Giuseppe Conte, l’uomo che non è ancora asceso in cielo a sinistra

Da Libero


          Populista per autodefinizione risalente a quando si presentò alla Camere nel 2018 come “avvocato del popolo” non bastandogli essere il presidente del Consiglio – peraltro  arrivato alla nomina non proprio linearmente, dopo una rinuncia all’incarico e una ripresa  privatissima delle trattative per la formazione di un governo cui nel frattempo era stato chiamato da Mattarella l’economista Carlo Cottarelli- l’ex premier Giuseppe Conte  è ora alla ricerca dell’aggettivo giusto.

Giorgia Meloni

      Gli era piaciuto il “gentile” assegnatogli quasi in dolce stil novo da un ammiratore della prima ora commentando, anzi acreditandogli direttamente la vittoria  formalmente attribuita nelle elezioni regionali sarde alla sua ex sottosegretaria ed ex vice presidente del Movimento 5 Stelle Alessandra Todde. Ma quando Monica Guerzoni, del Corriere della Sera, gli ha dato o proposto del “progressista mite”, egli ha vacillato. Gli è sembrato suonare meglio, anche se del mite, evangelicamente parlando, egli sta mostrando ben poco, almeno negli interventi parlamentari e di piazza contro la premier Giorgia Meloni. Che è forse colpevole di avergli preferito la segretaria del Pd Elly Schlein come antagonista nei prossimi duelli televisivi, non so francamente se più per motivi di genere, diciamo così’, o considerandone la maggiore consistenza elettorale, per il momento, rispetto al predecessore a Palazzo Chigi. Il cui movimento in Sardegna -per restare ai nostri giorni- ha raccolto domenica scorsa quasi la metà dei voti del Pd.  

Palazzo Chigi, 2018

         Ciò che della Meloni sembra irritare di più Conte non è per fortuna- bisogna riconoscerglielo- l’abusata  “matrice” fascista attribuita da altri alla  destra guidata dalla premier, ma la infedeltà nei rapporti con gli elettori. Ai quali là Meloni avrebbe promesso troppo di più e di diverso di quanto sta loro dando- -miseramente”, dice lui-   in termini economici e di sicurezza. Eppure egli a Palazzo Chigi in una delle prime sedute del suo primo governo  lasciò che i suoi ministri si affacciassero al balcone e alle finestre per annunciare al pubblico addirittura “la sconfitta” della povertà col famoso e cosiddetto reddito di cittadinanza. Si sa com’è finito, fra truffe e risultati  modesti, in un copione ripetuto poi con i bonus delle facciate edilizie.

         Scrivevo dell’aggettivo giusto che Conte cerca per il suo populismo. Ma di “giusto”, cm le virgolette, egli ha già trovato il campo che il Pd  vorrebbe realizzare con i grillini per vincere qualche partita locale oggi e poi, quando verrà il turno, la partita nazionale del rinnovo delle Camere. Un campo che il Pd reclama “largo”, com’è tornato a chiedere Romano Prodi in una intervista alla Stampa raccomandando di rinunciare agli “egoismi”. Ma largo è un aggettivo che a Conte non piace, Gli procura l’orticaria. Egli preferisce che il campo sia più genericamente, indeterminatamente, ambiguamente “giusto”: non troppo stretto per non perdere le elezioni ma neppure troppo largo perché lui non possa risultarne condizionante. E ciò -condizionante, ripeto- non solo e non tanto sul piano numerico quanto sul piano personale, anzi personalistico, perché l’uomo ha una certa considerazione di sé, a prescindere dai risultati e dei voti di cui dispone.

D’altronde la prima condizione che egli pose, una volta rotti i rapporti col Pd guidato da Enrico Letta, per riprendere le relazioni col Nazareno dopo le elezioni anticipate del 2022 fu il cambiamento del segretario. Cui lo stesso Enrico Letta si prestò con dimissioni dichiaratamente irrevocabili ma cui gli altri dirigenti non opposero la minima resistenza.

La segretaria del Pd Elly Schlein

In un primo omento l’arrivo della Schlein, davvero a sorpresa con primarie che smentirono le preferenze congressuali degli iscritti, sembrò gradito al capo pentastellato. Il quale si prestò anche a qualche incontro e persino abbraccio di piazza. Ma poi la partita fra i due è diventata sempre più complessa, più difficile da capire, interpretare o solo immaginare, con effetti sempre più destabilizzanti nel Pd. Dove in questi giorni, per carità, festeggia il risultato sardo anche il presidente del partito e mancato segretario Stefano Bonaccini. Che solo qualche giorno fa ha contestato alla Schlein di non avere rispettato gli impegni assunti  con lui personalmente e con gli altri dirigenti del Nazareno in tema di terzo mandato possibile per i presidenti delle regioni e per i sindaci. Ma bisognerà vedere che cosa succederà dopo la sbornia abituale di una vittoria elettorale pur stentata -perché tale è stata- quella appena conseguita in Sardegna.

Nell’isola peratro i voti complessivi dei perdenti nella corsa alla presidenza sono risultati maggiori di quelli vincenti. Ma ciò accade -ho sentito o letto da qualche parte- anche negli Stati Uniti d’America nella corsa alla Casa Bianca. Ma quello americano è uno Stato federale. La Sardegna è un’isola di uno Stato dove ancora a parlare di autonomie regionali differenziate la sinistra sbraita, pur avendole messe essa stessa in Costituzione quando le sembrò di poter così conquistare le simpatie della Lega ancora bossiana e trattenerla sulla strada della ricomposizione dell’alleanza con Berlusconi. 

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