Continua il revival berlusconiano….sulle piste di Malpensa e dintorni

Silvio Berlusconi

  Continua il revival berlusconiano. Appena rimpianto, sia pure come “meno pericoloso” di Giorgia Meloni, dai magistrati entrati in collisione anche col governo di centrodestra in carica, la buonanima di Silvio Berlusconi si è tolta la soddisfazione di vedersi difendere nella memoria dal tribunale amministrativo della Lombardia. Che ha bocciato l’istanza sospensiva presentata dal Comune di Milano e da altri tre del Varesotto contro l’intestazione dell’aeroporto di Malpensa all’ex presidente del Consiglio fortemente voluta dal vice presidente leghista del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. Voluta, peraltro, in tempi tali da avere sorpreso persino i figli di Berlusconi, infastiditi dalle polemiche seguite all’annuncio delle procedure che potranno pertanto proseguire rendendo concreto quello che è stato sinora solo un fotomontaggio dell’”Aeroporto Silvio Berlusconi”.

Dal Dubbio

         La notizia, con tutto quello che accade nel mondo e anche in Italia, è minore. Finita solo su poche delle prime pagine dei giornali. Ma è pur sempre indicativa di un trend, di un clima. Rientra fra i segni della crisi di una sinistra vissuta in Italia per una trentina d’anni solo o soprattutto di antiberlusconismo, sino a perdere la propria coscienza, già compromessa col giustizialismo cavalcato nei primi anni Novanta per liberarsi di un altro avversario, Bettino Craxi, che pure non proveniva da destra essendo un socialista orgogliosamente dichiarato. Ma autonomista, non subordinato cioè ad un partito comunista che riteneva di avere l’esclusiva o comunque il primato di una sinistra al di fuori della quale potevano vivere solo dei “pidocchi”, come “il Migliore”, con la maiuscola, Palmiro Togliatti liquidava dissidenti e critici di quel campo.

Da Libero

         Fu proprio la rinuncia della sinistra alla sua stessa originaria natura, che in occidente è stata riformistica, o socialdemocratica, a lasciare a Berlusconi e alla sua area politica nel 1994 e anni successivi una parte consistente di quello che era stato il campo socialista rinvigorito da Craxi dopo il rifiuto del predecessore Francesco De Martino di governare senza l’appoggio dei comunisti.

         L’intestazione dell’aeroporto di Malpensa a Berlusconi significa il riconoscimento anche di questa realtà da lui rappresentata in vita e lasciata in eredità, a causa dei perduranti errori della sinistra, al centrodestra ora a trazione meloniana.

D’Alema affranto per i 10 milioni di voti perduti dai democratici americani

Da Libero

  Storditi, distratti e quant’altro dai grandi numeri degli Stati Uniti, anche come popolazione ed elettori complessivi, che scompaiono sostanzialmente nei conteggi dei soli “grandi elettori” chiamati a scegliere formalmente il presidente mandandolo in gennaio alla Casa Bianca, forse non ci siamo accorti delle vere dimensioni della sconfitta dei democratici. Che quel diavolo di Massimo D’Alema, con la mania che ha per la precisione, ha rivelato “in alte parole”, cioè nel salotto televisivo di Massimo Gramellini, sulla 7, parlando appunto delle elezioni svoltesi oltre Oceano. E sorprendendo, penso, anche l’illustre e abituale ospite a distanza Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale.

Massimo D’Alema nello studio televisivo di “altre parole”

         In particolare, l’ex presidente del Consiglio -l’unico ex o post comunista riuscito ad affacciarsi a Palazzo Chigi rimanendovi con due governi, ma per meno di due anni- ha cercato di ridurre il successo di Donald Trump dicendo che in fondo è riuscito a conservare l’elettorato del suo schieramento di quattro anni fa, costatogli allora una sconfitta mai accettata, tanto da sottrarsi allo scambio delle consegne col successore Joe Biden, dopo avere provocato, volente o nolente, un assalto eversivo al Campidoglio.

La sconfitta Kamala Harris

Al tempo stesso tuttavia D’Alema ha impietosamente ammesso, anzi rimproverato agli amici o compagni del Partito Democratico americano di avere perduto in quattro anni la bellezza di dieci milioni di voti. Che sono tanti in effetti, pur nella vastità dell’elettorato americano che purtroppo è difficile conoscere o trovare con una certa precisione navigando in internet, dove l’’indicazione è tutta riservata, ripeto, ai 538 “grandi elettori”, non di più, prodotti dai vari Stati per la scelta finale del titolare della Casa Bianca.

Il vincente Donald Trump

          Col tempo che ha a disposizione -ha osservato sarcasticamente lui stesso nelle condizioni di rottamato in cui si trova, per me immeritatamente, nel Pd e più in generale nella sinistra-  D’Alema si è proposto di studiare i dati elettorali americani per capire bene dove e come si sono spostati gli elettori verso destra. Ma così mi ha ispirato una domanda come spettatore televisivo. Mi sono chiesto se egli avrà anche il tempo e la voglia di meditare sullo spostamento pure degli elettori italiani a destra, che hanno mandato a Palazzo Chigi due anni fa Giorgia Meloni. La quale vi rimarrà per tutta la legislatura, magari confermata nel 2027 con l’elezione diretta a presidente del Consiglio, visto che l’alternativa alla quale lavora la segretaria del Pd Elly Schlein è come l’Araba Fenice. Che ci sia tutti lo dicono, ma dove nessuno lo sa, peraltro in un campo che appena mostra di potersi allargare trova il solito Giuseppe Conte, ma anche altri con lui, pronto a restringerlo, umido di veti e autoreti.

La segretaria del Pd Elly Schlein

         So bene che la Schlein si è consolata, anzi inorgoglita, nella sconfitta elettorale della sinistra nelle recenti elezioni regionali in Liguria vantando i quasi cinque punti guadagnati dal Pd rispetto all’analogo voto precedente di quattro anni fa, salendo ad un 28,5 per cento rispetto al quale il MoVimento 5 Stelle presieduto da Conte, fra i pentimenti e le proteste di Beppe Grillo, è quasi un cespuglio col suo 4,5 per cento. Ma il successo del Pd della Schlein è dovuto a soli 160 mila voti in realtà pari o inferiori a quelli precedenti, gonfiati d’aria col quasi 10 per cento in meno degli elettori recatisi alle urne.

Giuseppe Conte

In realtà, quindi, la sinistra in Liguria, come in tutta Italia, è messa alquanto male, prigioniera della rottura ch’essa stessa ha consumato col suo tradizionale elettorato mangiando quello che la Schlein non ha voluto sentirsi rimproverare di recente dalla Meloni: il caviale. Cioè diventando autoreferenziale, parlando con se stessa in dimensioni sempre minori, piacendo più alle elite che alla povera gente, presente più nei centri ricchi delle città, a traffico limitato, che nelle periferie. Gliel’ha appena ricordato e rinfacciato anche una sua elettrice nota come Sabrina Ferilli parlandone al Fatto Quotidiano e mandandone in sollucchero il direttore, convinto che a sinistra, fra i cosiddetti progressisti, l’unico a salvarsi sia il suo Giuseppe Conte: l’uomo politico “più sottovalutato nel mondo”, pur essendo stato -pensate un po’, sempre secondo Marco Travaglio- il migliore presidente del Consiglio in Italia dopo Camillo Benso conte, al minuscolo, di Cavour. Ed essendosi guadagnato il raddoppio del nome -da Giuseppe a Giuseppi- oltre Oceano ai tempi della prima presidenza di Donald Trump. Che però, tutto sommato, lo aveva conosciuto più nella versione gialloverde, con Matteo Salvini vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, che in quella giallorossa successiva, spalancantagli in Italia da un Matteo Renzi inedito. E rapidamente pentitosene.

Pubblicato su Libero

Stefania Craxi si racconta col padre a quasi 25 anni dalla morte

Dal Dubbio

Altro che il “breve libello” proposto dall’autrice nell’introduzione con modestia forse scaramantica. Breve, sì, se sembrano poche le 175 pagine distribuite in 11 capitoli e stampate con eleganza dalla Piemme, cioè da Mondadori, ma quello che Stefana Craxi ha scritto sul padre, Bettino, e sulla propria, prima esperienza di vita vissuta “all’ombra della storia”, raccontandosi “tra politica e affetti”, come si dice nei titoli, è un signor Libro. Che racconta come meglio mi era capitato di leggere prima, ciò che lui è stato, ha rappresentato ed è rimasto in chi lo ha apprezzato, nonostante la dannatio memoriae praticata dai suoi avversari, armati di bugie, di livore, di invidia e di sentenze giudiziarie.

         Di queste ultime, peraltro, Stefania Craxi ha giustamente sottolineato l’aspetto “beffardo”: sia della prima sia delle ultime. Della prima, di condanna, in cui si diede atto al padre che “in questo processo non è risultato né che abbia sollecitato contributi al suo partito né che li abbia ricevuti a sue mani, ma questa circostanza -che forse potrebbe avere un valore da un punto di vista per così dire estetico- nulla significa ai fini delle responsabilità penali”.

Bettino Craxi alla Camera il 3 luglio 1992

         Le ultime sentenze furono quelle “di condanna -ha ricordato sempre Stefania- che la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva emesso nei confronti dei processi di Craxi”, tradotte tuttavia in “risarcimenti di poche migliaia di euro”. Incredibile ma dannatamente vero, come tutto il resto che si legge nel libro della “falsa rivoluzione” condotta dalle presunte “mani pulite” della magistratura improvvisamente accortasi negli anni Novanta della vecchia, diffusa, generalizzata pratica del finanziamento irregolare dei partiti e, più generalmente, della politica. Una pratica ammessa, spiegata, raccontata dallo stesso Craxi, prima ancora di essere formalmente coinvolto nelle indagini, parlando alla Camera dei Deputati in un silenzio d’aula tanto vasto quanto imbarazzato e confermativo di una classe politica che aveva scelto “l’abdicazione” alla magistratura, offrendole come capro espiatorio un leader socialista troppo scomodo per tutti nella sua autonomia: sia per gli alleati di governo sia per gli avversari. Fra i quali, se si potesse dare l’oscar della franchezza, esplicativa di tutto quello che avvenne fra tribunali, giornali, piazze e anfratti, esso spetterebbe a Massimo D’Alema.

         L’allora capo vero, al di là degli incarichi formali, della sinistra post-comunista travolta dal crollo del muro di Berlino, raccontò con le parole riprodotte da Stefania Craxi nel libro a pagina 122: “Eravamo come una grande Nazione indiana chiusa fra le montagne con una sola via di uscita, un canyon. E lì c’era Craxi, con la sua proposta di unità socialista, che aveva un indubbio vantaggio su di noi: era il capo dei socialisti in un Paese europeo occidentale. Quindi era lui che rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che poi aveva lo svantaggio di essere Craxi. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il Partito socialista in Italia”, peraltro senza avere neppure il coraggio di assumerne il nome, ma riuscendo a strappare l’ammissione all’Internazionale Socialista allo stesso Craxi. Che disponeva di un veto per una operazione del genere e che evidentemente non era poi quel prepotente dell’immaginario comunista dalla trippa da vendere e consumare nelle mense alle feste dell’Unità.  

Con Reagan alla Casa Bianca

         In una situazione politica così impietosamente raccontata, ripeto, da D’Alema come poteva Craxi scampare alla fine raccontata dalla figlia Stefania -dopo tanti passaggi anche festosi e divertenti della sua testimonianza adolescenziale degli anni felici- con uno strazio che non può non fare venire un nodo alla gola a un lettore provvisto di un minimo senso dell’umanità? La sua eliminazione era segnata, dopo tutte le emozioni e le speranze da lui accese in una cavalcata politica semplicemente straordinaria, seguita con l’affetto e l’ammirazione di una Stefania decisa spesso anche a “imbucarsi” nella sua prima vita di “testimone”. Che cessò per essere seguita da quella politica – sfociata per ora nella presidenza della Commissione Esteri e Difesa del Senato- il giorno stesso della morte del padre, di cui ricorrerà il 19 gennaio prossimo il 25.mo anniversario. E di cui lei ha raccolto l’eredità abbandonata o tradita da troppi “arrivisti e arrembanti” degli anni dell’incipiente o maggiore potere.

         Raggiunta al telefono ad Hammamet dall’allora sottosegretario di D’Alema a Palazzo Chigi Marco Minniti per essere informata dei funerali di Stato spettanti al padre, Stefania rifiutò con comprensibile e condivisibile orgoglio dopo tutte le infamie riservategli. “Fu il primo atto politico della mia seconda vita”, ha raccontato in un libro tutto da leggere, quasi d’un fiato.

Pubblicato sul Dubbio

La lettura realistica di Veltroni delle elezioni americane vinte da Trump

Dal Corriere della Sera

Penso che a sinistra in Italia chi ha studiato di più la politica, la cultura e altro ancora degli Stati Uniti sia il primo segretario del Pd Walter Veltroni. Di cui personalmente condivido la realistica analisi fatta sul Corriere della Sera sia della vittoria di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca, sia della sconfitta della concorrente Kamala Harris sia infine delle lezioni che dovrebbe trarne anche la sinistra italiana, oltre a reagire delusa, infastidita, impaurita, direi pure ossessionata dal voto americano. Come lo è ancora dalla vittoria di Giorgia Meloni più di due anni fa nel nostro Paese.

Veltroni su Corriere della Sera

         “Si può dire quello che si vuole, ma l’inedita destra -ha scritto Veltroni- ha immaginato una risposta strategica al malessere di questo tempo. Risposte estreme, semplificate, sottratte all’onere della coerenza, della realizzabilità, come la promessa dell’arrivo imminente del “l’età dell’oro”, capaci di cavalcare rancore sociale e desiderio di riscatto da una condizione di precarietà che ha diffuso nella società il più temibile dei sentimenti: la paura”.

         E’ difficile contestare questa constatazione, come anche che “la destra, la nuova destra ha un’idea, racconta che la sinistra è il potere, il passato, l’estabilishment”, pur se “a incarnare la nuova figura di difensori del popolo solo multimiliardari”. Il fatto è che “il novecento”, al minuscolo nella prosa disincantata di Veltroni, “è finito, con il suo bagaglio organicistico e i suoi vincoli di credibilità e coerenza”. E che “ora il tempo è solo il presente”.

Veltroni sul Corriere della Sera

         Alla sinistra, che in Italia egli cercò di guidare assegnando al “suo” Pd ancora in fasce una “vocazione maggioritaria”, Veltroni ha proposto, sia pure forse troppo genericamente, “un progetto di ridefinizione, facendo leva su diritti e opportunità di come deve essere organizzata, socialmente e democraticamente, la società digitale”. E ha ricordato che “non sarà difendendo la Fortezza Bastiani del “deserto dei tartari” che la sinistra saprà, come è stata capace di fare nei suoi momenti migliori, convertire la paura popolare in speranza di riscatto e garantire le libertà individuali e collettive”. E neppure, penso, sarà utile alla sinistra inseguire il segretario generale della Cgil Maurizio Landini- peraltro in un mondo sindacale spaccato quasi come nel referendum del 1985 contro i tagli antinflazionistici alla scala mobile dei salari lasciato in eredità dall’ormai compianto segretario del Pci Enrico Berlinguer- sulla strada della “rivoluzione sociale” a suon di scioperi generali. A cominciare da quello indetto con la Uil, e senza la Cisl, per il 29 novembre contro il governo Meloni.

         Eppure è proprio a quest’ultimo e, più in particolare alla premier, che il senatore a vita ed ex presidente del Consiglio Mario Monti ha appena riconosciuto di potere supportare al meglio, nella crisi del marconismo in Francia e della socialdemocrazia in Germania, il compito della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen di rafforzare l’Ue nel confronto difficile che l’aspetta con Trump per scongiurare all’economia del vecchio continente il rischio di venirne sopraffatta. Un rischio che francamente mi pare avvertito in modo assai marginale da Landini nelll’inseguimento, ripeto, di una “rivoluzione sociale” mossa dalle stesse difficoltà delle classi meno abbienti che hanno portato Trump alla vittoria in concorso paradossale con i miliardari finanziatori della sua campagna elettorale, cui ha alluso Veltroni sul Corriere della Sera.

         Direte che Mario Monti non è di sinistra, non lo è mai stato e non ha nessuna voglia di diventarlo adesso, alla sua età, sulla strada degli 82 anni, come il meno anziano o più giovane Mario Draghi.  Ma di certo il polso dell’Europa lo avvertono entrambi meglio di Landini e dei suoi emuli più o meno occasionali: da Elly Schlein a Giuseppe Conte. 

Pubblicato sul Dubbio del 9 novembre

A Bologna tra camicie nere e zecche rosse, aspettando il voto di domenica

Dalla Stampa

         Flavia Perina, già direttrice del Secolo d’Italia della destra di Gianfranco Fini, nella sua nuova vita di editorialista della Stampa ha definito “una parodia di guerra civile, dalla quale gli adulti dovrebbero prendere le distanze in blocco”, non solo o non tanto gli scontri verificatisi a Bologna fra gli antagonisti sociali e le forze dell’ordine, frappostesi alla loro volontà di scontrarsi con un corteo di destra autorizzato, quanto le polemiche politiche che sono seguite. Con la sinistra che ha accusato “il governo” di avere non permesso ma addirittura “mandato” per le strade bolognesi trecento “camicie nere”, come ha detto in particolare il sindaco della città Matteo Lepore, e il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini che ha dato delle “zecche rosse” a quelli dei centri sociali che la premier Giorgia Meloni aveva definito solo dei “facinorosi”. Dei quali ha mostrato di non accorgersi la segretaria del Pd Elly Schlein addebitando responsabilità e cause dei disordini di Bologna solo alle sunnominate camicie nere.

Sempre dalla Stampa

         Si potrebbe considerare esagerata la “parodia di guerra civile” lamentata dalla Perina sulla Stampa considerandola più semplicemente o banalmente un eccesso di campagna elettorale, dovendosi votare domenica prossima proprio a Bologna per le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna abbinate a quelle dell’Umbria, a meno di un mese da quelle clamorosamente perdute in Liguria dalla sinistra. Il guaio è però che, sempre a Bologna, e ancora più a ridosso del voto di domenica, è stata programmata per venerdì una manifestazione nell’ambito dello sciopero nazionale studentesco contro la premier Meloni e la ministra della Pubblica Istruzione Anna Maria Bernini imbrattate di sangue, pur cromatico, nei manifesti già affissi nella città. A questo punto la guerra civile diventa un po’ meno una parodia, di fronte alla quale appare francamente pretestuosa la provocazione vista dalla sinistra, e condivisa da Pier Luigi Bersani rimasto senza metafore, nel corteo della destra di Casa Pound e dintorni autorizzato contro la droga, la violenza e  la prostituzione presumibilmente prodotte da una cattiva “integrazione” dei migranti.

         Gli “adulti”, di sinistra e di destra, o viceversa, per tornare alla Perina, si sono davvero ben guardati a Bologna, ma non solo a Bologna, dall’ abbandono nelle loro polemiche, tra camicie nere e zecche rosse “, di quelle che sono “sceneggiate muscolari” e “ parole-feticcio di stagioni lontane, riabilitate come sistemi sbrigativi per segnalare una posizione di principio”. Ma di quale principio, poi?

Strade e piazze d’Italia affollate di estremismi sociali e politici

         Per quanto affollate anche fuori stagione di turisti che portano soldi e non disordini all’economia nazionale, strade e piazze d’Italia fanno paura per gli spettacoli di estremismo che sfornano ormai con troppa frequenza.

Per le strade di Napoli

A Napoli si sparano e si uccidono fra loro minorenni cresciuti chiaramente in un degrado sociale di cui i più grandi d’età non hanno il coraggio di assumersi le responsabilità e di porvi rimedio, preferendo prendersela con le cosiddette autorità locali e  ancor più nazionali, visto che al momento queste ultime sono di destra piuttosto che di sinistra.

Per le strade di Milano

A Milano cortei nominalmente pro-palestinesi sfilano inneggiando al terrorismo che insanguina quella causa, ai capi abbattuti e alla caccia agli ebrei appena consumatasi nella capitale olandese, cioè nella nostra Europa che sembrava restituita alla libertà, alla democrazia, alla civiltà un’ottantina d’anni fa con la sconfitta del nazismo tedesco e di quell’imitazione che aveva finito di esserne il fascismo italiano.

Neri a Bologna

A Bologna i soliti antagonisti convinti di rappresentare la sinistra per contestare un corteo di destra di alcune centinaia di persone che sfilava contro “la droga, violenza, prostituzione” di una presunta “integrazione”, hanno assaltato e ferito le forze dell’ordine schierate per impedirne lo scontro diretto con gli avversari politici. 

Rossi a Bologna

La segretaria del Pd Elly Schlein, accorsa proprio a Bologna per stare dalla parte dell’antagonismo sociale, e reduce da una polemica a distanza con la premier Giorgia Meloni sul “caviale” della sinistra e “l’olio di ricino” di memoria fascista, ha ritenuto di prendersela più col corteo di destra, che secondo lei non avrebbe dovuto essere permesso, che con gli aggressori della Polizia.

Titolo di Libero

Con questa sua scelta, diciamo così di colore, vista l’”armacromia” da lei scoperta e praticata nell’abbigliamento, la Schlein si è procurata su Libero un titolo che probabilmente riterrà arbitrario ma che temo non apparirà tale a tanti altri che poi, al momento opportuno, votano per Trump negli Stati Uniti e in Italia per la Meloni, che si è affrettata a rinfacciarle l’appoggio fornito ai “facinorosi” di Bologna. “Caviale, spranga e martello” è il titolo di Libero riferendo dei “pestaggi democratici”.

Giorgia Meloni

Non so francamente se debba stupire di più l’ostinazione di Elly Schlein nel prestare il fianco, quanto meno, a un titolo come quello di Libero o il silenzio, almeno in pubblico, che le premette nel Pd di continuare a farne in questo modo la segretaria, condannando il partito o a perdere voti o a guadagnarne di inutili all’ambizione di un’alternativa al governo dell’odiata Meloni. Che non ha bisogno di olio di ricino perché la Schlein in fondo se lo beve da sola, e lo fa bere ai suoi elettori.

Ripreso da http://www.startmag.it     

La strana coppia Meloni-Ferilli contro la Schlein “al caviale”

Giorgia Meloni a Budapest

         Questa volta alla segretaria del Pd Elly Schlein non è riuscito il gioco di tirare la palla in tribuna per allontanarla dal campo in un momento scomodo, rinfacciando “l’olio di ricino” di memoria fascista a Giorgia Meloni che da Budapest, partecipe del primo vertice europeo dopo la vittoria di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca, aveva definito “al caviale” la sinistra sorpresa dal successo della destra anche negli Stati Uniti. E ciò pur nel contesto di una polemica della premier italiana apparentemente riferita al campo più ristretto di uno scontro avuto con Maurizio Landini per lo sciopero generale proclamato dalla Cgil con la Uil contro il governo per il 29 novembre. Sciopero naturalmente condiviso dalla segretaria del Pd.  

Dal Fatto Quotidiano

         La Schlein, giurando e spergiurando col ditino puntato verso la telecamera o la macchina fotografica di turno di “non mangiare caviale”, ha fatto finta di non capire il problema posto dalla Meloni. Che è poi quello sollevato con altre parole da chi sottolinea da tempo come il Pd sia più di casa, in ogni senso, nei centri ricchi che nelle periferie povere. Come anche il Partito Democratico negli Stati Uniti appena uscito con le ossa rotte dallo scontro con Trump.

         Se non c’è riuscita Giorgia Meloni, almeno nelle apparenze, a fare capire alla Schlein la crisi del Pd e, più in generale della sinistra ch’esso vorrebbe rappresentare e guidare, in un gioco improvvisato di sponda, diciamo così, ci ha provato oggi sul Fatto Quotidiano la politicamente rossa Sabrina Ferilli lamentandosi di “questa sinistra che sega le radici” e “parla per le elite”: dagli Stati Uniti all’Italia.

Nanni Moretti nel 2002 a Piazza Navona

E’ un po’ quello che già nel 2002 in Piazza Navona Nanni Moretti avvertì, ben prima quindi che nascesse il Pd, prevedendo il  passaggio di “tre o quattro generazioni”, addirittura, per vedere vincere davvero in Italia la sinistra battuta da Silvio Berlusconi l’anno prima, come già nel 1994.

         Ventidue anni dopo quel grido di Nanni Moretti, e un anno dopo una intervista della stessa Ferilli a Vanity Fair contro una Schlein già allora “troppo radicale”, nel senso di chic e caviale, la situazione della sinistra rimane praticamente la stessa, se non è persino peggiorata per il tipo di opposizione che pratica al governo finendo più per favorirlo che per danneggiarlo, per quanto impegnato a difendersi anche da una certa, solita magistratura.

Giuseppe Conte

         Che la Ferilli, sostanzialmente convergente con la Meloni nel giudizio sulla sinistra, venga amplificata da un giornale come Il Fatto Quotidiano, secondo il quale Giuseppe Conte non è più soltanto il migliore presidente del Consiglio avuto dall’Italia dopo Camillo Benso di Cavour ma ora anche “il politico più sottovalutato nel mondo”, non può né deve stupire. E’ conforme all’interesse sempre più evidente di un Conte, appunto, pressato anche dallo scontro con Beppe Grillo, a non chiudersi in un rapporto “organico” col Pd, sentendosi e proponendosi più a sinistra del Nazareno.  

Ripreso da http://www.startmag.it 

Assist di Mario Monti alla Meloni in Europa dopo la vittoria di Trump

Screenshot

Pur preoccupato pure lui per la difficoltà di “governare il caos trumpiano”, come ha scritto oggi Il Foglio in un titolo che comunque egli non aveva ancora potuto leggere, il senatore a vita, ex presidente del Consiglio e due volte commissario europeo Mario Monti non si è stracciato abiti o strappato capelli in una intervista che ha voluto lasciarsi fare dal Corriere della Sera dopo le elezioni americane. Piuttosto, è sembrato condividere la speranza degli ottimisti di sapere e volere trarre il bene anche da un male. O semplicemente da un pericolo che si avverte in una certa situazione o in un certo evento.

Dal Corriere della Sera

         Piuttosto che strapparsi vestiti e capelli, ripeto, come penso che abbia evitato di fare anche il suo amico Mario Draghi, pure lui ex presidente del Consiglio, incontrando la segretaria del Pd Elly Schlein  dopo la vittoria di Trump; piuttosto che strapparsi vesti e capelli, dicevo, Monti ha scommesso sulla capacità di un’Europa “forte” di confrontarsi con Trump. E, scommessa nella scommessa, ha puntato soprattutto su due donne europee: la tedesca Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, e la premier italiana Giorgia Meloni. Che non deve quindi avere procurato a Monti quella specie di orticaria forse avvertita da altri vedendola nella solita cordialità a Budapest col presidente Viktor Orban per il primo vertice europeo dopo la vittoria di Trump nella corsa alla Casa Bianca.

Monti al Corriere

         “Von der Leyen -ha detto Monti-appartiene alla più solida famiglia politica dell’Unione Europea, il partito popolare, e inizia il suo secondo mandato con un nuovo presidente del Consiglio europeo cooperativo e, credo, rispettoso dei ruoli come (il portoghese) Antonio Costa Quella che potrebbe essere una debolezza- le difficoltà di Francia e Germania- può diventare la forza di Ursula von der Leyen. Si apre un’ampia finestra in cui lei e Costa saranno determinanti”.

Monti al Corriere

         “Giorgia Meloni -ha detto Monti in un altro passaggio dell’intervista- ha capito l’Europa e i suoi problemi. E’ il leader che può spiegare meglio questa realtà  a patrioti, sovranisti e riluttanti vari. I quali possono essere molto legati al diritto nazionale di veto, soprattutto in politica estera. Ma allora è come se firmassero una dichiarazione che dice: Sì, io sono un cavallo di Troja. La presidente del Consiglio può complementare von der Leyen e deideologizzare gli argomenti di un’Europa forte”.

Monti al Corriere

         Ancora sulla premier italiana, ma entrando sottilmente in una dialettica fra la competizione e il disturbo esistente nella maggioranza di centrodestra, Monti ha detto che la “operazione” di rafforzamento dell’Europa per confrontarsi meglio con Trump e collaborare “non la può fare Matteo Salvini, la può fare Antonio Tajani ma quella meglio posizionata è Meloni”. 

Ripreso da http://www.startmag.it

Trump vissuto, dopo la Meloni, come un fantasma dalla sinistra italiana

Da Libero

La sinistra italiana post-comunista scioccata di fronte alla vittoria elettorale che riporterà Donald Trump alla Casa Bianca a gennaio mi ricorda un po’ la sinistra ancora dichiaratamente comunista scioccata 44 anni fa dalla vittoria di Ronald Reagan. Che, per quanto fosse già stato il governatore della California dal 1967 al 1975, era rimasto nell’immaginario delle allora Botteghe Oscure l’attore improvvisatosi politico e destinato solo a procurare guai alla democrazia tout court, e non solo quella americana.

         Fu un annuncio di morte “alquanto esagerato”, come nel 1897 il famoso, leggendario scrittore americano Mark Twain, mancato nel 1910, aveva definito quello che lo aveva riguardato personalmente con troppo anticipo.

         E’ impressionante come una certa sinistra, anche se non solo italiana, sia ciclicamente incapace di capire la società e la politica degli Stati Uniti, anche dopo averne scoperto, apprezzato, adottato, secondo i gusti, il modello quando le convenne cercando di riscattarsi dalla sudditanza al comunismo sovietico per aspirare al governo in un Paese come l’Italia, occidentale anche nella classificazione concordata a Yalta fra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale.

Ronald Reagan

         Reagan non solo rafforzò la democrazia ma sconfisse il comunismo senza sparare un colpo, solo accettandone la sfida sul piano della deterrenza, cioè recuperando lo svantaggio accumulato dalla Nato in Europa quando i sovietici avevano installato nelle basi del Patto di Varsavia i missili SS20. Un’operazione di recupero, e di definitivo sfiancamento dell’Urss, che quel politico improvvisato come era stato considerato Reagan seppe realizzare col consenso dei socialdemocratici tedeschi e dei socialisti italiani, mettendo peraltro al nudo la doppiezza berlingueriana dell’ombrello della Nato utile a proteggere anche il Pci, o il cosiddetto eurocomunismo, purchè rimanesse bucato.

Elly Schlein

         La segretaria del Pd Elly Schlein, 39 anni compiuti nello scorso mese di maggio, a quei tempi non era ancora nata. E chissà se ha mai avuto e avrà la voglia di studiarli, presa com’è dalla rappresentazione contemporanea e diabolica di Trump e dalle imitazioni italiane, come mi sembra che gli sia apparso in questi giorni persino il suo compagno di partito Vincenzo De Luca, Enzo per gli amici. Che si è messo in testa di disattendere il no del Nazareno al terzo mandato di governatore della Campania: disposto a riproporsi anche contro il Pd, ora che egli ha fatto approvare una legge regionale che gli consente di farlo, sia pure con la furbizia del vincolo differito, diciamo così, dei due mandati.

         Già catalogato dalla Schlein fra i “cacicchi” di cui liberarsi, e liberare il suo partito anche per renderlo più gradito, o meno sgradito, a quel rottamatore che è diventato Giuseppe Conte in concorrenza col pur odiato, anzi odiatissimo Matteo Renzi, il governatore della Campania deve essere diventato insopportabilmente trumpiano agli occhi e alle orecchie della segretaria del Pd per il suo stile, il suo linguaggio, la sua ostinazione.

Vincenzo De Luca

         A Giuseppe Conte, in verità, il nome e l’immagine di Trump non dovrebbe dispiacere dopo quel “Giuseppi” da lui rimediato come incoraggiamento mentre cercava in Italia, peraltro riuscendovi, di restare a Palazzo Chigi cambiando in corsa le ruote della sua maggioranza. Ma in Campania, dove si voterà fra un anno per il rinnovo dell’amministrazione regionale, l’ex presidente del Consiglio ha una sua partita da giocare, anticipata dai retroscenisti con l’ipotesi di fare accettare dalla Schlein la candidatura del pentastellato ex presidente della Camera Roberto Fico a governatore. E Dio solo sa quanto bisogno avrebbe Conte di rianimare il suo partito, o quel che ne rimarrà alla fine della vicina assemblea costituente e dello scontro con Beppe Grillo, dopo averlo ridotto in Liguria al 4 e rotti per cento.

         Sì, lo so. Col Trump vero, quello americano tutto da assaggiare come si deve fare col budino per provarlo anche nella sua seconda edizione, dopo la prima prodotta dalle elezioni americane del 2016, tutto questo discorso sul Pd e sui rapporti con le 5 Stelle c’entra poco o niente. Ma c’entra col trumpisno e l’antritrumpismo, entrambi farlocchi, dell’immaginario di certa sinistra. Che non riesce a vivere senza fantasmi.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il10 novembre

Landini si arruola nel trumpismo e incita gli italiani alla “rivolta sociale”

Neppure tanto inconsapevolmente ispirato da Donald Trump, avendone attribuito la vittoria nella corsa per il ritorno alla Casa Bianca alle “condizioni di vita delle persone” negli Stati Uniti, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha incitato gli italiani, in condizioni ancora peggiori degli americani, alla “rivoluzione sociale”. Il cui percorso potrebbe o dovrebbe evidentemente cominciare il 29 novembre con lo sciopero generale proclamato dalla stessa Cgil, insieme con la Uil, contro il governo di Giorgia Meloni. Che nella distorsione dialettica di quello che si sente il vero capo delle altrettanto vere opposizioni apparterrebbe abusivamente, persino guidandolo a livello europeo, al mondo politico dei conservatori rappresentato a livello mondiale dal tycoom spinto di nuovo alla Casa Bianca da una maggioranza superiore a tutte le attese o a tutti i timori.  Secondo le preferenze di chi, rispettivamente, festeggia o s’incupisce per i risultati delle elezioni d’oltre Oceano.

La vignetta del Secolo XIX

         Il trumpismo di Landini riflette come meglio non potrebbe la confusione della politica italiana, colta anch’essa di sorpresa dalle dimensioni della vittoria di Trump, anche nel centrodestra dove maggiormente essa era stata prevista o attesa, come nella Lega di Matteo Salvini e tra i fratelli d’Italia della premier, pur pronta -secondo i soliti retroscenisti con tanto di analisi persino geopolitiche- ad accontentarsi anche di una vittoria, magari ai punti, di Kamala Harris. Che addirittura avrebbe dovuto convenirle di più. Ah, che cosa non si riesce a pensare e, peggio ancora, a scrivere alla vigilia delle elezioni.

La vignetta di ItaliaOggi

         Il capogruppo del partito della Meloni alla Camera Tommaso Foti, sempre dondolante davanti alle telecamere con la mano sinistra infilata nella tasca dei pantaloni,   è quello che paradossalmente ha preso più sul serio il trumpismo di Landini, pur contestando al segretario generale della Cgil l’aumento di stipendio appena strappato al suo sindacato per migliorare, diciamo così, le proprie condizioni di vita minacciate dal governo. In particolare, Foti ha intravisto aspetti penali nella “rivolta sociale”, ripeto, auspicata da Landini. Che probabilmente conta pure lui, come i migranti clandestini che provengono dall’Egitto e dal Bangladesh, sulla protezione della magistratura italiana, o almeno di quella che sta praticando l’”opposizione giudiziaria” -ricordate?- preannunciata un bel po’ di tempo fa dal ministro della Difesa Guido Crosetto, allarmato da segnali che lo riguardavano personalmente. Ah, com’è di casa il paradosso nella politica italiana.

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