Il presunto plebiscito che ha confermato Conte alla presidenza delle 5 Stelle

         Mi sembra francamente troppo quel “plebiscito” annunciato in prima pagina dal simpatizzante, a dir poco, Fatto Quotidiano a proposito della conferma con voto elettronico di Giuseppe Conte a presidente del MoVimento già grillino delle 5 Stelle. Un’esagerazione che lo stesso giornale diretto da Marco Travaglio ha contraddetto titolando anche sulla consistenza del risultato. Non il quasi 90 per cento dei votanti trionfalmente annunciati dal partito nel comunicato ufficiale, ma il 58.6 per cento degli “iscritti votanti”, ha pasticciato Il Fatto. Pasticciato, perchè i votanti sono stati un po’ più della metà dei 101 mila iscritti. Il che significa che a confermare Conte presidente del partito è stato pressappoco un iscritto su due: non proprio un plebiscito. Piuttosto una spaccatura.

         A ridimensionare la rielezione di Conte contribuisce anche la circostanza ben poco, o per niente competitiva dell’assenza di uno sfidante. Di solito chi tiene davvero ad una vittoria credibile, diciamo così, evita di correre da solo e si cerca lui stesso un competitore.

         Il voto comunque c’è stato, con tutte le certificazioni notarili del caso, e si è ormai passati a tutti gli effetti, sotto le 5 Stelle, da un primo ad un secondo movimento, come accadde una trentina d’anni fa alla Repubblica, passata dalla prima alla seconda. Si vedrà nel caso del partito ormai di Conte, se e con quali reazioni del fondatore deposto, attese dai fedelissimi che non sono sicuramente soltanto i 6.300 e rotti iscritti  che hanno partecipato alla votazione per digitare no.   

La rete di sicurezza che manca ai magistrati nel referendum su di loro

Sembra una concessione, magari alla corrente alla quale appartiene e che è comunemente considerata a destra nella geografia dell’associazione nazionale delle toghe magistrati, Magistratura Indipendente, ma non lo è per niente la promessa del presidente Cesare Prodi di non politicizzare l’avversione referendaria alla riforma della giustizia targata Nordio. Dal nome del guardasigilli     che se l’è volentieri intestata.

         Il governo -si è impegnato Parodi parlando nel “palazzaccio” romano della Cassazione ad un’assemblea di colleghi in attività o in pensione, o semplicemente passati ad un’altra professione continuando a indossare la toga nel cuore, non sarà l’obbiettivo della campagna referendaria. Lo saranno solo la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, la correlata divisione del Consiglio Superiore della Magistratura, il sorteggio al posto delle relative elezioni spartitorie fra le correnti, l’alta corte di giustizia introdotte dalla riforma. Come se un provvedimento di tale portata, dopo almeno una trentina d’anni di confusione, a dir poco, nella gestione della giustizia, potesse prescindere dal governo e dalla maggioranza che l’hanno concepita. E non nascosta, ma promessa agli elettori che hanno gradito facendo vincere al centrodestra le elezioni anticipate -non dimentichiamolo- di tre anni fa.

         La concessione -o la finta, come dicono a Roma- del presidente dell’associazione nazionale dei magistrati nasce dalla consapevolezza realistica, direi, della stabilità del governo in carica. Che, pur mantenendo i conti sotto controllo, cosa generalmente poco popolare, è riuscito a tenere e persino a migliorare la sua credibilità elettorale. Tanto che gli aspiranti all’alternativa del campo largo ed altre diavolerie in natura sono letteralmente disperati all’idea di una conferma del centrodestra fra due anni, in occasione del rinnovo delle Camere. Dove si sono peraltro accorti nel Pd e dintorni che per la prima volta nella storia della Repubblica potrà patire per il  Quirinale nel 2029, alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella, non solo la stessa donna già arrivata per prima a Palazzo Chigi ma un Capo dello Stato dichiaratamente, orgogliosamente  centrodestra. Di un centrodestra trasparente, non pasticciato, improvvisato e nascosto come ai tempi, nella cosiddetta prima Repubblica, di Giovanni Gronchi, Antonio Segni e Giovanni Leone. Alla cui elezione concorsero dietro le quinte parlamentari dell’allora Movimento Sociale. D’altronde, anche il capo dello Stato provvisorio Enrico De Nicola e il primo presidente Luigi Einaudi non erano certamente arrivati dalla sinistra.

         La stabilità del centrodestra italiano nella situazione interna, per non parlare della situazione internazionale, nel cui contesto la Meloni è ancora più apprezzata, è un doppio handicap per i magistrati mobilitatisi contro la riforma costituzionale in  arrivo. Essi sanno che, perdendo la partita, non potranno realisticamente puntare ad un recupero parlamentare come quello che nel 1988, all’epoca dell’unico governo di Ciriaco De Mita, li salvò dalla responsabilità civile derivata l’anno prima dal referendum abrogativo delle norme ordinarie che li mettevano al riparo totale da errori e inadempienze, volute o non.

         A togliere lor signori togati dal vicolo cieco in cui erano finiti col referendum promosso da radicali e socialisti fu, nel già citato governo De Mita, un guardasigilli socialista come Giuliano Vassalli, nel silenzio imbarazzato dell’ormai ex presidente del Consiglio e compagno di partito Bettino Craxi. Silenzio imbarazzato ma non sorpreso, credo, perché Vassalli era stato tra i pochi socialisti, se non l’unico, contrario al referendum per l’introduzione della responsabilità civile. La sorpresa magari Vassalli la procurò a Craxi lasciando praticamente scrivere ai magistrati del suo Ministero la legge che restituì alle toghe una protezione forse anche superiore alla precedente.

         Quell’esperienza politica e legislativa oggì è irripetibile, per fortuna.

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Il referendum in arrivo sulla magistratura, altro che sul governo Meloni

         Cesare Parodi, il presidente dell’associazione nazionale dei magistrati mobilitatasi con largo anticipo per il referendum cosiddetto confermativo della riforma della giustizia non ancora approvata del tutto dalle Camere, mancandole l’ultimo passaggio, ha appena detto da un raduno dei suoi colleghi – in attività o in pensione, o passati ad altro lavoro ma con la toga ancora sul cuore, come si vantava la buonanima di Oscar Luigi Scalfaro al  Quirinale- che  il governo non sarà l’obiettivo della lotta. I magistrati ne hanno detto, dicono e fanno di tutti i colori con le loro incursioni in campo governativo, fra  le proteste della premier Giorgia Meloni e il sarcasmo, spesso, del guardasigilli Carlo Nordio, ma non perseguono, per carità, la crisi.

         Meloni, Nordio e via via tutti i ministri e i partiti della coalizione di centrodestra dovrebbero ringraziare di tanta generosità e responsabilità Parodi, peraltro appartenente a Magistratura indipendente, la corrente più a destra o meno a sinistra, come preferite, dell’arcipelago politico dell’associazione. Ma credo che non lo faranno perché non sprovveduti, o non ancora, al punto di scambiare lucciole per lanterne, come si dice. La vocazione antigovernativa del sindacato delle toghe, nei riguardi di qualsiasi Gabinetto ministeriale, di destra o di sinistra, impegnato in qualche riforma vera, non verbale, della giustizia è ormai troppo evidente per essere ignorata.

         Ma ciò che Parodi mostra, con la sua sortita, di non avere avvertito con tutti i suoi colleghi è che il referendum in arrivo, diciamo così, sarà ormai sulla giustizia, più ancora che sulla sua riforma. Su come essa funziona, a carriere congiunte di giudici e pubblici ministeri, e con l’autogestione attraverso il Consiglio Superiore della Magistratura eletto dalle correnti.

         Il referendum sta arrivando nel momento forse peggiore per la giustizia gestita dalle norme e abitudini correnti. Sul delitto di Garlasco di una ventina d’anni fa si stanno vedendo cose a dir poco sconcertanti, con un condannato definitivo che sconta la sua pena mentre i magistrati competenti, per territorio e altro, ne stanno demolendo il processo.

         Sul delitto di 45 anni fa del fratello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Piersanti, presidente della regione siciliana, è stato appena disposto l’arresto di un ex questore ed ex prefetto che ha fatto la sua carriera non so se a causa o nonostante gli errori, a dir poco, nelle indagini  sui partecipò a suo tempo, nella Squadra Mobile di Palermo. Non parliamo, poi, di quelle condotte da altri ancora sul delitto del magistrato Paolo Borsellino nel 1992, trentatre anni fa.

         Sull’assoluzione definitiva, ancora fresca di stampa, del compianto Silvio Berlusconi dalle accuse di mafia che gli avevano rovinato una trentina d’anni di vita, proprio Parodi ha praticamente contestato alla figlia Marina il diritto di lamentarsi, come ha fatto in una lettera al Giornale, perché il sistema giudiziario si sarebbe rivelato efficiente. Il treno dell’assoluzione, diciamo così, è arrivato in ritardo, ma è pur sempre arrivato, senza disperdersi.

A Filippi, dicevano i romani. Al referendum, possiamo dire oggi pensando a questa giustizia, con la minuscola. E a questa magistratura..

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La sinistra che Conte si vanta di avere condannato alla sua scomodità

Fra persone normali e/o civili ci si scambia di solito l’invito a stare comodi. Ma Giuseppe Conte, l’ex presidente del Consiglio aspirante a tornare ad esserlo, per ora impegnato solo a farsi confermare elettronicamente, con i vecchi riti grillini,  presidente del Movimento 5 Stelle        , è particolare anche inquesto. Egli si è difeso dall’accusa della vice presidente dimissionaria del partito ed ex sindaca di Torino Chiara Appendino di essere troppo accomodante nei rapporti col Pd, negando di esservisi mai alleato davvero, almeno a livello nazionale. E poi promettendo, assicurando e quant’altro che sarà comunque un interlocutore “scomodo” per chiunque volesse interloquire con lui. Dalla stessa Appendino, nel ruolo che le dovesse toccare nel gruppo dirigente del movimento pentastellato, alla segretaria del Pd Elly Schein e a quant’altri dovessero avere l’occasione di un rapporto politico con cotanta personalità.

         Siamo al paradosso anche fisico, o psicanalitico, di una comodità consistente nella scomodità da infliggere agli altri. Così forse si potrebbe capire e spiegare anche la storia dei rapporti avuti da Conte con Beppe Grillo e, prima ancora di lui, con Matteo Salvini, suo vice presidente del Consiglio nel primo dei suoi due governi, col collega ed amico di partito Luigi Di Maio nel suo secondo governo e con Mario Draghi quando gli dovette cedere Palazzo Chigi, nella scorsa legislatura. E’ stata tutta una storia di scomodità volontariamente vissute, anzi cercate, dentro ma anche fuori dai confini nazionali, perché in politica estera Conte ha ondeggiato fra Stati Uniti, Cina, Russia, da solo o in compagnia di Grillo prima che i loro rapporti si rompessero.

         Lui personalmente e politicamente, col movimento passato più o meno dalle cinque stelle al cinque per cento dei voti locali, chissà quanto a livello nazionale fra due anni, Conte ha sofferto della scomodità così orgogliosamente e ostinatamente cercata. Ma ne ha sofferto anche il complesso della sinistra di cui egli si sente parte come “progressista indipendente”, anche da se stesso in qualche occasione in cui ha cambiato repentinamente posizione su problemi e uomini.

         Con una sinistra ridotta in questi termini a dir poco confusionari sono state un po’ di generosa ingenuità l’altra sera, a Otto e mezzo su La 7, Lilli Gruber e Lina Palmerini a chiedere all’ospite Romano Prodi le ragioni per le quali Giorgia Meloni riesca tenere i conti a posto senza perdere consensi, anzi aumentandoli, e gli antagonisti no. Compreso lo stesso Prodi quando gli capitò di “vincere due volte su Berlusconi”, come ha ricordato in paticolare la Gruber inorgogliendolo, ma poi non riuscendo a governare per più di un anno e mezzo e mandando alla sconfitta prima l’Ulivo, costretto a cambiare persino nome, e poi l’Unione.

         Incalzato imprevedibilmente dalle sue interlocutrici pur simpatizzanti verso di lui, Prodi mi è sembrato ad un certo punto annaspare nelle sue smorfie. Ma alla fine il professore ha dovuto ingoiare il rospo e ammettere che l’ancor suo Pd, dove lui vive praticamente all’attico dispensando consigli a chi glieli va a chiedere, è privo da solo e in compagnia degli altri aspiranti all’alternativa di un programma. Anzi, di una prospettiva. E gli elettori o preferiscono il partito di maggioranza che è diventato quello delle astensioni o votano a destra. Senza neppure turarsi il naso come la buonanima di Indro Montanelli raccomandava a quanti riusciva a convincere a votare per la Dc. Giulio Andreotti se ne rammaricava in pubblico ma, diavolo di un realista, lo ringraziava ricevendolo ogni tanto nel suo studio privato davanti a Montecitorio, a pochi passi dalla redazione romana del suo Giornale.

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L’affanno televisivo di Romano Prodi con Lilli Gruber e Lina Palmerini

         Pur messo a suo agio dalla conduttrice Lilli Gruber, che lo aveva salutato e rappresentato come l’uomo uscito due volte vincitore dalle elezioni sulla buonanima di Silvio Berlusconi, senza riuscire tuttavia – anche se la giornalista  ha omesso di ricordarlo- a governare per non più di un anno e mezzo, in entrambe le occasioni; pur messo, dicevo, a suo agio, Romano Prodi non ha saputo rispondere         alla domanda chiave della sua mezz’ora televisiva a la 7.

         E’ accaduto, in particolare, che l’altra ospite del salotto, Lina Palmerini di 24 Ore, spalleggiata poi a sorpresa dalla conduttrice, ha chiesto a Romano Prodi, compiaciuto del realismo che ha costretto la premier Giorgia Meloni a tenere i conti sotto controllo, un po’ come ai suoi tempi a Palazzo Chigi, perché mai il governo sia riuscito a conservare intatto, se non addirittura migliorare, il consenso elettorale. Diversamente dalla sinistra che, da una ventina d’anni, non vince le elezioni: da quando, proprio con Prodi alla guida dell’Unione subentrata all’Ulivo, essa la spuntò per un soffio grazie ai centomila voti di Clemente Mastella in Campania, premiato per questo con il Ministero della Giustizia. Che l’attuale sindaco di Benevento dovette lasciare, provocando una crisi sfociata nello scioglimento anticipato delle Camere, per un’indagine giudiziaria di dimensioni familiari dalla quale naturalmente sarebbe poi uscio indenne, o quasi, al processo.

         Prodi ad un certo punto, e magari a torto, mi è apparso supplichevole nei riguardi della conduttrice e dell’ospite perché non insistessero a reclamare una risposta, non un borbottio o qualche smorfia delle sue, alla domanda. Che in fondo portava pensiero e retropensiero degli spettatori alla crisi politica, elettorale e persino culturale della sinistra aspirante all’alternativa al centrodestra in un campo accidentato, più che largo come lo definisce la segretaria del Pd Elly Schlein. E come non vuole sentirlo definire l’ex presidente del Consiglio, ora presidente solo del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte. Che ha appena ribadito, difendendosi dalle accuse di remissività mossegli dalla vice presidente dimissionaria del partito Chiara Appendino, di voler essere non un alleato ma uno “scomodo” interlocutore dei dirigenti di casa al Nazareno.

         Quanto più Conte riuscirà ad essere o apparire scomodo, ripeto, nel rapporto col Pd, continuando lo stesso peraltro a perdere voti nelle elezioni regionali di turno, tanto più lo schieramento di sinistra nel suo complesso affonderà nel partito dell’astensione, ormai in maggioranza stabile nel Paese. Altro che l’alternativa al centrodestra, anzi alla “destra estrema”, come la segretaria del Pd usa dire in uscite anche all’estero per rappresentare l’Italia sull’orlo della dittatura, se non già immersavi   sino al collo.

Il sedativo, diciamo così, di Ernesto Galli della Loggia a Elly Schlein

         Lo storico, professore, scrittore Ernesto Galli della Loggia è forse, fra gli editoralisti del Corriere della Sera, quello preferito dall’editore Urbano Cairo. Che però non può dirlo non tanto per riguardo nei confronti degli altri  che scrivono per la sua testata, quanto per quieto vivere, diciamo così. Per non finire nella lista nera -o rossa, se preferite- di una sinistra della quale lo stesso Galli della Loggia si è chiede oggi se abbia davvero un’idea dell’Italia in cui vive, non apparendogli giustamente credibile quella lamentata, per esempio, dalla segretaria del Pd Elly Schlein. Alla quale manca ormai solo l’invito a salire sulle montagne per resistere in armi alla “estrema destra” della premier Giorgia Meloni, da troppo tempo a Palazzo Chigi, decisa a sorpassare anche Silvio Berlusconi, dopo avere superato Bettino Craxi nella storia della Repubblica.

         I giudizi liquidatori della Schlein e amici o alleati, di qualsiasi natura e grandezza sia il “campo” in cui operano per costruire l’alternativa, derivano secondo Galli della Loggia dalla vecchia, solita, perniciosa “convinzione” della sinistra e dintorni che “solo essi sono dalla parte giusta, rappresentando tutti gli altri “il male”. In una concezione “etica” -ha scritto l’editorialista del Corriere della Sera– della politica. Almeno di quella propria, della sinistra.

         L’ultimo, anzi penultimo della Schlein, potendoci aspettarne un altro anche in giornata, è il grido d’allarme lanciato contro la vendita in corso, non nelle edicole ma nel mercato finanziario da parte del nipote maggiore del compianto Gianni Agnelli, dei giornali del gruppo Gedi, compresa La Stampa storicamente di famiglia, a un editore greco del quale evidentemente sono state fornite alla segretaria del Pd notizie poco rassicuranti. Un editore cortigiano, come direbbe Maurizio Landini, o “prezzolato”, secondo il linguaggio dei pentastellati, al servizio della Meloni. Che non si accontenterebbe dei cortigiani o prezzolati di casa.  Datele, per favore, al Nazareno un sedativo.

La premier Giorgia Meloni promossa a pieni voti da Sabino Cassese

Sentivo ieri al Senato la premier Gorgia Meloni parlare di politica estera, e poi le solite invettive dai banchi delle opposizioni, unite solo a criticare e insultare ma incapaci di mettere insieme un documento unico in cui riflettere la loro ambizione ad un’alternativa al centrodestra. magari fra un paio di legislature, e mi chiedevo se Sabino Cassese non avesse fatto un sogno preveggente festeggiando due giorni prima col Corriere della Sera, in una intervista, i suoi 90 anni fra i 27 mila libri accumulati e catalogati nel suo appartamento a Roma.

         Arrivato a parlare della premier, appunto, rispondendo alle domande di Roberto Gressi, il professore emerito anche di una lista d’incarichi politici e istituzionali, mancato presidente della Repubblica in almeno due circostanze, ha detto testualmente: “Meloni studia, è la migliore allieva di Togliatti. Come lui è realista. E ha capito, come prima di lei De Gasperi, che il modo migliore di fare la politica interna è fare la politica estera”.   E dopo De Gasperi, aggiungerei restando ai tempi della prima Repubblica, Giulio Andreotti e Bettino Craxi, in ordino alfabetico.         

         Al solo leggere il nome di Togliatti accostato alla Meloni -Palmiro Togliatti, il più storico dei segretari del Pci, acronimo del Partito Comunista Italianoqualcuno a destra, e non solo a sinistra, si sarà stropicciati gli occhi. Ma ha sbagliato. Ha dimenticato che, già da presidente del Consiglio, la Meloni andò a visitare una mostra romana su Enrico Berlinguer, altro storico segretario del Pci, forse anche più popolare del primo, firmando il registro degli ospiti come una specie di ammiratrice, condividendo con lui una concezione totalizzante della politica, o quasi.

         “Sull’altro fronte -ha non insistito ma infierito Cassese- vedo il vuoto politico, solo slogan che inseguono l’ultima notizia dei giornali. Quando Schlein ha detto che la democrazia è a rischio mi sono cadute le braccia”. Le tiri pure su, professore, per farsele cadere ancora perché non mancheranno occasioni di stupirsi, sconsolato, della segretaria di quel Pd sognato e costruito da Walter Veltroni, salendone al vertice, come un partito “a vocazione maggioritaria”, quale solo la Dc riuscì suo tempo ad essere facendo ruotare attorno a sé la politica italiana per una cinquantina d’anni.

         Mentre Cassese parlava di lei fra i suoi libri, la Schlein era o progettava di essere in Piazza San Pietro, sempre a Roma, fra i dimostranti bipartisan, una volta tanto, per il giornalista della Rai Sigfrido Ranucci, scampato ad un attentato attribuito proprio dalla segretaria del Pd al clima di violenza, odio e quant’altro attizzato ogni giorno, secondo lei,dalla Meloni, dal suo governo, dalla sua maggioranza, dai giornali che la sostengono. Uno strafalcione, questo della Schlein, che le ha peraltro impedito di intestarsi la manifestazione a favore di Ranucci, compiaciuto peraltro di una telefonata di solidarietà proprio della Meloni. Se l’è invece intestata, quella manifestazione, Giuseppe Conte ricevendo, immagino, le congratulazioni di quell’amico così orgoglioso di lui com’è Goffredo Bettini. Che gli ha appena confezionato sul Foglio un abito da statista, illuminato e quant’altro. In grado, pur col suo movimento ridotto ad un bonsai di quello di Beppe Grillo, di assumere lui la guida della pur improbabile alternativa al governo forse decennale, ormai, della Meloni.

E la Schlein?, chiederete forse. Gli sarà “testardamente” al seguito, consolata dal sempre generoso Bettini.

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Il vero appendino di Giuseppe Conte è Goffredo Bettini

Se l’Appendino di Giuseppe Conte ,con la maiuscola del cognome all’anagrafe torinese, è la dimissionaria vice presidente del MoVimento 5 Stelle, quello al minuscolo della sua funzione di gruccia, essenziale in un guardaroba, è Goffredo Bettini, detto anche con una certa simpatia “il monaco” del  Partito Democratico. Che confessa e si confessa, secondo i casi, con chi gli capita a tiro, dentro e anche fuori del suo partito. Un’attività, quest’ultima svolta all’esterno, che l’Appendino, con la maiuscola, ha indicato come origine, causa e quant’altro dei guai elettorali dei pentastellati. I quali  perdono voti in direzione dell’astensionismo o addirittura del centrodestra per la costanza, ormai, di Conte convinto da Bettini, appunto, ad allearsi col Pd, pur cercando ogni tanto di distinguersene con formule più o meno magiche come quella del “progressista indipendente”, o del “campo giusto, piuttosto che largo”.

         Bettini naturalmente non ha gradito la rappresentazione dell’Appendino, sempre con la maiuscola, che avrebbe ecceduto nelle sue caratteristiche di “donna forte e combattiva”. E ha voluto fornire al Foglio la testimonianza della fatica che gli costa confessare e consigliare uno come Conte: “misurato, dialogante, incassatore tuttavia dentro -ha raccontato- un nucleo di convinzioni, punti di riferimento culturale, ideali e valori inossidabili, formato da grandi giuristi liberali e illuminati e del pensiero cattolico progressista”. Lui invece, Bettini, cresciuto fra “i comunisti italiani”, con tutti i loro meriti organizzativi, per carità, anche se non vantati esplicitamente, ma con l’inconveniente di avere perduto la partita con la storia, viste la fine fatta dal comunismo e le contorsioni fra le quali essi hanno poi cercato di sopravvivere al crollo dandosi nuovi nomi e simboli, compreso l’ultimo a mezzadria, condiviso con i resti della sinistra democristiana.

         Dell’”amico” Conte, come ha tenuto a vantarsi, Bettini ha omesso di ricordare e di apprezzare -perché no?, non trattandosi di caratteristiche negative almeno in una misura, diciamo così, contenuta, proporzionata all’uomo e alle circostanze- la furbizia e l’ambizione, ingredienti naturali anche di un politico. Una furbizia, sino allo sconfinamento nella disinvoltura, che  gli consentì  nel 2019, per esempio, di rimanere presidente del Consiglio, dopo uno strappo col vice presidente leghista Matteo Salvini, cambiando non dalla mattina alla sera, ma dalla sera alla mattina la maggioranza realizzandola col Pd. E l’ambizione , dopo la furbizia, di tornare a Palazzo Chigi, se e quando ne verrà il momento, pur disponendo di un partito che è ormai una versione bonsai di quello che ve lo aveva portato nel 2018 sorprendendo non solo gli elettori pentastellati, ai quali era stato adombrato al massimo come ministro della pubblica amministrazione, ma anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il quale si aspettava dichiaratamente, per nominarlo a capo del governo, almeno qualcuno passato per un consiglio comunale.

         A Palazzo Chigi, certo, mira anche la segretaria del Pd Elly Schein “testardamente” impegnata a costruire l’alternativa al centrodestra con un’alleanza comprensiva di Conte. Ci aspira nella logica di un Pd a vocazione maggioritaria, almeno più forte e numeroso di tutti quelli della coalizione, se non il più forte e numeroso di tutti. Ma Bettini, furbo forse anche più di Conte, le ha ricordato sul Foglio che il Pd rinunciò a quella vocazione nel momento in cui si liberò del suo primo segretario Walter Veltroni, che l’aveva teorizzato. Per cui ora al Nazareno potrebbero acconciarsi anche ad un terzo governo Conte, se mai -ripeto- dovesse venirne il turno. 

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.statmag.it il 25 ottobre

Ciò che resta del bonapartismo di Sarkozy e Macron in Francia

Non dico peggio di Nicolas Sarkozy, col quale ha in qualche modo solidarizzato ricevendolo all’Eliseo in visita di commiato, alla vigilia della disavventura carceraria, e non più soltanto giudiziaria, ma il presidente francese Emmanuel Macron sta vivendo poco gloriosamente la fine del bonapartismo nel quale anche lui, come Sarkozy, aveva voluto avvolgersi nell’esercizio delle sue funzioni in ben due mandati.

         In un sistema ridotto come neppure la cosiddetta prima Repubblica italiana era riuscita con i suoi tanti, troppi governi che si succedevano, ad un Macron costretto a produrne ancora di più erano ormai rimasti di Napoleone solo i gioielli custoditi al museo del Louvre. Così mal custoditi che quattro ladri in soli sette minuti, se non ancora meno, sono riusciti a portarne via un bel po’. Ladri anch’essi così poco o male bonapartisti da perderne alcuni per strada fuggendo in motorino dopo avere scalato il museo in un montacarichi. O, com’è apparso al pubblico televisivo, su una scala di pompieri.

         Noi italiani, i cugini, pur debitori dei francesi per l’aiuto fornitoci a suo tempo a realizzare l’unità nazionale, ci stiamo prendendo qualche soddisfazione, diciamo pure la verità. Non per cattiveria, perché a dispetto dell’odio nel quale si svolge il cosiddetto dibattito politico interno conserviamo ancora all’estero l’immagine di “brava gente”, col cuore aperto e generoso. Non per cattiveria, dicevo, ma per rivincita su una serie di torti ricevuti, almeno da quella risatina sferzante di Sarcozy, accanto all’allora cancelleria tedesca Angela Merkel, nei riguardi del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Che già aveva problemi con i suoi oppositori interni e francamente non aveva bisogno di riceverne pure da soci europei e alleati atlantici. Persino all’opposizione qualcuno avvertì il bisogno, come il senatore ed ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini, di eccepire sul comportamento franco-tedesco.

         Poi è toccato ad un altro governo di centrodestra, a quello in carica presieduto da tre anni da Giorgia Meloni, di ricevere da Macron o lezioni non dovute o strappi da concorrenza, diciamo così, sulla strada della costruzione di nuovi equilibri all’interno dell’Unione Europea, in un contesto peraltro di cambiamenti a livello mondiale. Ma l’uomo dell’Eliseo ha trovato stavolta pane per i suoi denti, come si dice. E finirà il suo mandato un po’ desolatamente, mentre la Meloni lo concluderà con la prospettiva realistica, diventata ossessiva per gli aspiranti all’alternativa, di raddoppiarlo, se non addirittura di doverlo interrompere dopo due anni per salire al Quirinale. Dove la spingono i suoi stessi avversari immaginandone l’arrivo con una demonizzazione già risultata propiziatrice tre anni fa alla leader della destra nelle elezioni politiche.

         “Bella”, l’ha recentemente definita il presidente americano Donald Trump facendo andare di traverso certe trasmissioni televisive ai loro conduttori e ospiti. Anche fortunata, aggiungerei della Meloni per avere degli avversari che lavorano per lei ancor più dei suoi alleati. Già Napoleone, del resto, per scomodarlo meno rovinosamente dei bonapartisti a Parigi, preferita i generali fortunati a quelli bravi.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 26 ottobre

L’impermeabilità di Travaglio con Conte e Appendino al vetice delle 5 Stelle

         Marco Travaglio, si sa, ha un debole per Giuseppe Conte, che considera il migliore presidente del Consiglio avuto dall’Italia dopo Cavour. Gli ha fatto spesso più o meno inconsapevolmente da portavoce e da anticipatore nei periodi di governo e di rapporti prima tesi e poi rotti con Beppe Grillo. Ma Travaglio ha un debole anche per Chiara Appendino, appena dimessasi da vice presidente in proroga del MoVimento 5 Stelle per dargli una scarica” dopo le perdite elettorali subite nelle regionali praticando l’alleanza col Pd. Di cui il direttore del Fatto Quotidiano condivide il giudizio dell’ex sindaca di Torino: il partito del “gattopardismo affaristico e consociativo”.

         Come si può uscire dall’impermeabilismo, diciamo così, del pur solito savonaroliano Travaglio, al quale sembrava che piacessero le posizioni nette sullo sfondo di una ghigliottina o di una pira? Se ne esce, a sorpresa, nel modo meno netto. Chiedendo a Conte, come il direttore del Fatto nell’editoriale di oggi dedicato alle 5 Stelle, di non fare l’errore, nel rinnovo imminente della sua presidenza, non contrastata da alcun’altra candidatura, di privarsi dell’Appennino nel “gruppo dirigente”. Dove la signora in versione Cassandra può servirgli a trattenere elettoralmente i dissidenti o a recuperarne i tanti passati al partito di maggioranza che è quello degli astenuti.

         Questa versione o edizione tipicamente dorotea della politica, prima ancora di un partito, è l’estrema evoluzione, anzi involuzione di Travaglio. E anche di Conte se me accetterà il consiglio.  

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