
Non so se si debba considerare più sorprendente, esplosivo e quant’alro il no della Meloni a Ursula von der Leyen o ai tanti che in Italia le avevano consigliato di votare, anzi di far votare sì, visto che la premier ha voluto essere eletta al Parlamento europeo avvertendo in anticipo che ne sarebbe rimasta fuori. Consigli formulati pubblicamente alla Meloni, allo scopo di evitare l’isolamento, l’emarginazione, la irrilevanza e altri guai da alleati di governo come i forzisti del vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, da esponenti qualificati dell’opposizione come Enrico Letta, già segretario del Pd, senatori a vita come Mario Monti ed estimatori dichiarati come Pier Silvio Berlusconi ai margini di un evento aziendale finito sulle prime pagine dei giornali per altre valutazioni. Che hanno riguardato, in particolare, tempi e modi non condivisi dell’intestazione dell’aeroporto di Malpensa al padre, con le polemiche ne sono conseguite, il progetto leghista di un aumento delle risorse pubblicitarie alla Rai per ridurne il canone, la mancanza di un leader in cui possano riconoscersi i moderati e la necessità forse conseguente che Forza Italia diventi un partito più agguerrito, “di sfida e non di resistenza”. Parole testuali del capo di Mediaset.

Convinto, ripeto, che ai moderati manchi in Italia un leader evidentemente dopo la morte del padre, Pier Silvio Berlusconi non deve considerare moderata la pur conservatrice -e non fascista, come la dipingono i detrattori- Giorgia Meloni. Della quale tuttavia ha tenuto ad apprezzare la guida del governo, sino a consigliarle amichevolmente- ripeto- di non lasciarsi scappare appoggiare pubblicamente la conferma della presidente della Commissione europea, dopo essersi astenuta sulla sua designazione nei vertici dai quali era partita la designazione. Ma la Meloni non ha voluto ascoltare neppure Berlusconi jr, chissà se a costo di fargli crescere la tentazione, cui il giovane ha finora resistito, di imitare in tutto e per tutto il padre, da cui ha dichiarato di avere ereditato pure “il dna della politica”.

Più ancora della Meloni, tuttavia, sul versante moderato dovrebbe essere Tajani a temere un cedimento di Pier Silvio Berlusconi alla tentazione della politica perché sarebbe francamente difficile immaginare il figlio del Cavaliere in posizione subordinata rispetto al segretario attuale nel partito fondato dal padre, per quanto eletto il vice presidente del Consiglio sia stato eletto al vertice da un congresso nei mesi scorsi. E’ altrettanto difficile immaginare Pier Silvio Berlusconi scendere in politica fuori dal partito fondato dal genitore, di cui ha accettato di ereditare con gli altri familiari anche i debiti, e non solo il ricordo.
Senza volere essere in qualche modo blasfemi, visto di chi e di che cosa si tratta, il rapporto tra la famiglia Berlusconi, nella sua articolazione maschile e femminile, e Forza Italia è un po’ quello intercorso a suo tempo fra la Chiesa e la Democrazia Cristiana, fino a quando il partito scudocrociato non decise autonomamente di sciogliersi con un telegramma dell’allora e ultimo segretario. Che fu Mino Martinazzoli, preso in giro per questo anche da Umberto Bossi, che con la sua Lega ne stava ereditando al Nord una parte consistente di elettorato.

Vedete quante cose, volente o nolente l’interessata, può portarsi appresso il no maturato a sorpresa per molti dalla Meloni alla conferma di Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione di Bruxelles, dopo tante occasioni e immagini fotografiche che le hanno viste accomunate con una certa simpatia nei quasi due anni ormai di esperienza della leader della destra alla guida del governo italiano? La politica è un po’ come la matrioska: la bambola russa che ne contiene tante altre di dimensioni minori ma ugualmente attraenti.
Pubblicato sul Dubbio
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