata dal governo e dalla maggioranza di “solidarietà nazionale” di quei tempi, quando si rese conto che essa avrebbe solo procurato le fine di Moro. Dalla cui linea politica egli poteva pur sentirsi politicamente danneggiato per la preminenza riconosciuta ai comunisti nel campo della sinistra.
Scrivendone e parlandone a quasi mezzo secolo di distanza, Martelli si è impietosamente ricordato degli organigrammi “di sangue” di cui durante il sequestro Moro si parlava nei palazzi romani del potere dietro le quinte, ripeto, della linea delle fermezza. Il presidente del Consiglio Giulio Andreotti veniva immaginato al Quirinale al posto di Giovanni Leone, prossimo alla scadenza ordinaria del mandato presidenziale che fu peraltro anticipata di sei mesi, dopo e per effetto dell’epilogo del sequestro del presidente della Dc.
Ma c’era anche chi al Quirinale immaginava destinato l’allora presidente del Senato Amintore Fanfani, che non ce l’aveva fatta sette anni prima. Alla segreteria della Dc veniva immaginato Giovanni Galloni, alla presidenza del partito Benigno Zaccagnini, al posto di Moro, e a Palazzo Chigi l’allora ministro degli Esteri Arnaldo Forlani. Che alla Farnesina aveva tentato inutilmente di aiutare Moro procurando alle brigate rosse il riconoscimento virtuale di un appello del segretario generale dell’’Onu, come Paolo VI aveva fatto chiedendo loro “in ginocchio” di rilasciare il presidente della Dc, ma “senza condizioni”.
Il già ricordato Franceschini seguiva il sequestro Moro dal carcere, dove era finito quattro anni prima. Poco più di vent’anni dopo, uscitone dopo un percorso di dissociazione e intervistato da Maurizio Belpietro, avrebbe riproposto i suoi già noti sospetti sulla natura assunta dalle “sue” brigate rosse, accusandole di essersi lasciate “strumentalizzare” da altri anche o soprattutto col rapimento e l’assassinio di Moro.
Pubblicato sul Dubbio
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