Il pentolone estivo dove l’opposizione di sinistra ha deciso di lasciarsi bollire

         Cinquecentodiciannove milioni di euro destinati alla realizzazione di 7500 posti letto per universitari e trasferiti -d’intesa fra Roma e Bruxelles- dalla terza alla quarta rata dei versamenti europei per il famoso piano di ripresa e resilienza, entrambe incassabili entro l’anno per complessivi 35 miliardi, sono diventati per l’opposizione di sinistra costituita dal Pd e dai grillini l’ulteriore scandalo di questa orrida estate. Di cui la premier Giorgia Meloni e il suo ministro per gli affari europei Raffaele Fitto dovrebbero vergognarsi, quasi quanto la ministra Daniela Santanchè, collega di partito di entrambi e sotto mozione di sfiducia parlamentare per i suoi guai e pasticci aziendali indagati dalla Procura di Milano. O quanto il presidente del Senato Ignazio La Russa del figlio accusato di stupro nella casa di famiglia e da lui invece assolto dopo interrogatorio domiciliare.  O quanto il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro della sua imputazione coatta per rivelazione di segreto d’ufficio. O il guardasigilli Carlo Nordio della pretesa quanto meno intempestiva di mettere finalmente nel codice, con la dovuta grammatica giudiziaria, il reato giurisprudenziale di concorso esterno in associazione di stampo mafioso applicato da anni nei tribunali.

  “Questo governo -ha dichiarato il capogruppo piddino del Senato Francesco Boccia, pretoriano della segretaria del partito Elly Schlein- non è in grado di gestire il più grande progetto di rinascita e sviluppo del nostro Paese. Da oggi è ufficiale che siamo costretti a rinunciare a 500 milioni della terza rata”.  Che -ripeto- passano invece dalla terza alla quarta rata, entrambe di prevista erogazione entro l’anno.

Dalla reazione di Boccia Il Fatto Quotidiano ha ricavato il suo titolo di prima pagina, dove “Fitto auto-taglia mezzo miliardo”. “Gufi in crisi di nervi”, ha commentato, forse non a torto, Il Giornale mettendo tutto insieme nel pentolone estivo nel quale l’opposizione ha deciso di lasciarsi bollire durante quest’estate “militante” della Schlein.

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Quando Sandro Pertini fece al Quirinale lo “sciopero” della firma

I quindici giorni e più lasciati trascorrere da Sergio Mattarella per autorizzare con la sua firma la presentazione al Parlamento del disegno di legge contenente un anticipo della riforma della giustizia, limitato all’abolizione del reato di abuso d’ufficio, ad una rimodulazione del traffico d’influenze, all’uso delle intercettazioni e al ricorso alle manette durante le indagini mi hanno riportato alla mente le due settimane abbondanti trascorse fra il 22 gennaio e l’8 febbraio del 1985, quando al Quirinale c’era l’indimenticato e indimenticabile Sandro Pertini. Che peraltro, diversamente da Mattarella oggi, era nell’ultimo semestre del suo mandato, quando ogni atto o sospiro del capo dello Stato si presta, a torto o a ragione, anche a letture funzionali all’esaurimento davvero del settennato presidenziale o ad una conferma. Da cui -lasciatevelo dire da un testimone e cronista di tante corse al Quirinale- tutti più o meno si sono lasciati tentare, al di là e contro le smentite opposte a giornalisti scambiati per provocatori o pennivendoli.

         Pertini trasecola a gennaio di 38 anni fa leggendo sui giornali del ministro del lavoro Gianni De Michelis, socialista come lui, incontratosi cordialmente a Parigi con Oreste Scalzone e altri protagonisti o attori degli anni di piombo rifugiatisi in Francia per sottrarsi alla giustizia italiana. Il Capo dello Stato, che ha perso il conto dei funerali delle vittime del terrorismo cui ha dovuto partecipare, non crede ai suoi occhi. Telefona all’ambasciata d’Italia a Parigi per informarsi e poi all’interessato direttamente, che cerca di negare o minimizzare l’accaduto facendolo arrabbiare ancora di più.

         Dal Quirinale parte una lettera privata al presidente del Consiglio Bettino Craxi, socialista pure lui, in cui Pertini chiede la rimozione di De Michelis, pur sapendo di averlo a suo tempo nominato ma di non poterne disporre la decadenza. Craxi lo chiama cercando di calmarlo ma finisce anche lui per irritarlo a tal punto che Pertini gli dice che “formalità per formalità”, come lo stesso Craxi dopo qualche anno mi racconterà personalmente, non avrebbe controfirmato nulla come presidente della Repubblica sino a quando De Michelis sarebbe rimasto al suo posto di governo. 

         Il presidente del Consiglio -che ritiene di conoscere bene “Sandro”, come chiama affettuosamente Pertini, e presume anche di essersene guadagnata la riconoscenza per avere quanto meno contribuito alla sua ascesa al Quirinale, pur avendo inizialmente puntato su un altro candidato socialista- confida leopardianamente sulla quiete dopo la tempesta. Ma dal Quirinale continua a piovere sui provvedimenti che arrivano alla firma del Capo dello Stato. La carta è bagnata e Pertini non firma. Alla fine Craxi si arrende e telefona a De Michelis per “ordinargli” -sempre parole del suo racconto- di smetterla di “rompere i coglioni” e di decidersi a scrivere a Pertini per scusarsi, quanto meno. De Michelis obbedisce come Garibaldi e in  cambio il presidente della Repubblica riprende a firmare, pur rassegnandosi alla permanenza del riccioluto ministro al governo.

         Mattarella non è arrivato a tanto per sbloccare la firma al disegno di legge sulla giustizia accennato all’inizio, pur lasciando che certi giornali ricamassero un po’ sulla sua lunga, quasi minacciosa riflessione. Prima di firmare si è probabilmente accontentato dell’impegno assunto con lui direttamente qualche giorno prima dalla premier Giorgia Meloni che sarebbero state tenute in debita considerazione durante il cammino parlamentare del provvedimento le riserve e preoccupazioni da lui espresse sul potenziale conflitto tra l’abolizione del reato di abuso d’ufficio e, fra l’altro, una direttiva europea in tema di lotta alla corruzione. Ma proprio questa direttiva -dannata casualità, che ha procurato a Mattarella e alla Meloni derisioni e critiche del solito Fatto Quotidiano– è stata in poche ore bocciata in commissione alla Camera dalla maggioranza compatta di centrodestra, o di destra-centro.

         “Schiaffo al Quirinale”, ha gridato non il giornale di Marco Travaglio, sbizzarritosi col solito fotomontaggio per rappresentare Meloni e soci in allegro approccio ad una valigia di soldi provenienti o destinati alla corruzione, ma la più compassata Stampa. Che si è rifatta del successo che ha dovuto riconoscere al governo per la grazia a Patrik Zaki appena strappata al presidente egiziano Al Sisi rinfacciando alla Meloni un “doppio gioco” con Mattarella e dintorni sui temi della giustizia. Siamo ormai ai materassi. E la partita parlamentare dell’anticipo della riforma Nordio, bloccato davvero solo sulla strada della “rimodulazione” e simili del concorso esterno in associazione di stampo mafioso, è solo all’inizio, o addirittura al preambolo.

Alla fine il presidente della Repubblica, avvalendosi dell’articolo 74 della Costituzione compreso in una parte riguardante non i suoi poteri ma “la formazione delle leggi”, riconosce al capo dello Stato che “prima di promulgare la legge può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione”. Ma nel capoverso o comma successivo lo stesso articolo stabilisce che “se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata”. A meno che il presidente della Repubblica si rifiuti violando o tradendo la Costituzione: sarebbe un ossimoro per uno come Mattarella. Ossimoro come Nordio considera il reato, non scritto nel codice, di concorso esterno in associazione mafiosa, anche se sembra rassegnato, almeno per ora, a dirlo senza intervenire per rimuoverlo o scriverlo finalmente rispettando la grammatica giudiziaria.

Pubblicato sul Dubbio

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