Il rimpianto della Democrazia Cristiana trent’anni dopo la scomparsa

Le celebrazioni, funerarie o di altro tipo, singole o combinate, a caso o apposta, servono anche a mettere in chiaro cose che prima erano confuse, o avvertite solo in parte.

         Arnaldo Forlani, per esempio, morto di recente a più di 97 anni, è stato solennemente e giustamente celebrato alla Camera quasi in coincidenza con i trent’anni trascorsi da una deliberazione del Consiglio Nazionale scudocrociato da molti considerata la fine della Dc. Ne fu allora autorizzato in effetti uno strano superamento con un ritorno all’indietro, all’originario Partito Popolare, formalizzato dopo qualche mese.

         Si è così ristabilito finalmente con nettezza che Forlani, l’uomo del potere discreto, che Antonio Di Pietro aveva tentato di liquidare plasticamente con quella saliva uscita dalle labbra durante un interrogatorio nel processo Enimont, fu davvero l’ultimo segretario della Dc per più di 50 anni cardine del sistema politico e istituzionale della Repubblica.

 Il Mino Martinazzoli, succedutogli nel 1992 per le spontanee dimissioni di un segretario che non era riuscito a farsi eleggere dai suoi parlamentari presidente della Repubblica, aveva già per la testa ben altro: un partito diverso nella sua apparente, fallace discontinuità. Che lo stesso Martinazzoli avrebbe poi sciolto ricorrendo ad un semplice telegramma, come gli avrebbe rinfacciato con sadismo per tutta la vita un Umberto Bossi che con la sua Lega ne aveva appena cominciato a raccogliere l’eredità elettorale al Nord.

         Ma che cos’era stata la Dc guidata per ultimo da Forlani? Solo il partito della “centralità” da lui rivendicata nel momento in cui, nel 1972, era stato costretto a rinunciare ai socialisti di Giacomo Mancini, usciti spontaneamente dal centro-sinistra per protesta contro l’elezione di Giovanni Leone al Quirinale, e a sostituirli con i liberali in un governo di Giulio Andreotti? Lo stesso Andreotti che, con Forlani ministro degli Esteri e Aldo Moro presidente del partito, avrebbe realizzato quattro anni dopo il primo dei due monocolori democristiani sostenuti dal Pci di Enrico Berlinguer all’insegna della solidarietà nazionale. Più centrale di così…,verrebbe da dire. Una centralità investita dallo stesso Forlani a Palazzo Chigi nel 1980 col recupero del Psi di Bettino Craxi nella maggioranza e poi col pentapartito, comprensivo di liberali e socialisti, guidato dallo stesso Craxi, poi da Ciriaco De Mita e infine da Andreotti, sempre lui, in ultima edizione di capo del governo.

         Proprio per quella sua centralità il compianto Giampaolo Pansa coniò per la Dc il nome di “balena bianca”, non immaginandone lo spiaggiamento. Marcello Veneziani sulla Verità ha appena sfornato, alla memoria, una serie pirotecnica di soprannomi, fra i quali: “il partito metafisico e ubiquitario”, “l’ultima autobiografia della Nazione”, “un minestrone”, “il seminterrato della coscienza nazionale”, “la metropolitana nelle viscere” del Paese, “il partito più di Pilato che di Cristo”, eccetera.

Ma, nel complesso, a parte il non confortante Pilato prevalso ancora una volta nella storia su Cristo, si avverte nell’articolo del fantasioso intellettuale di destra una certa nostalgia dello scudo crociato, che ebbe il pregio,  fra l’altro, di “vivere e lasciar vivere”, anche la destra appunto, associata ogni tanto all’elezione del Capo dello Stato, come nei casi di Antonio Segni e di Giovanni Leone, ma forse anche di Giovanni Gronchi, e una volta persino alla maggioranza del governo di Fernando Tambroni, nel 1960, a costo di scontri di piazza anche sanguinosi.

         In un eccesso di ottimismo o buona volontà il mio amico Marcello ha trovato nei tempi della Dc anche il vantaggio del “caldo, della pioggia e dei venti moderati”. In un eccesso invece di cattivo gusto che forse voleva essere solo spiritoso egli ha invece chiuso le sue confidenze scrivendo di rimpiangere “a volte” la Dc “in bagno, di nascosto, nel pieno delle funzioni corporali”. Come, in verità, capitò una volta di dire al compianto Antonio Martino, in una intervista, del centrodestra post-montiano di cui il suo amico Silvio Berlusconi, chiuso nella reggia di Arcore, parlava ottimisticamente dopo avere fatto poco, secondo lui, per rivitalizzarlo davvero liberandosi di alcuni consiglieri e assumendone altri.

         La stessa impietosa capacità d’analisi ho trovato -sul versante opposto- nell’articolo del direttore del Dubbio Davide Varì che ha appena raccontato della deriva giustizialista della sinistra: sia di quella rappresentata in Parlamento sia dell’elettorato del suo principale partito. Che naturalmente è ancora il Pd, per fortuna non o non ancora il movimento pentastellare o pentastellato di Giuseppe Conte, sotto sotto tentato quanto meno dall’aspirazione di prevalere anche su Elly Schlein.  Che  di tanto in tanto egli incontra e abbraccia nelle piazze, o con la quale accetta di bere una limonata in un bar, come a Campobasso di recente, prima del voto che avrebbe lasciato il Molise ancora di più nelle mani del centrodestra.

Pubblicato sul Dubbio

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