
Interpretare i silenzi è sempre difficile. Ricordo -ahimè- il divertimento ma anche il fastidio che verso la fine degli anni Sessanta procuravano ad Aldo Moro le interpretazioni dei lunghi silenzi nei quali egli si chiudeva dopo avere lanciato qualche proposta imprevista o avere fatto qualche riflessione inattesa. Gli ancora amici o colleghi di corrente dorotea lo avevano appena allontanato da Palazzo Chigi per scavalcarlo a sinistra nei rapporti col Psi, ma soprattutto con l’opposizione comunista.

A quest’ultima, esclusa con Moro fra il 1963 e il 1968 da una maggioranza rigorosamente “delimitata” di centro-sinistra, col trattino, pur di trasferirsi dalla segreteria democristiana alla guida del governo Mariano Rumor si era reso disponibile, d’intesa con i socialisti di Francesco De Martino, a un certo riguardo. Egli si era proposto, testualmente, per una “edizione più incisiva e coraggiosa” del centrosinisra, senza più trattino e “aperto ai ontributi” delle opposizioni.


A Guido Quaranta e a me che lo inseguimmo a Terracina, dove lui andava al mare ogni mattina raggiungendo la famiglia in completo grigio per leggere i giornali sotto l’ombrellone, Moro disse alquanto spazientito, prendendosela però più con altri assenti che con noi: “Quante cose riuscite a farmi pensare”. Pronta ma inutile fu la nostra offerta a raccogliere il suo recondito, vero pensiero in vista di una sessione autunnale del Consiglio nazionale della Dc che doveva ratificare la soluzione balneare appena data alla crisi di governo, col ricorso al solito Giovanni Leone, in attesa stavolta di Rumor a Palazzo Chigi. Cinque anni prima il povero Leone era stato scomodato d’estate in attesa dell’arrivo proprio di Moro alla guida del primo governo “organico” di centro-sinistra, ripeto, col trattino.
Ce ne tornammo a Roma, Guido ed io, con la coda fra le gambe. Non potemmo annunciare dai nostri rispettivi giornali –Paese sera e Momento sera- nessuna rivelazione. Po l’ex presidente del Consiglio si sarebbe presentato al Consiglio nazionale democristiano uscendo dalla corrente dei dorotei, scavalcandoli a sinistra con la proposta della famosa “strategia dell’attenzione” al Pci e passando all’opposizione interna con un gruppo di persone che altro non potevano e non dovevano essere chiamati che “amici dell’onorevole Moro”.

Mi avvalgo di questa premessa autobiografica, della cui lunghezza mi scuso, per dire al nostro pur ottimo Paolo Delgado che mi sono un po’ ritrovato nelle stesse condizioni di allora leggendo la sua lettura del silenzio di Giorgia Meloni -almeno sino al momento in cui scrivo- di fronte alle polemiche scatenatesi per quelle centinaia di braccia levatesi a Roma per ricordare, a 46 anni di distanza , le tre giovani vittime di un assalto, e conseguenti disordini, alla sezione missina di via Acca Larenzia.

Delgado ha trovato o letto in quel silenzio uno spirito persino di “revanscismo” della linea della Meloni. Che, pur sapendo di non correre poi grandi rischi elettorali, nelle dimensioni alle quali è riuscita a portare la sua destra, se si dissociasse anche lei da quelle braccia alzate da “imbecilli”, come li ha chiamati il suo devoto Giovanni Donzelli, se n’è stata muta per coerenza con la sua storia politica. Che non intenderebbe confondere con quella di Gianfranco Fini: l’uomo che a Fiuggi -ha raccontato lui stesso di recente- uscì “per sempre dalla casa del padre” procurandosi l’accusa di tradimento, anche se era stato ben attento a conservare nel simbolo di Alleanza Nazionale la fiamma del precedente Movimento Sociale. Una fiamma della cui opportunità adesso lo stesso Fini ritiene si possa “discutere”, tanta acqua è passata ormai sotto i ponti. E tanto diverse sono diventate le responsabilità della destra. Che è arrivata dove lui non riuscì, cioè alla guida del governo, per avere ceduto all’insofferenza verso un Silvio Berlusconi ancora ben deciso a tenersi stretto il comando della coalizione di centrodestra improvvisata nel 1994. Esplose una rottura dalla quale Fini fu travolto.
Diversamente da Delgado, nella dicotomia gramsciana dell’ottimismo della volontà opposta al pessimismo della ragione, io sono tentato da una interpretazione positiva, appunto, del silenzio della premier. Che ha già tanti problemi di suo, e più consistenti, da affrontare e risolvere come premier dichiaratamente conservatrice in questo 2024 “complesso” – ha detto lei stessa- e particolarmente impegnativo per la presidenza italiana di turno del G7, per lasciarsi logorare dalle polemiche sulla fiamma e dintorni. E col ricorso più o meno parlamentare alla solita magistratura per violazione del reato di apologia del fascismo a suo tempo introdotto dalla legge Scelba come una specie di concorso esterno al fascismo. E’ un reato, ben oltre il divieto costituzionale di ricostituzione del partito fascista, che si presta un po’ a tante letture e applicazioni come quello di abuso di ufficio che si sta provvedendo finalmente, secondo me, ad abolirlo.

Sull’apologia del fascismo siamo ormai appesi ad una vicina pronuncia della Cassazione a sezioni unite appena ricordata, procurandosi tante polemiche, dal presidente del Senato Ignazio La Russa. Forse è il caso di pensare ad un’altra soppressione. A meno che non si voglia davvero credere e sostenere che quelle centinaia di braccia levate in via Acca Larenzia a Roma ogni 7 gennaio, con qualsiasi premier a Palazzo Chigi, siano quell’anticamera o anticipazione di un nuovo fascismo che si sta cercando di accreditare, in buona o cattiva fede poco importa a questo punto. Dentro e persino oltre i confini, visto l’intervento a gamba tesa, particolarmente tedesca, del Partito Popolare Europeo per l’episodio romano. Eppure in Germania si gioca ogni tanto anche con la svastica.
Pubblicato sul Dubbio
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