
Non so da chi possa o debba sentirsi disturbata, o minacciata, di più sul filo dell’equilibrista dove molti la indicano in questi giorni di grande esposizione sul piano internazionale. Un’esposizione superiore a quella del suo ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani.
Non so, in particolare, se su quel filo le diano più fastidio, o le procurino più distrazioni, le intemperanze del presidente americano Donald Trump. Col quale pure vanta un rapporto “speciale”, servitole molto nella vicenda della liberazione della giornalista italiana Cecilia Sala dal carcere iraniano dove era stata rinchiusa per scambiarla di fatto con un trafficante e altro di droni finito in manette in Italia su richiesta americana, ma protetto da Teheran. O quelle -parlo sempre delle intemperanze- dell’ancora amico e leader della Lega Matteo Salvini, che è l’altro dei suoi due vice presidenti del Consiglio. Quello più trumpiano forse dello stesso Trump, della moglie ogni tanto defilata, del vice Jean David Vance, dell’animatore, finanziatore e quant’altro Elon Musk e del presidente argentino Javier Milei. Che non porta ma indossa la pur ingombrantissima e lucida motosega d’ordinanza.

Potrebbero disturbare l’”equilibrista” Meloni -nel Circo internazionale e interno della crisi ucraina, paradossalmente aggravatasi sulla strada della pace dopo tre anni e più di guerra scatenata dalla Russia di Putin- anche le intemperanze di un altro suo amico che è Volodymir Zelensky. Che la settimana scorsa -come gli hanno rimproverato anche estimatori suoi e della Meloni in Italia- è andato alla Casa Bianca per firmare un accordo con Trump e ne è uscito cacciato per averne contestato troppo la troppa fiducia riposta in Putin, sin quasi a scambiarlo da aggressore ad aggredito nella cosiddetta “operazione speciale” ordinata per la “denazificazione”, addirittura, dell’Ucraina.
Per sua fortuna politica la Meloni sul filo, ripeto, dell’equilibrista attribuitole a torto o a ragione non deve guardarsi dalle urla e dagli attacchi delle opposizioni in Italia. Che sono ancora più divise della maggioranza di centrodestra: divise fra sostenitori di Zelensky, sostenitori di Trump e sostenitori del nulla, o quasi. Opposizioni aspiranti ad un’alternativa al centrodestra che si dissolve ogni volta che deve affrontare un problema spinoso, di genere prevalente fra quelli di un governo reale o potenziale.

La Meloni rischierebbe di cadere dal filo su cui si muove a braccia aperte se si mettesse a ridere, come forse avrebbe il diritto di fare, contemplando sotto i suoi piedi la povera segretaria del Pd Elly Schlein. Che le dà della fuggiasca e del coniglio anche nello scontro fra Trump e Zelensky ma non è riuscita, nel suo ufficio al Nazareno, a individuare una piazza dove farsi vedere, quanto meno, tra cartelli e grida a favore del presidente ucraino. E tutto per non perdere la ricerca “testarda” di un rapporto “unitario” col Conte, Giuseppe, del pacifismo senza se e senza ma.
Quello della Schlein è un po’ uno spettacolo esoterico, aggravato dalla impossibilità della segretaria del Pd in un eventuale dibattito parlamentare, che pure reclama un giorno sì e l’altro pure, di affrontarne la conclusione con un voto comune di tutte le opposizioni su un documento alternativo a quello della maggioranza. Sul quale invece la premier può contare, come è sempre avvenuto sinora nei passaggi parlamentari difficili, nonostante le intemperanze verbali di Salvini o di Tajani, o di entrambi.
Pubblicato sul Dubbio
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