Quando Sergio Marchionne propose a Mario Sechi la comunicazione della Fiat

    Nei 56 anni che sta per compiere in questi giorni, 29 più di me che collaborando con lui al Tempo mi ci affezionai un po’ come al figlio maschio non avuto, ma tanto desiderato accanto all’unica figlia felicemente riservatami dalla vita, a Mario Sechi è accaduto qualcosa di rado che vale  la pena raccontare mentre è impegnato a difendere e condividere da direttore di Libero la delusione e quant’altro procurati a Giorgia Meloni da quella che fu la Fiat degli Agnelli. Che poi Sechi prima di approdare alla direzione di Libero sia stato il capo dell’ufficio stampa della premier passando per la direzione dell’agenzia Italia, dell’Eni, è un puro caso, credetemi. Un caso del quale mi dispiace francamente che ogni tanto gli vedo contestare come una colpa in qualche salotto televisivo, come se ne dovesse ancora rispondere. O dovesse riscattarsene sbertucciando la Meloni, o comunque prendendone le distanze “almeno una volta”, lo ha recentemente supplicato il comune amico Antonio Padellaro, spalleggiato col sorriso d Lilli Gruber, se non ricordo male.

         E’ accaduto di speciale a Sechi, in particolare, di apprendere di un suo editoriale a suo tempo sull’omonimo quotidiano romano che guidava letto e condiviso davanti al Consiglio di amministrazione della Fiat da Sergio Marchionne fra la sorpresa – non dico di più per carità professionale- di parecchi colleghi giornalisti che evitarono poi di riferirne. Cosa che sospetto avesse spinto Marchionne a seguirlo ancora di più e ad apprezzarlo. Sino a chiamarlo un giorno per invitarlo a raggiungerlo di prima mattina a Torino per fare colazione insieme. Ne nacque l’offerta di  responsabile della comunicazione della Fiat. Seguì un incontro a tre con Jhon Ekann, al termine del quale un commesso, accompagnando Sechi all’auto che lo avrebbe riportato in aeroporto, si spinse a dirgli “Arrivederci”, con l’esperienza che si era fatto delle persone in visita da quelle parti.

         La cosa invece finì lì. Il seguito, ve lo confesso, cioè il motivo della mancata nomina non lo conosco davvero per avere sempre avuto il pudore di non chiederlo a Sechi. Se avesse voluto, avrebbe potuto raccontarmelo lui. Se non me lo ha raccontato, avrà avuto le sue buone ragioni, che neppure da padre immaginario oserei chiedergli tuttora, pur avendo ogni tanto avuto occasione di sentirci, anche nel giorno dell’insediamento alla direzione di Libero. Dove però lo leggo in questi giorni- a proposito della polemica scoppiata fra la Meloni e Repubblica, un po’ come a tempi della Repubblica di Carlo De Benedetti con Silvio Berlusconi e, prima ancora, con Bettino Craxi- finendo sempre con la memoria a quella scintilla scoppiata fra lui e Marchionne. E spenta -temo- da Jhon Elkann, il nipote del mitico Gianni Agnelli, “l’avvocato” di cui il compianto Gianfranco Piazzesi si lamentava con me delle telefonate che riceveva di prima mattina per soddisfare la sua curiosità. E io, di rimando, mi lamentavo di quelle di Sandro Pertini, che una volta mi buttò giù dal letto per coinvolgermi emotivamente nella colpa che si dava di non avere fatto o fatto fare tutto il possibile, sul posto della tragedia, per salvare dalla morte il bambino caduto in un pozzo a Roma. Era il povero Alfredino Rampi.

         “Da una parte -ha scritto Sechi non più tardi di ieri, sempre a proposito della guerra dichiarata dalla Meloni alla Repubblica degli eredi Agnelli  o viceversa, come preferite- c’è una leadership politica che sottolinea la simbologia del produrre in Italia, dall’altra un gruppo che ha la testa smarrita in Francia. L’evento traumatico anticipatore di quello che sarebbe accaduto arriva nel 2018 con la morte di Sergio Marchionne. Un momento tragico non solo per il settore dell’auto, perché la sua scomparsa è stata uno shock che oggi è visibile nell’assenza di un punto di riferimento per l’intera industria italiana, la sua economia trasformatrice, la manifattura d’alta gamma. Non poteva esserci un successore. E non c’è stato”.

         “Sergio Marchonne -ha continuato a incidere Sechi su Jhon Elkann e sul franco-portoghese Carlos Antunes Tavares Dias, amministratore delegato di Stellantis- non era solo un manager geniale, era prima di tutto un patriota, Lo feriva essere chiamato “il manager canadese”, anzi lo faceva “incazzare” per dirla con le sue parole (anche questo abbiamo visto, cercare di strappare a una persona la sua bandiera). Era un duro negoziatore, un punto di riferimento, un uomo ricco di cultura e capacità di visione. Che è oggi l’interlocutore?…..Non si sa. Tutto è sospeso a mezz’aria. Quelli che fanno finta di saperla lunga liquidano queste domande con la frase “è solo un problema di comunicazione”. No, è un tema che in realtà riguarda la qualità della leadership dell’industria dell’auto nel nostro Paese”.

         E’ difficile dare torto, francamente, al mio mancato figlio maschio. E riconoscersi nel nipote per niente mancato del pur mitico avvocato che tanti in Italia imitavano mettendosi l’orologio sul polso della camicia, o ne sistemavano una foto sul comodino, come fece per un certo tempo persino Silvio Berlusconi. Altri tempi, altri uomini, altri gusti.

Pubblicato sul Dubbio

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