
Improbabile, a dir poco, presidente del Consiglio, pur candidato nella stessa denominazione del partito, Matteo Salvini resterà comunque segretario della Lega nella prossima legislatura, appena confermato per acclamazione dal congresso federale sino al 2029. Quando ha promesso di non riproporsi bastandogli e avanzandogli i 16 anni che saranno allora trascorsi dalla sua prima elezione. Al massimo, a livello di governo, potrebbe riuscirgli, essendosi ripromesso di “parlarne” con la premier Giorgia Meloni, di tornare a capo del Ministero dell’Interno, dove i suoi però lo vorrebbero già prima della prossima legislatura. Improbabile però anche questo.

A proposito della Meloni, l’”amica Giorgia”, come l’ha chiamata Salvini, non ha trovato il tempo e forse neppure la voglia di andare al congresso leghista di Firenze. Come ha fatto invece di recente a Roma andando a quello calendiano di Azione, che pure non fa parte, o non ancora, della maggioranza di governo. Vi si affaccia ogni tanto per votare leggi e simili che condivide, o semplicemente per fare dispetto a Matteo Renzi che aspira ad essere un pilastrino della improbabile -anch’essa- alternativa al centrodestra. Pilastrino, perché “il primo solido pilastro” lo ha prenotato o addirittura piantato Giuseppe Conte sgolandosi nella manifestazione di sabato ai Fori Imperiali e dintorni, indetta per fare della pace -ma più in particolare e fattivamente, del no al riarmo europeo- il primo obiettivo politico del suo movimento. E di una eventuale, eventualissima maggioranza su misura per lui.

La Meloni ha voluto o potuto limitarsi a mandare ai leghisti un breve videomessaggio di convenevoli, diciamo così, per chiedere di lavorare “pancia a terra” nel governo sino alla conclusione della legislatura, nel 2027 salvo anticipi, e riconoscere che “un congresso non è mai una perdita di tempo”. Ci mancherebbe altro, con quello peraltro che costano.
Di questa partecipazione a distanza della Meloni al congresso della Lega si vanteranno o si varranno Conte, Elly Schlein, Renzi eccetera per continuare a coltivare il sogno di una esplosione, anzi implosione della maggioranza che li obblighi magari a qualche accordo d’ufficio o d’emergenza. Come quelli che ai suoi tempi nel cosiddetto centrosinistra soleva fare, tra officine e cantieri, Romano Prodi senza ricavarne personalmente molti vantaggi, essendo entrambi i suoi governi durati meno di due anni ciascuno. E ancor meno -qualche giorno- la sua candidatura consolatoria al Quirinale gestita nel 2013 dall’allora segretario del Pd e presidente del Consiglio incaricato, o pre-incaricato, Pier Luigi Bersani.

Anche Prodi è tornato ieri a farsi vedere e sentire, a Bologna e a Firenze, in un videomessaggio a manifestazioni di area che se dovevano o volevano essere competitive col raduno romano di Conte il giorno prima, sono fallite inorgogliendo ulteriormente il presidente del MoVimento 5 Stelle. O di quel che ne è rimasto elettoralmente.
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