I conti alla rovescia prodotti dalla sicurezza perseguita da Trump e Vance

         C’è solo l’imbarazzo della scelta, non so se più consolatorio o inquietante, fra i conti o conteggi alla rovescia -contdown in americano- propostici o impostici dalle ultime notizie provenienti dagli Stati Uniti. Cioè dal documento, dossier, rapporto, progetto, manifesto e quant’altro sulla sicurezza avvertita o perseguita dal presidente Donald Trump verso la fine del suo primo anno del secondo mandato alla Casa Bianca.

         Il conto più lungo e drammatico è sicuramente quello dei 20 anni o 73 mila giorni che mancherebbero alla “cancellazione” dell’Europa in crisi di tutto. O alla sua “abolizione”, si è spinto ad auspicare Elon Musk tornato forse nella sopportazione, quanto meno, di Trump e furente per una multa pesante a che per un ricco come lui che rischia di pagare per i suoi affari all’Unione europea. Cancellazione spontanea o abolizione imposta, pur sotto il titolo del documento trumpiano che Antonio Socci su Libero ha voluto ottimisticamente prendere sul serio, ingoiandolo come una pillola contro l’ansia. “Promuovere la grandezza dell’Europa”, dice quel titolo, o titoletto.

         Il conto alla rovescia più breve, che non è sicuramente quello di Socci ma che personalmente preferisco, è quello dei 3 anni e il migliaio di giorni che mancano alla scadenza del secondo e ultimo mandato presidenziale di Trump, peraltro in cammino verso gli 80 anni da lui contestati al predecessore Joe Biden dandogli praticamente dello scimunito.

         Il conto alla rovescia medio, diciamo così, ma pur sempre pessimistico nella valutazione degli umori degli americani, è quello dei quattro anni e dei circa 1500 giorni di Vance alla Casa Bianca, se al vice presidente in carica dovesse capitare la sorte di succedere a Trump nel 2029.

         Sono tutti conti o conteggi al lordo, naturalmente, specie per gli ultimi due, delle sorprese che potrebbero riservarci le cronache politiche americane, che non sono mancate di una certa drammaticità nella storia degli Stati Uniti, dei secoli scorsi ma anche di tempi più recenti.

I paradossi del perdurante, ostinato trumpismo in Italia e fuori…

         Eppure c’è ancora chi, non solo in Italia a cominciare dalla premier Giorgia Meloni, ma anche altrove, vede persino nell’ultimo documento addirittura “strategico” sulla sicurezza dell’amministrazione americana di Donald Trump più un’’occasione che un problema per l’Unione europea. O per l’Europa più in generale. Dalla quale il manifesto avverte invece in corso una “guerra di secessione” coltivata dal presidente degli Stati Uniti in versione, diciamo così, Trumputin: metà Trump e metà Putin. Di cui stanno sperimentando gli effetti gli ucraini al loro quasi quarto anno di resistenza all’invasione cominciata pensando, al Cremlino, di poterla completare entro una quindicina di giorni. La durata effettiva dovrebbe essere già di per sé una sconfitta per una potenza armata nuclearmente come la Russia, ma non si può dirlo, scriverlo o solo pensarlo senza finire nella lista degli scemi o , peggio ancora, dei provocatori.

         L’occasione ottimisticamente attribuita  a Trumputin, ripeto, è quella di avere previsto la “cancellazione” dell’Europa in una ventina d’anni: cinque volte più della guerra condotta contro l’Ucraina dal febbraio 2022, scontando la Crimea ed altri precedenti. Una ventina d’anni che potrebbero servire a noi europei anche a svegliarci, a darci la classica mossa, a imparare a difenderci da soli, e non solo a danneggiarci. A smettere, per esempio, di frignare a sentir parlare di riarmo. O di attacchi preventivi nella guerra cibernetica che si vede meno ma fa male lo stesso, aiutando quella armata.  

         Una ventina d’anni però potrebbero bastarci, ed anche avanzare, a svegliarci e riprenderci se si attribuisce al quasi ottantenne Trump, stavolta a lui più che a Putin, e suoi successori la riserva, la volontà, la tentazione di darci una mano pensando, per esempio, ai militari americani ancora presenti in Europa e agli affari che si potrebbero fare o imporre fra le due coste dell’Atlantico. E’ qui che l’asino rischia invece di cascare. E di Trumputin, questa volta ricomposto, si rischia di subire solo il peggio.

Il silenzio di Giorgia Meloni sul caso di Federica Mogherini in Belgio

A sorpresa, almeno rispetto allo standard al quale ha abituato amici, critici ed avversari, il vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini ha preso le difese di Federica Mogherini. Che si è dimessa da rettrice del Collegio d’Europa e direttrice dell’accademia di formazione dei diplomatici dopo essere stata arrestata, interrogata per mezza giornata, rilasciata ma rimasta sotto indagine della Procura federale belga per frode, turbativa d’asta, conflitto d’interessi e chissà cos’altro.

Si è dimesso, ma dalle funzioni direttive che aveva nella Commissione europea, anche l’ambasciatore italiano Stefano Sannino, coinvolto nell’affare, o malaffare, su cui i magistrati del Belgio se la prenderanno probabilmente comoda, essendo ancora al palo, o quasi, la vicenda nota come Qatergate, esplosa tre anni fa e costata , fra l’altro, gli arresti e la fine della carriera politica dell’allora vice presidente greca del Parlamento europeo Eva Kaili, per non parlare anche del suo ex assistente e tuttora -credo- compagno italiano Francesco Giorgi e di due connazionali.

         “Io ho sempre detto- ha dichiarato Salvini un una trasferta a Bruxelles- che di alcuni magistrati italiani non mi fido. Insomma non ho mai risparmiato critiche ad una parte della magistratura, ma questi del Belgio mi sembrano peggio”.  Ed ancora, andando anche oltre i magistrati: “So che già dicono italian job. Ecco il problema: il risultato è che con questa vicenda gettano discredito sull’Italia”.

         Salvini, che in Italia ha dovuto sudare le proverbiali sette camicie per essere assolto dall’accusa di avere sequestrato su una nave un bel po’ di immigrati clandestini bloccandone o ritardarne lo sbarco, ha resistito con la difesa della Mogherini a tre tentazioni politiche. La prima era quella di cogliere l’occasione per rinnovare le sue critiche e diffidenze verso il funzionamento, quanto meno, degli istituti e uffici comunitari. La seconda tentazione era di trovarsi in sintonia con la Russia di Putin e subordinati, che si son lanciati come squali sul caso Mogherini per screditare il ruolo di difensore dell’Ucraina a ferro e fuoco che svolge l’Unione europea anche senza la copertura degli Stati Uniti. O con una copertura tanto scarsa ed equivoca da essere persino peggiore di una ostilità.

         La terza tentazione alla quale si è sottratto Salvini difendendo la Mogherini, e considerandone la militanza a sinistra premiata con le sue esperienze passate di ministro degli Esteri d’Italia e di alta rappresentante della Commissione europea per gli affari esteri e la sicurezza; la terza tentazione, dicevo, era quella abituale dei partiti e schieramenti del nostro Bel Paese di strumentalizzare contro concorrenti ed avversari i loro eventuali problemi giudiziari.

         Per una volta in tema di garantismo Salvini non si è affiancato ma superato il vice presidente forzista del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani, limitatosi a rivendicare il diritto dell’imputata Mogherini di essere considerata innocente sino a condanna definitiva. E che spero non gli abbia procurato problemi nel partito che gestisce, mi pare, fra mille attenzioni non sempre amichevoli. O del tutto amichevoli.

         Detto e scritto tutto questo, permettetemi che mi chieda perché la presidente del Consiglio Giorgia Meloni non si sia ancora spesa a favore della Mogherini. O lo abbia fatto così poco e male da non essere avvertita da un vecchio cronista come me.

Pubblicato sul Dubbio

Ciò che rimane del Collegio d’Europa dopo le dimissioni della Mogherini

         Tanto tuonò che piovve. E Giuliano Ferrara è sbottato nel turchese del suo Foglio con quel “viva la corruzione” che forse si sarebbe dovuto gridare anche una trentina d’anni fa a Milano e poi in tutta Italia. Ma quasi nessuno osò di fronte all’abuso della lotta alla corruzione superiore, per gravità e consistenza, alla corruzione contestata quasi per principio, per presupposto logico, a chi praticava l’uso ormai generalizzato, e a lungo tollerato dalla magistratura, del finanziamento irregolare, o illegale, dei partiti e, più in generale, della politica.

         Il fondatore del Foglio è sbottato di fronte al caso di Federica Mogherini, arrestata e rilasciata dopo 12 ore di interrogatorio a Bruxelles per una presunta frode nella guida e nella gestione della scuola di formazione dei diplomatici europei affidatale cinque anni fa dopo altrettanti trascorsi come alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e di sicurezza.

         Ancora oggi, sempre a Bruxelles, nei cui uffici giudiziari sembra che si parli un italiano corrente, è ancora al palo o, all’opposto, in alto mare il famoso “Qatergate” esploso tre anni fa, con l’arresto della vice presidente greca del Parlamento europeo Eva Kaili e del suo già assistente e poi anche compagno Francesco Giorgi. Ora, sempre per quella vicenda che era scomparsa dall’orizzonte delle cronache giudiziarie e politiche, rischia la perdita dell’immunità l’eurodeputata del Pd Alessandra Moretti. Magari per essere anche lei interrogata e rilasciata nella botola del silenzio.

         La corruzione a Bruxelles, come quella in Ucraina, che ha mandato al fronte piuttosto che in galera il più stretto collaboratore del presidente Zelensky, viene sfacciatamente cavalcata da Putin nella scuderia del Cremlino per gestirsi da solo col presidente americano Donald Trump la cosiddetta pratica della “pace”, fra virgolette, nel paese da lui invaso quasi quattro anni fa per “denazificarlo” in due settimane.

         Siamo davanti ad uno spettacolo, scenario e quant’altro di corruzione quanto meno della logica e dei rapporti di forza addirittura nella ricerca di nuovi equilibri internazionali dopo l’esaurimento di quelli stabiliti a Yalta un’ottantina d’anni fa a conclusione della seconda guerra mondiale.

         Personalmente preferisco, con Giuliano Ferrara, in un gioco infernale di paradossi, i presunti corrotti a chi ne abusa senza alcuna presunzione, ma con una evidenza rivoltante.   

E viva l’elogio della corruzione fatto da Giuliano Ferrara sul Foglio

         Tanto tuonò che piovve. E Giuliano Ferrara è sbottato nel turchese del suo Foglio con quel “viva la corruzione” che forse si sarebbe dovuto gridare anche una trentina d’anni fa a Milano e poi in tutta Italia. Ma quasi nessuno osò di fronte all’abuso della lotta alla corruzione superiore, per gravità e consistenza, alla corruzione contestata quasi per principio, per presupposto logico, a chi praticava l’uso ormai generalizzato, e a lungo tollerato dalla magistratura, del finanziamento irregolare, o illegale, dei partiti e, più in generale, della politica.

         Il fondatore del Foglio è sbottato di fronte al caso di Federica Mogherini, arrestata e rilasciata dopo 12 ore di interrogatorio a Bruxelles per una presunta frode nella guida e nella gestione della scuola di formazione dei diplomatici europei affidatale cinque anni fa dopo altrettanti trascorsi come alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e di sicurezza.

         Ancora oggi, sempre a Bruxelles, nei cui uffici giudiziari sembra che si parli un italiano corrente, è ancora al palo o, all’opposto, in alto mare il famoso “Qatergate” esploso tre anni fa, con l’arresto della vice presidente greca del Parlamento europeo Eva Kaili e del suo già assistente e poi anche compagno Francesco Giorgi. Ora, sempre per quella vicenda che era scomparsa dall’orizzonte delle cronache giudiziarie e politiche, rischia la perdita dell’immunità l’eurodeputata del Pd Alessandra Moretti. Magari per essere anche lei interrogata e rilasciata nella botola del silenzio.

         La corruzione a Bruxelles, come quella in Ucraina, che ha mandato al fronte piuttosto che in galera il più stretto collaboratore del presidente Zelensky, viene sfacciatamente cavalcata da Putin nella scuderia del Cremlino per gestirsi da solo col presidente americano Donald Trump la cosiddetta pratica della “pace”, fra virgolette, nel paese da lui invaso quasi quattro anni fa per “denazificarlo” in due settimane.

         Siamo davanti ad uno spettacolo, scenario e quant’altro di corruzione quanto meno della logica e dei rapporti di forza addirittura nella ricerca di nuovi equilibri internazionali dopo l’esaurimento di quelli stabiliti a Yalta un’ottantina d’anni fa a conclusione della seconda guerra mondiale.

         Personalmente preferisco, con Giuliano Ferrara, in un gioco infernale di paradossi, i presunti corrotti a chi ne abusa senza alcuna presunzione, ma con una evidenza rivoltante.   

L’eterno “principe ereditario” Pier Ferdinando Casini, 70 anni appena compiuti

         Indicato, registrato, elogiato, sfottuto, secondo le varie sensibilità, come “principe ereditario” e “Quirinabile” da Carmelo Caruso sul Foglio in una cronaca dalla Sala Regina della Camera affollata di personalità, a cominciare dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per una celebrazione del compianto Giorgio Napolitano e dei suoi discorsi finalmente raccolti, il decano del Parlamento Pier Ferdinando Casini è quasi asceso in cielo da vivo.

Egli è stato visto felice come una Pasqua fuori stagione, reduce peraltro a insaputa di tutti da una lunga e assai gradevole intervista strappatagli senza fatica, credo,  per il Corriere della Sera da Fabrizio Roncone in onore del suo -di Casini- settantesimo compleanno. Se non giovane anzianotto, come la buonanima di Amintore Fanfani definiva i quarantenni ancora iscritti e dirigenti del movimento giovanile della Dc, da lui perciò commissariato, se non addirittura sciolto, Casini è un giovane Decano, ripeto ma con la maiuscola.

“Bello” come lo definiva il suo allora capocorrrente Antonio Bisaglia per distinguerlo o affiancarlo all’”intelligente” Marco Follini, sempre insieme anche in nuovo partito dopo la Dc, e nella cosiddetta seconda Repubblica, sino ad una separazione sofferta politicamente da entrambi, che adesso si salutano e apprezzano a distanza, ogni volta che l’uno è insidiosamente chiamato a parlare dell’altro, Casini ha sempre un consiglio da dare, un ricordo da proporre, una vicenda da illuminare con luce diversa dal solito, una preoccupazione da esprimere, una situazione da rimpiangere. E una performance da rivendicare.

Sentite che cosa ha risposto l’ex presidente della Camera e quasi senatore a vita Casini a Roncone che gli ricordava ieri di “avere sfiorato nel 2022 il Quirinale”, dove tutto era apparecchiato sino a quando “non sparecchiò Salvini” spianando la strada alla conferma di Mattarella. “Sa cosa ricordo con emozione di quei giorni?”, ha chiesto a sua volta Casini a Roncone. “L’applauso -si è risposto- che i grandi elettori mi tributarono quando poi feci ingresso nell’aula durante lo spoglio finale…Mattarella, Mattarella…”.

         “Fu l’onore delle armi”, ha chiosato Roncone. Ma al suono, non rumore, delle armi Casini ha risposto ricordando: “La mattina dopo mi svegliai presto, contento di potermi fare la solita camminata veloce a Villa Borghese….però appena arrivo lì, noto un gran trambusto   di corazzieri che stanno facendo le prove proprio per la cerimonia d’insediamento del nuovo”, cioè confermato, “capo dello Stato”. “Li guardo -ha raccontato ancora Casini-con un pensiero un po’ ironico. Perciò, quando un ufficiale s’avvicina per salutarmi, gli sussurro: beh, io l’ho presa bene….ma così forse è un po’ troppo”.

Grande, grandissimo Pier Ferdinando. Se il Parlamento italiano non avesse avuto la fortuna di trovarlo, avremmo dovuto un po’ tutti procurarglielo. Buon compleanno, Pierfurby.

In Procura a Bruxelles ormai si parla correntemente in italiano….

Avverto francamente, almeno per ora, più fumo che arrosto nelle notizie provenienti da Bruxelles, peraltro nel secondo anniversario, cioè tre anni dopo, del cosiddetto “Qatergate”. Che costò la carica e altro ancora alla giovane vice presidente greca dell’Europarlamento Eva Kajli, finita in carcere come l’assistente e compagno italiano Francesco Giorgi sotto l’accusa di corruzione, fra sequestri anche di sacchi di soldi distribuiti presuntivamente, direttamente o indirettamente dal Qatar, appunto, per sostenere la sua candidatura ad ospitare le Olimpiadi del 2036. 

         Ho appena consultato la solita Wikipedia, in mancanza di un archivio giudiziario internazionale accessibile con i miei modesti mezzi, e non ho trovato traccia di una conclusione di quello scandalo che sembrò avere scosso l’intero Parlamento europeo, ma più in particolare la componente o appendice italiana per il coinvolgimento del già citato Giorgi, dell’europarlamentare del Pd Andea Cozzolino  e dell’ex Antonio Panzeri, del partito allora chiamato “Articolo uno”,  fondato da Bersani, D’Alema, Speranza ed altri usciti dal Nazareno per protesta contro Matteo Renzi. Non ho trovato traccia – ho letto poi in qualche cronaca- semplicemente perché non ce ne sono, essendo l’inchiesta ancora al palo. O quasi, comunque sommersa dalla polvere in qualche anfratto.

         Il turno questa volta è toccato agli italiani, per fortuna non parlamentari, Federica Mogherini, Stefano Sannino e Cesare Zegretti, rispettivamente rettrice del Collegio europeo di formazione diplomatica, ambasciatore e manager. Fermati, arrestati e quant’altro sotto l’accusa di corruzione, conflitto d’interessi e altro per una gara sospetta di forniture.   

         I “soliti italiani”, ho letto in titoli e cronache di casa nostra. E deve avere pensato a Mosca anche la portavoce del Ministero degli Esteri, che tuttavia nell’intingervi il biscotto ha preferito mettere nel mirino l’intera Unione Europea in questa congiuntura internazionale. In cui per la guerra in Ucraina in corso da quasi quattro anni è proprio l’Unione Europea, più degli Stati Uniti, la controparte maggiormente scomoda  e odiata dal Cremlino.

         Non conosco personalmente Federica Mogherini, 52 anni compiuti a giugno, già ministra degli Esteri d’Italia e “alto rappresentante” della Commissione Europea per gli affari internazionali e la sicurezza. Mi fido però della rappresentazione fattane sul Riformista di Claudio Velardi da Aldo Torchiaro. Che ha scritto, testualmente e solidarmente in un editoriale: “L’ex dirigente della Federazione Giovanile Comunista e della Sinistra Giovanile, cresciuta a pane, Gramsci e Napolitano, è oggi un’apolide della politica. Nel Pd che l’aveva promossa a massima autorità della politica internazionale europea Mogherini è oggi misconosciuta. Non risultano suoi contatti di alcun tipo con Elly Schlein e con la segreteria del Nazareno. Apprezzata da Massimo D’Alema prima, da Enrico Letta poi e infine da Matteo Renzi, Mogherini ha conosciuto un precipitoso tramonto. Ed è stata confinata nella gabbia dorata del College d’Europe senza più una interlocuzione politica attiva con il centrosinistra italiano. Del nuovo campo largo, per capirci, non aveva il numero di telefono”. E neppure l’indirizzo.

         Mi scuso con Torchiaro, il suo direttore e il mio del saccheggio che ho fatto del suo racconto della rettrice del College d’Europa al secondo anno del suo secondo mandato, voluto personalmente dalla presidente della Commissione di Bruxelles Ursula von der Leyen con le procedure dovute, per quanto contestate da qualche parte.

         Mi scuso infine con i lettori del sospetto che ho -malizioso di scuola rigorosamente andreottiana- che alla Procura federale belga e dintorni si parli, per tempi, metodi e modalità d’indagini, l’italiano giudiziario. Forse anche un po’ più spinto. Che è tutto dire.

Pubblicato su Libero

Il Controcorrente… largo di Cerno nel Giornale di Montanelli

         Incuriosito per ragioni affettive, diciamo così, avendovi lavorato per una decina d’anni dalla fondazione, imparando molto da un maestro come Indro Montanelli, ho aperto anche oggi per primo il Giornale che fu appunto di Montanelli e e da ieri è diretto da Tommaso Cerno. Che lodevolmente rispetto alle distrazioni dei suoi predecessori ha riportato il nome del fondatore al centro e sotto la testata, dove il compianto Indro di sicuro meritava, anzi merita.

         Ho scoperto o rilevato tuttavia che il famoso “Controcorrente”, che impreziosiva in qualche decina  di battute o spazi le prime pagine del Giornale montanelliano, e avevano la precedenza nella lettura specie dei leader politici, ai quali capitava spesso di esserne in qualche modo le vittime, è diventato non solo ieri ma anche oggi, quindi sistematicamemte, la corona, diciamo così, con foticina dell’autore, dell’editoriale quotidiano del nuovo direttore, nell’ ordine non di una decina ma di qualche migliaia di battute o spazi, ripeto. Oggi dedicate alle disavventure dell’incauta segretaria del Pd Elly Schlein, che voleva un po’ umiliare il suo concorrente Giuseppe Conte cercando un confronto diretto con la Meloni alla festa nazionale della destra e ne è stata invece travolta, o quasi.  

Di questa disavventura della Pulzella del Nazareno sono tentato -ma ve lo risparmio, per carità- di immaginare e proporre le poche, pochissime e urticanti righe, quattro o cinque, che le avrebbe dedicato Montanelli. Senza concederle l’editoriale di giornata.

Tra i fioretti della Meloni e gli inciampi della Schlein nelle sue stesse trappole

Per Giorgia Meloni è dunque tempo di fioretti come quello dell’astemia che pratica ogni anno in dicembre, sino a Natale, per guadagnarsi ulteriore fortuna, non essendole evidentemente bastata quella che l’ha portata dov’è: combattuta di certo dalle opposizioni politiche e togate in Italia ma apprezzata all’estero quanto meno per la sua “stabilità”, cioè durata.

Solerti cronisti si sono affrettati a raccogliere e rilanciare la notizia della sospensione alcolica della premier, pur con tutte le tentazioni che avrà a casa e fuori.

         Per Elly Schlein, la segretaria del Pd antagonista della premier nella prospettiva pur non ancora concreta, per ammissione di molti anche a sinistra, dell’alternativa al centrodestra è tempo piuttosto di trappole. Come quella tentata da lei stessa nei giorni scorsi ai danni di Giuseppe Conte reclamando un confronto a due con la Meloni alla festa nazionale della destra, e  costretta poi a rinunciarvi per l’allargamento del duello all’ex premier, e tuttora presidente del movimento 5 Stelle, posto come condizione dalla presidente del Consiglio per apparente questione di cortesia. In realtà, con una perfidia politica da vecchi tempi della Dc, o anche del Pci. La partita fra i due -Schlein e Conte, appunto- per la leadership dell’opposizione e dell’alternativa è infatti apertissima. E la Meloni ha declinato con astuzia il fischietto che la segretaria del Pd aveva cercato di infilarle fra le labbra per mandare in qualche modo Conte negli spogliatoi.

         Dopo essersi sottratta alla trappola rovesciata della partecipazione alla festa nazionale della destra meloniana, la Schlein non ha potuto sottrarsi, quanto meno per dovere di ufficio, a quella tesale sotto traccia a Montepulciano da un bel po’ di correnti e sottocorrenti del Pd, peraltro invitandola a concludere il loro convegno. E lei lo ha fatto togliendosi  il gusto di ritardarne il pranzo.

         La segreteria, più ancora della segretaria, del Pd è ormai più sotto assedio che sotto esame. Solo il buon Pier Luigi Bersani, fra le sue metafore e battute di una simpatia umana indiscussa, scommette ancora, come ha fatto di recente parlandone a Repubblica, sulla “generosità” in politica, fra amici di partito, concorrenti e addirittura rivali. In realtà, la politica è fra tutte la professione forse più dura, più logorante, più rischiosa, anche perché sempre più esposta a infiltrazioni. Quelle della magistratura sono ormai diventate frequenti anche per la sinistra, nonostante questa finga di non accorgersene, voltando per esempio la testa altrove quando vi si sono imbattuti il sindaco e la giunta di Milano ancora sotto schiaffo, per quanto con alcuni imputati la Procura della Repubblica sia già incorsa in clamorose smentite di giudici a carriera ancora unica.

         La Schlein anche o soprattutto dopo Montepulciano rischia di avere più problemi nel suo partito di quanto non gliene procuri Conte nel cosiddetto campo largo, o come diavolo finirà di chiamarsi come ha suggerito per ragioni forse scaramantiche il già citato simpaticissimo Bersani.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 7 dicembre

L’arrivo di Cerno e… il ritorno di Montanelli al Giornale

         Più dell’arrivo dal Tempo di Tommaso Cerno, sopravvissuto all’Espresso e all’esperienza di parlamentare del Pd dei tempi di Matteo Renzi, ho notato il ritorno del compianto Indro Montanelli come fondatore nella testata del Giornale. Un ritorno di cui Cerno nel suo editoriale di insediamento come direttore, succedendo ad un taciturno e malmostoso Alessandro Sallusti, si è voluto intestare il merito.

         “Essere liberali -ha scritto testualmente Cerno- non so cosa voglia dire, so però che per essere liberi si fa una gran fatica. E noi la faremo. Andremo laggiù, controcorrente. Per questo sotto la testata torna il nome di Indro Montanelli”. Che peraltro cominciava ogni giornata che il buon Dio gli regalava nell’avventura del Giornale, dopo il licenziamento dal Corriere della Sera e una breve ospitalità alla Stampa voluta personalmente dall’editore Gianni Agnelli, non trovava pace sino a quando non scorgeva l’argomento del suo  brevissimo Controcorrente in prima pagina. Dove – liquidava in poche battute il malcapitato di turno. O la situazione paradossale del giorno. Quelle poche parole o battute gli stavano più a cuore degli editoriali suoi o di altri. E gli procuravano le maggiori soddisfazioni. Ma anche i peggiori problemi, come quando colse in fallo l’allora segretario della Dc Flaminio Piccoli per “avere perduto la testa” in una riunione di partito e procurò brividi anche a Silvio Berlusconi. Che, da editore impegnato anche in altre attività, temendo ritorsioni mi telefonò in redazione, quasi disperato, per lamentarsene. E un po’ anche per legarsela al dito.

Ma per la rottura fra i due dovettero passare un bel po’ di anni, e di telefonate di sfogo, sino a quando la decisione dello stesso Berlusconi di fare politica e candidarsi direttamente persino alla guida del governo non si scontrò nel 1994 con la paura di Montanelli di perdere la propria libertà…. di indisciplina, chiamiamola così. Gi toccò di andarsene, sino a quando Cerno non gli ha oggi restituito i gradi di fondatore, appunto. La decisione potrebbe portargli fortuna.

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