
Come dalla casa si passò alla Cosa di Achille Occhetto dopo il crollo del muro di Berlino si è passati ora dalla casa alla Cosa di Giuseppe Conte dopo il crollo del muro di Beppe Grillo. Il paragone ha del paradossale, lo so, ma fino ad un certo punto. E’ la storia della sinistra che quando finisce nelle mani sbagliate è compensata nel governo dalla destra: nel 1994 con Silvio Berlusconi, oggi con Giorgia Meloni.
Achille Occhetto aveva come casa addirittura il Pci che era già stato di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer. E passò alla Cosa in attesa di trovare con i suoi compagni il nuovo nome da dare ad un partito finito sotto le macerie di un muro il cui crollo fu propedeutico a quello dell’Unione Sovietica e, più in generale, del comunismo.

La Cosa di Occhetto sfociò nel 1991 nel Pds e nella Quercia, acronimo e simbolo -rispettivamente- del Partito Democratico della Sinistra. Seguirono sette anni dopo i Democratici di sinistra senza più il partito, passato generalmente di moda con l’irruzione di Berlusconi nella politica. E infine, dopo altri nove anni, tornò il Partito, con la maiuscola, seguito dal semplice aggettivo “democratico”, di cultura o ambizione americana, nelle corde del suo primo segretario Walter Veltroni. La rinuncia pur nominalistica alla sinistra, rimasta solo nei titoli del radicalismo verde e socialista, segnò un’altra rottura con la tradizione e la cultura dei comunisti, che avevano immaginato alla loro sinistra, appunto, solo i pidocchi nella criniera di memoria togliattiana.
Pensate un po’ in quale pur paradossale e incidentale intreccio politico, culturale, ideologico è finito il povero Conte alla presidenza di una formazione che già ha perso da tempo la caratteristica dichiaratamente movimentistica, appunto, a vantaggio della formula partitica. Ma ha perso ormai anche la discendenza da Grillo. Che lo ha disconosciuto come figlio, disertando anche le urne, per come lo avrebbe ridotto Conte: a immondizia, sia pure “compostibile”. Dalla quale chissà cosa -la Cosa, appunto, con la maiuscola – potrà derivare dopo il passaggio per l’assemblea costituente programmata dall’ex presidente del Consiglio con procedure contestate da un garante presosi evidentemente troppo sul serio. E in fondo caduto nella trappola, diciamo la verità, di un contratto di consulenza che, visto a posteriori, con tutta l’arbitrarietà di un’analisi di questo tipo, forse non parve vero a Conte di accordargli.

Quel contratto è bastato e avanzato per tirare giù il fondatore e sovrano del MoVimento 5 Stelle dal suo trono, trascinandolo via via in quel ruolo o in quel problema che lo stesso Conte ha definito “marginale” disinibendo Grillo nella reazione. Ed essendo a sua volta restituito all’immagine del “Mago di Oz” che Grillo gli aveva affibbiato già una volta, rinunciandovi poi con quel benedetto, o maledetto, contratto di consulenza da 300 mila euro l’anno.
Probabilmente Grillo esagera a scaricare su Conte tutte la responsabilità della crisi pentastellata. E a ignorare, esorcizzare, ridurre le sue, di responsabilità. A livello almeno di comunicazione, che è poi la remunerata competenza dallo stesso Grillo rivendicata.
A Conte, d’altronde, è capitato anche a me, e di recente, di attribuire qualche errore in più di quelli commessi, come la perfezione -dovuta invece a Mario Draghi, suo successore a Palazzo Chigi- della pratica di promozione di Dario Franceschini da ministro prudentemente dei Beni culturali a ministro, più aulico ma meno prudente, della Cultura. Ma Conte, benedett’uomo, deve pur riconoscere di avere anche lui delle responsabilità nella gestione di quella che è diventata una Cosa. Egli deve pur convenire che non solo come presidente del Consiglio, cambiando maggioranza da un giorno all’altro, ma anche come presidente del movimento si è assunto troppe parti politiche in commedia, come si dice in gergo popolare.
Pure a sinistra, dove ha voluto collocarsi fra i dubbi, le resistenze e ora pure i dileggi di Grillo, sino ad essere promosso al “punto di riferimento più alto dei progressisti” dal generoso Goffredo Bettini, l’ex presidente del Consiglio ha finito più per creare problemi che per offrire soluzioni. Prima, per esempio, rompendo col Pd di Enrico Letta per accelerare la fine del governo Draghi e l’arrivo della Meloni a Palazzo Chigi. E poi ingaggiando col Pd di Elly Schlein una partita più di concorrenza che di alleanza, più di impuntature che altro. Ne è appena derivata la clamorosa sconfitta del campo ristretto da Conte in Liguria, a vantaggio di un centrodestra cui l’elettorato ha confermato, anche senza l’autorizzazione della solita magistratura, l’onere di governare.
Pubblicato su Libero
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