Quel processo alla politica nelle piazze contestato da Aldo Moro

Dal Dubbio

Più degli scritti di Aldo Moro dalla prigione “del popolo” in cui lo avevano rinchiuso le brigate rosse prima di ucciderlo – missive evocate da Domenico Giordano sul Riformista- la lettera di Giovanni Toti dai suoi arresti domiciliari e, più in generale, la vicenda giudiziaria che gli è già costata senza un processo la carica di presidente della Regione Liguria, e a quest’ultima l’amministrazione liberamente eletta dai cittadini, mi ha ricordato il discorso pronunciato da Moro a Montecitorio, a Camere riunite congiuntamente, il 9 marzo 1977 per il caso Lookheed.  Quello degli aerei di trasporto militare venduti dall’omonima società americana all’Italia con tangenti che sarebbero poi costate la condanna dell’ex ministro della Difesa Mario Tanassi da parte della Corte Costituzionale. Che era allora competente, su stato d’accusa del Parlamento, a giudicare reati ministeriali, e non solo -come adesso- il presidente della Repubblica per alto tradimento o attentato alla Costituzione.  

Mimmo Pinto

         In quel discorso l’allora presidente della Dc, difendendo non solo il suo  amico e collega di partito Luigi Gui, uscitone indenne, ma anche Mario Tanassi, in quanto “alleato”, come tenne a precisare, protestò contro il lottacontinuista Mimmo Pinto, eletto nelle liste di Democazia proletaria.  Che era intervenuto prima di lui nella discussione avvertendo quanti avevano avuto la disavventura di governare che sarebbero potuti anche scampare ai tribunali ma non alle piazze. Esse sarebbero state con loro severissime. “Noi non ci faremo processare in piazza”, gli rispose Moro affidandosi al “potere penetrante dei giudici”: quelli dello Stato di diritto e della Costituzione.

Aldo Moro

         Già ministro della Pubblica Istruzione, della Giustizia, degli Esteri, cinque volte presidente del Consiglio, per non parlare dei cinque anni trascorsi alla guida della Dc come segretario e dell’esperienza di professore universitario, fra l’altro, di filosofia del diritto, il povero Moro era destinato a morire dopo più di un anno, condannato da un fantomatico tribunale del popolo, oltre che dalla debolezza, a dir poco, dello Stato che avrebbe dovuto proteggerlo. E solo grazie a quella terribile fine personale si risparmiò lo spettacolo successivo non solo della sua Dc e dei suoi alleati ma della politica, in genere, processata sulle piazze. Ma processata, paradossalmente, a sostegno di procedimenti avviati da una magistratura per niente imbarazzata di un aiuto così scandaloso e di per sè eversivo.

Elly Schlein in piazza a Genova contro Toti

         Che cosa è stata se non un processo in piazza quella manifestazione svoltasi a Genova per reclamare le dimissioni di Giovanni Toti da presidente della Regione Liguria che non erano ancora riusciti a strappargli magistrati d’accusa e giudici trattenendolo agli arresti domiciliari con ordinanze che neppure un ministro della Giustizia come Carlo Nordio, già pubblico ministero, è riuscito a capire, e tanto meno a condividere. Una piazza, quella di Genova, che ha voluto anticipare, fra l’altro, quel campo largo o addirittura larghissimo dell’alternativa al governo attuale in cui – al pari di Davide Varì- non mi capacito come potrà mai riconoscersi, con quale e quanta disinvoltura, un garantista dichiarato come Matteo Renzi. Una disinvoltura, la sua, pari appunto a quella che addebito a magistrati che si lasciano silenziosamente sostenere dalle piazze nell’esercizio delle loro funzioni “penetranti”, come le definiva -ripeto- il povero Moro.

Francesco Saverio Borrelli e i suoi sostituti in Galleria a Milano

         Nella mia non breve esperienza professionale di giornalista ho visto e sentito solo un magistrato dichiaratamente preoccupato, se non addirittura angosciato, degli applausi che raccoglieva in piazza con i suoi collaboratori. Fu -gliene va riconosciuto il merito, pur non avendo personalmente condiviso gran parte delle sue scelte- il capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli agli inizi di quella falsa epopea chiamata nel 1992 “Mani pulite”. L’epopea che sconvolse in modo irreparabile i rapporti fra politica e giustizia voluti dai padri costituenti, che si staranno rivoltando nelle loro tombe, o urne cinerarie, a vedere a che cosa quei rapporti siano stati ridotti.

Dalla lettera di dimissioni di Toti

         Cadrà purtroppo nel vuoto anche il sobrio auspicio  espresso da Toti nella sua lettera da detenuto ai domiciliari, in quasi rigoroso stampatello, dimettendosi irrevocabilmente davanti alla piazza plaudente, che si traccino finalmente “regole chiare e giuste per la convivenza tra giustizia e politica all’interno del nostro sistema democratico”. Il debito al giustizialismo non sarò mai pagato del tutto, e da nessuno.

Pubblicato sul Dubbio

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