La memoria mutilata della Repubblica di carta dopo le parole di Meloni sulla “vergogna nazifascista”

    Se il 27 gennaio è stato il Giorno della Memoria, con tutte le maiuscole dovute ad una ricorrenza istituita con legge in Italia nel 2000, cinque anni prima che ci seguissero le Nazioni Unite con una risoluzione dell’assemblea generale, fra le poche rispettate anche al di fuori del Palazzo di Vetro di New York, il 28 gennaio è stato il giorno degli smemorati, al minuscolo imposto dal poco edificante livello degli attori.

    Fra questi si distinguono  naturalmente quelli di Repubblica, che hanno trovato spazio ieri solo in sesta pagina per informare i lettori del “passetto” -testuale nel titolo- compiuto dalla premier Giorgia Meloni parlando della “vergogna nazifascista” -sempre testuale e nel titolo- costituita dalla Shoah.

    Eppure il giorno prima, riferendo del  discorso del Presidente della Repubblica nella ricorrenza dell’Olocausto, il giornale del Quirinale di cartone aveva sparato su tutta la prima pagina: “Fascismo radice della Shoah”. E spiegato al suo pubblico che la presidente del Consiglio e tutto il suo governo avrebbero dovuto avvertire almeno un brivido nella schiena, e un po’ di rosso in faccia, di fronte a tanta “lezione” di storia, politica e altro impartita dal capo dello Stato ricordando il contributo delle leggi razziali italiane e dei fascisti allo sterminio degli ebrei pianificato dai nazisti.

    Beh, la Meloni non ha avvertito brividi e rossori e ha detto in tutta tranquillità la sua, coincidente con quella di Sergio Mattarella. E che ti fa la Repubblica? Toglie l’argomento dalla prima pagina, dominata da un nuovo fondo del direttore di autopromozione editoriale, diciamo così, inneggiante alla libertà di informazione mai così ben difesa e rappresentata dal suo giornale dopo “l’attacco della presidente del Consiglio” in evidente, clamorosa “carenza di rispetto”. Una carenza avvertita “dalla Federazione nazionale della stampa, dall’Ordine dei giornalisti e dalla Federazione internazionale dei giornalisti”. E vià giù con la storia che comincia, secondo Molinari, con “l’attacco”, ripeto della Meoni, e non con la sua risposta all’accusa formulatale qualche giorno prima da Repubblica di “vendere l’Italia” con le privatizzazioni. Come se fosse -si è permessa di far notare o capire la premier in una intervista- un qualsiasi Jon Elkann che si vende la Fiat all’estero: non un’auto Fiat, nuova o di seconda mano, ma la Fiat tutta intera, quelle che le auto le ha fabbricate per una vita. E che la Meloni, da ingenua patriota come si ritiene, vorrebbe che continuasse a fare in Italia, anche contando sugli incentivi con la cui storia si intreccia quella della storica azienda nata a Torino.

    Su questa faccenda della Meloni nata 34 anni dopo la caduta del fascismo e 32 dopo la sua sconfitta, se ho fatto bene i conti anagrafici, ma ugualmente prigioniera della memoria sua o dei suoi amici meno giovani o più anziani; di una Meloni che con la pretesa di essere un giorno eletta a Palazzo Chigi direttamente dagli italiani, e non solo nominata dal presidente della Repubblica, o di fare eleggere chi e quando ne prenderà il posto non si rende conto di essersi messa sula strada del manganello dei dittatori del Novecento;  di una Meloni colpevole di avere una sorella e un cognato entrambi in politica; su questa faccenda, dicevo, della Meloni pericolo pubblico numero uno si stanno francamente superando i limiti anche della decenza, oltre che della ragionevolezza. Come si fece a suo tempo, del resto, con Bettino Craxi impiccato a testa in giù nelle vignette del pur buon Giorgio Forattini, e poi con Silvio Berlusconi, e un po’ anche con Matteo Renzi quando si mise in testa, pure lui, di guidare davvero e riformare questo Paese.

   E pensare che fra gli ossessionati della o dalla Meloni ci sono fior di vecchi intellettuali cosiddetti progressisti che nella cosiddetta prima Repubblica rompevano l’anima, e anche qualcosa d’altro e di più, quando dei moderati -nient’altro che moderati- scommettevano sì sulla evoluzione dei comunisti, ma senza ubriacarsi, senza volere bruciare le tappe, o i ponti alle spalle. Persino ad Aldo Moro, che ne aveva gestito la partecipazione alla maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale dopo le elezioni politiche anticipate del 1976, ci fu chi rimproverò, non solo nel Pci ma pure fuori, di non avere permesso sino a pochi giorni prima di essere rapito dalle brigate rosse di portare il partito di Berlinguer nel governo, magari con qualcuno eletto come indipendente nelle liste della falce e martello, consentendogli solo di negoziare l’appoggio esterno.

    In un dibattito radiofonico cui partecipavo per Il Giornale di Montanelli mi sentii dare dell’”osceno” da un intellettuale di quelli che ora contestano l’evoluzione della destra meloniana per non avere preso per buona e definitiva la famosa “sicurezza sotto l’ombrello della Nato” annunciata da Enrico Berlinguer a Giampaolo Pansa. Eppure avevo osato solo osservare che quell’annuncio avrebbe dovuto essere verificato se la Nato avesse deciso di recuperare lo svantaggio accumulato nel riarmo missilistico del patto di Varsavia. Come, guarda caso, l’Alleanza Atlantica avrebbe poi deciso di fare mentre Berlinguer, guarda caso, si ritirava spontaneamente dalla maggioranza.

    Dite pure quello che volete, signori intellettuali di una certa sinistra, ma l’evoluzione della destra meloniana non è stata sinora interrotta da nessun emulo di Armando Cossutta. Che ai tempi di Berlinguer e dell’”esaurimento della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre”, annunciata a una tribuna politica televisiva rispondendo ad una mia domanda sulla Polonia militarizzata, corse a Perugia per contestare “lo strappo”.  

    “I suoi non la seguono”, ha titolato ieri all’interno la Repubblica dopo la “vergogna nazofascista” dell’Olocausto lamentata dalla Meloni all’unisono col presidente della Repubblica. Ma i “suoi” chi? Ne aspetto l’elenco.

Pubblicato su Libero

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