Una partita clamorosa di trappole e reti fra Meloni, Schlein e Conte

         Pur alle prese con uno scenario internazionale da brividi, in cui si intrecciano paci improbabili e gravi allarmi, come il possibile ritorno in Europa alla leva militare, si vedrà poi se e come soltanto volontaria, Giorgia Meloni non si distrae di certo dalla politica interna. Dove ha segnato in poche ore, in una tempesta che sembrava in un bicchiere d’acqua, una rete da manuale infilandosi nella partita del campo largo che festeggiava con la solita enfasi le pur scontate vittorie della sinistra nelle elezioni regionali di Puglia e Campania.

         Quando la segretaria del Pd Elly Schlein, invitata a partecipare alla festa nazionale del partito di Giorgia Meloni a Roma, ha posto come condizione un confronto diretto con la premier, pensando di segnare con ciò un punto nella partita con Giuseppe Conte per la leadership della pur improbabile alternativa al governo, la Meloni le ha tirato un tiro in porta, ripeto, di quelli imparabili.

         In particolare, la premier ha controproposto alla Schlein, come condizione, di allargare il confronto a Conte, essendo anche lui un candidato alla sua successione a Palazzo Chigi, e non volendogli fare il torto, di calcolo o di cortesia, di agevolare l’immagine e la corsa della segretaria del Pd.  Che, anziché fare buon viso a cattivo gioco, come qualcuno al Nazareno avrebbe dovuto forse suggerirle, ha ceduto alla paura di uscire male da un confronto a tre, a vantaggio contemporaneamente della Meloni e di Conte come veri antagonisti. Ha ceduto sottraendosi alla partita come a una trappola e definendo “ridicola” la proposta della Meloni nel frattempo accettata da Conte. Al quale non era parsa vera l’occasione offertagli.

         Le tribune del campo cosiddetto largo si sono improvvisamente svuotate, un po’ come le urne elettorali, e la Schlein si è ritrovata a guardarsi più da Conte che dalla Meloni.

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Quel frutto dannatamente tossico dell’albero elettorale di Mario Segni

A Mario Segni, 86 anni compiuti a maggio, Mariotto come lo chiamava il padre Antonio, presidente della Repubblica fra il 1962 e il 1964, e come lo chiamano tuttora familiari e amici, fra i quali il sottoscritto, saranno fischiate le orecchie in questi giorni in cui si sprecano analisi e proposte per l’astensionismo elettorale tradottosi nel partito di maggioranza assoluta dell’Italia. Una scalata non molto onorevole, francamente, per la rivoluzione che Segni volle, o si intestò nei primi anni Novanta insieme con Marco Pannella, facendo passare il sistema politico italiano dal metodo proporzionale a quello maggioritario. E  cominciando con la lotta ai voti di preferenza,  prima ridotti a uno solo e poi aboliti del tutto per non dare agli elettori l’occasione di sbagliare o addirittura di corrompersi.

         Lo avevo detto a Mariotto, mentre riusciva a convincere persino Indro Montanelli -che prima di conoscerlo e frequentarlo non voleva neppure sentir parlare di legge elettorale per paura di confondere la testa ai lettori-  che le cose non avrebbero funzionato sulla sua strada. Lui, ostinatissimo, da sardo a tutto tondo, era irriducibilmente ottimista. Ma gli elettori, a parte la prima botta del referendum abrogativo delle preferenze plurime, al quale parteciparono largamente facendolo vincere ai promotori tra la sorpresa di politici vecchi e nuovi, vecchi come Bettino Craxi e nuovi come Umberto Bossi, accomunati dall’appello a non votare; gli elettori, dicevo, sono andati via via, inesorabilmente contromano, diciamo così, rispetto al senso unico di Mariotto.

         Mescolata peraltro alla rivoluzione giudiziaria delle cosiddette mani pulite, basata sul sostanziale, presupposto che fossero sporche tutte quelle dei partiti e delle loro correnti generalmente finanziati in modo irregolare, diciamo pure illegale, la rivoluzione di Segni -e di Pannella, ripeto, ormai scomparso da tempo- ha portato il pubblico alla disaffezione, come si dice in gergo quasi scientifico. Piuttosto che riconoscersi non solo nei partiti, ma anche o soprattutto negli schieramenti in qualche modo obbligati dalla logica del sistema maggioritario, gli elettori non vanno neppure al mare o in montagna, come veniva loro consigliato dal Craxi o Bossi di turno, ma semplicemente sono rimasti a casa, preferita ai seggi elettorali.

         A spingere gli italiani ormai refrattari alle urne in maggioranza assoluta -ripeto- non sarà certamente la paura della sanzione proposta dal furbo di turno aprendo su di essa persino un dibattito, o qualcosa che gli assomiglia. A far tornare la voglia e l’interesse al voto, senza criminalizzarlo come interesse al malaffare, potrò essere solo, a mio modesto avviso, il ripristino del sistema proporzionale, che comincia del resto ad essere pubblicamente rimpianto anche da parti politiche che lo avevano ripudiato. Un sistema che già uno statista come Alcide Gasperi aveva proposto negli anni Cinquanta di correggere o compensare con un premio di maggioranza liquidato come una truffa dai comunisti. Che forse se ne saranno pentiti giù prima di cambiare nome, simbolo e altro ancora al partito travolto dalle macerie del muro di Berlino. Altre sono state forse le truffe seguite a quella immaginaria.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 30 novembre

La lezione di logica e di diritto di Augusto Barbera al Pd

         Intervistato dal Corriere della Sera, Augusto Barbera, 87 anni, siciliano di origine e formazione e bolognese d’adozione, presidente emerito, cioè ex, della Corte Costituzionale, ha voluto rilanciare con forza il sì alla conferma referendaria della riforma delle giustizia, o della magistratura, già annunciato e spiegato in un lungo articolo sul Foglio, Che gli ha procurato l’accusa, raccolta dall’intervistatore del Corriere, di tradire la sua appartenenza alla sinistra e di fare “il gioco della destra”.

         “Qualcuno sicuramente lo pensa, finora nessuno me lo ha detto”, ha risposto Barbera. Che ha precisato anzi di avere ricevuto “dal Pd diverse chiamate di apprezzamento”. Sicuramente perà non dalla segretaria Elly Schlein, penso.

“Molti in quell’area- ha detto ancora Barbera- hanno la mia medesima opinione, anche se alcuni preferiscono non esporsi” lasciando rappresentare il Pd contro la riforma. “Io -ha continuato il costituzionalista con una ventina d’anni di attività parlamentare e ancor di più di attività partitica sulle spalle, dal Pci alle edizioni successive- rimango coerente col voto che diedi, da parlamentare comunista, a favore del nuovo processo” di rito cosiddetto accusatorio. Trasferito nell’articolo 111 della Costituzione, nel 1999, con la formula del “contraddittorio fra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Terzo rispetto anche al pubblico ministero in una carriera però che è rimasta unica e che la riforma finalmente separerà se verrà confermata nel referendum.

         All’argomento speso contro questa riforma attribuendola al famoso “piano” massonico di Licio Gelli, scoperto nella propaganda anche da Giuseppe Conte e sodali, il presidente emerito della Corte Costituzionale ha opposto questa osservazione, o questo ricordo: “Non mi risulta che quando è stata attuata la riduzione dei parlamentari”, promossa dai grillini e subìta dal Pd che partecipava al secondo governo di Conte, “sia stato contestato ai 5 Stelle che era prevista nel piano di Gelli”. “Il punto è che ci dobbiamo liberarci di certi fantasmi”, ha detto Barbera.  

I fantasmi non sono solo quelli dei morti. Sono anche quelli dei vivi che usano argomenti morti, contraddetti dalla realtà, come quello dei pubblici ministeri che con la separazione delle carriere perderebbero la loro indipendenza tutelata dalla Costituzione anche nel testo modificato dalla riforma. Pubblici ministeri che tuttavia si sostiene siano condannati anche a diventare più forti di adesso. Di che cosa allora hanno paura?

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Cairo d’Italia e buon senso d’ Egitto nel salotto televisivo della Gruber

         Cairo, non la capitale d’Egitto, ma il Cairo d’Italia, 68 anni compiuti sei mesi fa, può ben essere considerato, senza volere fare torto ai tanti eredi attribuiti alla buonanima di Silvio Berlusconi, il più riuscito della scuderia del Biscione. Da segretario temporaneo del proprietario dell’ancora Fininvest, poi evoluta in Mediaset, Cairo è stato capace, nel tempo libero lasciatogli dalla passione sportiva, di diventare editore del Corriere della Sera, senza subire i danni subiti da chi lo aveva preceduto nella scalata al maggiore quotidiano italiano, e di una rete televisiva piccola di certo rispetto alla Rai , cioè La 7, ma più agile e spesso capace di fare opinione di più, specie nel salotto di Lilli Gruber. Alla quale basta la mezz’ora assegnatale dal palinsesto per lasciare il segno più delle maratone di Enrico Mentana. Al quale adesso riuscirò magari più antipatico del solito, temo.

         Nel salotto della Gruber si trovano spesso, per carità, giornalisti del Corriere, anche di vasta cultura ed esperienza, ma il più frequente e il più loquace, direi anche il più rispettato e assecondato dalla conduttrice, collegato dalla sua postazione di direttore del Fatto Quotidiano, è Marco Travaglio. Che finisce quasi sistematicamente per risultare, quanto meno, quello che dà la linea, come si dice nel nostro mestiere. O lascia il segno, per volere essere rispettosi, o meno irrispettosi della Gruber e del direttore del telegiornale de La 7.  E non è il segno, naturalmente, del Corriere dell’editore Cairo e del direttore Luciano Fontana.

         Ieri sera, collegato con la Gruber appunto, tra i sorrisi sarcastici e le interruzioni del corrierista Beppe Severgnini, un ancora più sarcastico Travaglio ha dato lezioni di guerra, e persino di diplomazia, assegnando la vittoria della guerra in Ucraina a Putin. Che l’aveva cominciata quasi quattro anni fa, ormai, per concluderla entro una quindicina di giorni   con la fuga o la cattura di Zelensky, e la sta ancora continuando alla ricerca di qualche altro uno o due per cento di territorio ucraino da occupare e annettere.

         Con l’aria di volersene dolere e di essere loro solidale, Travaglio ha rappresentato gli ucraini non dico, per carità, tutti nazisti come li considera Putin dal momento in cui si è proposto dichiaratamente di “denazificare” il paese sfortunatamente limitrofo alla Russia, ma ingenui. Caduti nella trappola prima di Biden, quando era presidente degli Stati Uniti, e poi di noi europei, che sembriamo decisi a insistere anche contro il successore di Biden alla Casa Bianca, di resistere a un Putin armato fino ai denti. E deciso anche non tanto all’uso quanto al suicidio del nucleare.

          Mi chiedo con sommesso scetticismo se Cairo ha il tempo e la voglia di vedere e sentire questo spettacolo sulla “sua” rete. E se il suo televisore resiste agli oggetti che il buon senso vorrebbe che lui gli lanciasse contro prima di cercare di cambiare canale.

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L’antidoto all’astensionismo è il sistema elettorale proporzionale

“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”, scrisse Giuseppe Ungaretti raccontando la prima guerra mondiale alla quale partecipava.

Non siamo in guerra in Italia, anche vi si gioca ogni tanto nelle città fra le proteste di qualche sindaco contro il ministro dell’Interno intenzionato non a scappare ma a vincerla, una volta che l’amministrazione locale l’ha di fatto incoraggiata condividendo le motivazioni degli agitatori ormai professionisti, e a tempo perso pure razzisti.

         No, ripeto. Non siano in guerra. Ne siano solo circondati. Ma quelle foglie che cadono dagli alberi, spesso anche fuori stagione, nelle primavere elettorali e non solo nell’autunno di questa stagione conclusasi col voto in Veneto, Puglia e Calabria, sono un po’ come gli elettori che non votano. E non occasionalmente ma a posto, votando in fondo anch’essi ma a modo loro, contro tutti indistintamente i partiti e gli schieramenti nei quali si collocano.

         L’assenteismo è arrivato ormai alla consistenza di una maggioranza non relativa ma assoluta, come Giuseppe Conte, Roberto Fico ed Elly Schlein, in ordine alfabetico, più comprimari, hanno dimenticato  saltellando allegramente per la vittoria a Napoli, dove la partecipazione alle urne è scesa sotto il 40 per cento.  E per effetto di questo fenomeno la sinistra nel suo complesso ha potuto vincere un turno elettorale in una regione dove ha perso 800.000 voti: ottocentomila in lettere.   

         Un fenomeno, dicevo. Che non è di ordine sociale o persino penale, come l’ho visto trattare di recente su un cosiddetto grande giornale proponendo di ripristinare l’obbligatorietà del voto e la sanzionabilità di chi si sottrae. Magari riempiendo i campi di calcio requisiti come prigioni. Il fenomeno è solo e tutto politico. E i politici, professionisti o dilettanti che siano, di sinistra ma anche di destra, e pure del fantomatico centro letteralmente incapace di vivere da solo, in qualsiasi combinazione improvvisata a ridosso del voto, debbono decidersi ad affrontarlo.

         Poiché non si può naturalmente tornare alle pratiche clientelari del compianto armatore Achille Lauro proprio a Napoli, distribuendo una scarpa prima del voto e l’altra dopo, bisogna affrontare il toro per le corna. Cioè decidersi, ripeto, all’ennesima riforma della legge elettorale, anche a costo di fare rivoltare le ceneri di Indro Montanelli. Che di legge elettorale non voleva sentir parlare. E quando Mario Segni gli strappò l’attenzione e lo convinse a sostenerlo prima per l’’abolizione delle preferenze e poi per il passaggio al sistema maggioritario da quello proporzionale, gli procurò l’ultima, forse, e più grave crisi di depressione della sua vita.

         Nel marasma seguito a quella riforma con tanto di timbro, visto o permesso referendario il povero Montanelli cercò di trovare qualche consolazione personale, politica e culturale in qualche festa addirittura  dell’Unità, piuttosto che tornare a parlarne con l’ormai odiato, respinto Silvio Berlusconi, che pure gli aveva salvato il Giornale nel momento più difficile e pericoloso della sua diffusione.

Nell’ultima chiacchierata telefonica con Montanelli, le cui ceneri perciò penso che possano resistere alla scossa, raccolsi il pentimento per l’avventura maggioritaria e il rimpianto del proporzionale cui poteva e doveva bastare il premio di maggioranza voluto da Alcide De Gasperi, scambiato per “truffa” dai comunisti e non scattato per una manciata di voti di regolarità sospetta. Su cui il ministro dell’Interno Mario Scelba voleva che si facessero accertamenti nei modi dovuti, trattenuto però dallo stesso De Gasperi più per stanchezza forse che per paura, visto che sarebbe morto di lì a poco

         Il proporzionale, si dice ancora con una certa approssimazione, restituirebbe i partiti agli intrighi di palazzo, alle spalle degli elettori, facendone dipendere la formazione poi dei governi, generalmente di breve durata. Eppure di tutte le elezioni politiche alle quali mi è toccato di partecipare all’epoca del proporzionale, non ho mai visto il partito scelto nella cabina elettorale finire in una combinazione di governo che non avessi previsto, messo nel conto, condiviso.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.statmag.it il 29 novembre

La Coppa Davis di Giorgia Meloni…senza racchetta

Non credo che Giorgia Meloni pratichi il tennis. Non ne ho trovate tracce negli archivi mediatici. E credo non abbia ora il tempo, tra governo, partito, figlia e burraco, per cominciare in pantaloni corti, maglietta e racchetta in qualche campo ben protetto, magari nel circolo di Montecitorio all’Acqua Acetosa. E rischiando di essere chiamata dalle opposizioni a risponderne in aula, come fanno ad ogni sfrondar di foglie o, in questo caso, di palline. Eppure anche lei cerca di conquistare la sua Coppa Davis nel torneo geopolitico in corso sulla sorte da riservare all’Ucraina aggredita tre anni e mezzo fa dalla Russia e messa tuttora a ferro e fuoco.

         Nemmeno a lei, credo a dispetto del suo soddisfatto vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini, piacciono i 28 punti documentali di sostanziale resa dell’Ucraina predisposti da americani e russi solo in ordine alfabetico, perché sembrano che siano più i russi che gli americani. Ma la premier italiana si è mossa fra i primi in Europa, e nella trasferta del G20 in Sudafrica, per fare di quei 28 punti l’inizio non l’arrivo, tanto meno ultimativo, di una trattativa che non può riguardare solo la Russia e gli Stati Uniti.

Con una telefonata in asse col presidente finlandese, ma anche puntando su un aiuto, al momento giusto, della Turchia di Erdogan, la Meloni ha tirato giù del letto Trump e spedito il proprio consigliere diplomatico a un vertice ginevrino per aiutare ancora l’Ucraina. E garantirle una pace un pochettino più vera, o meno falsa, di quella preferita al Cremlino e perseguita contando sul presidente americano dei giorni e delle ore dispari nei rapporti con quelli che pure sono ancora i suoi alleati politici e militari in quello comunemente chiamato ancora Occidente.

         Se la Meloni vincesse questa Coppa Davis non l’attenderebbe solo la visita di gratificazione al Quirinale, come per i tennisti italiani invitati telefonicamente dall’entusiasta Mattarella dopo il trionfo di ieri sera a Bologna. L’attenderebbe una prenotazione rafforzata quanto meno della vittoria elettorale nelle elezioni politiche del 2027, se non anche del Quirinale due anni dopo, alla scadenza del mandato di Mattarella. E, naturalmente, del consigliere alla Difesa Francesco Saverio Garofani, restituito per intero alle sue legittime e personali simpatie politiche, per carità,  e alla sua passione giallorossa, senza più rischi a quel punto di trovarsi al momemto sbagliato nel posto ancora più sbagliato. Come in quella cena galeotta con vista su Piazza Navona che ha fatto versare i classici fiumi di inchiostro giallo.

         In un contesto del genere i risultati delle elezioni regionali appena svoltesi in Campania, Puglia e Veneto, in ordine rigorosamente alfabetico, sono per la premier, ma anche per i suoi avversari, più una distrazione che altro.

Pubblicato sul Dubbio

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L’irruzione di Fico nei presepi di via San Gregorio Armeno a Napoli

Giuseppe Conte si è affrettato a festeggiare la vittoria del “suo” Roberto Fico, il Sandokan della Campania con gozzo a motore che, già affacciatosi, irromperà da nuovo governatore regionale -vedrete- nei presepi di via San Gregorio Armeno a Napoli.  Ma in Campania, credete a me che la conosco molto familiarmente pur essendo un pugliese come Conte, tutto ciò che appare non è. Commedie e tragedie si intrecciano, come luci e ombre, carezze e schiaffi, inchini e sgambetti, affari e fregature, eccitazione e depressione, miserie e nobiltà. Pure l’aritmetica a Napoli è spesso opinione e non di più. Non datemi del razzista, per favore, perché i campani con tutte le loro contraddizioni mi rimangono simpatici come tutti i personaggi del teatro di Eduardo De Filippo.

         Se il partito comunista, con le minuscole ormai d’obbligo per com’è finito, ci fosse ancora e Roberto Fico ne fosse un iscritto, militante, dirigente al telefono con Palmiro Togliatti anziché Conte, si sentirebbe chiedere come Giancarlo Pajetta a Milano dopo avere conquistato la Prefettura ai suoi tempi che cosa penserà mai di fare del suo governatorato. Dovendo lui governare, appunto, col Pd della Schlein ma anche di Vincenzo De Luca, il cui figlio peraltro regge la segreteria regionale del Nazareno. E con la Dc mai morta nel cervello e nel cuore dell’attuale sindaco di Benevento Clemente Mastella e famiglia. Una famiglia grande quanto un partito, sopravvissuta anche alla caccia spietata mossagli dalla magistratura proprio nel momento in cui il capo era al massimo simbolico e pratico del potere come ministro della Giustizia del secondo e ultimo governo di Romano Prodi. Ultimo anche a causa di quella guerra poi perduta dalla magistratura, ma troppo tardi.

         Per la eterogeneità della coalizione che si è formata attorno a lui, per la larghezza di un campo al cui solo nome aggettivato peraltro Conte reagisce male, quasi come lo sceriffo portando la mano sulla custodia della pistola, mostrando di provare più diffidenza che fiducia, il governatorato campano di Fico andrà assaggiato per valutarlo. Come il budino. Ancor più del governatorato di Antonio Decaro in Puglia, l’altra regione che la sinistra è riuscita a conservare, su basi però più solide, nel finale di questo turno di votazioni regionali scambiato un po’ troppo generosamente, diciamo così, dalle cronache politiche per qualcosa di simile addirittura alle elezioni americane di medio termine. Nell’altra regione del turno, il Veneto rimasto saldamente di centrodestra, la sinistra ha potuto solo restare alla finestra.

         Per i loro pur problematici riflessi nazionali, peraltro già ridotti dall’assenteismo ulteriormente cresciuto, i risultati del voto campano possono solo gonfiare le ambizioni virtuali -non di più- di Conte come candidato all’improbabile ritorno a Palazzo Chigi se e quando la guida del governo nazionale potrà tornare ad essere realmente contendibile. Siamo francamente più alle prese con una seduta spiritica, neppure di memoria drammaticamente prodiana ai tempi del sequestro di Aldo Moro, che ad una rassegna dell’orizzonte col binocolo che il mio compianto amico Giampa -Giampaolo Pansa per i suoi tantissimi lettori di ogni colore politico- usava per seguire congressi e altre assemblee di partiti e correnti capendone volti e aree che tiravano. E farci poi appassionare e divertire, restando sempre con i piedi per terra. Non per aria come si rischia adesso.

         Due anni o addirittura un po’ meno per eventuali anticipi tecnici o tattici rispetto alla scadenza ordinaria di questa legislatura di centrodestra, sono ben lunghi da trascorrere.

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Ripreso da http://www.startmag.it il 29 novembre

Trumputin inciampa in una Europa meno incerta del previsto

         In attesa di distrarci con i risultati delle elezioni regionali in Veneto, Puglia e Campania, già contrassegnate comunque da un aumento dell’astensionismo, continuiamo ad occuparci di Trumputin e del suo piano di pace in Ucraina, Che è stato definito giustamente dai critici, non cinematografici,  una “proposta indecente” per i troppi vantaggi che ne ricaverebbe la Russia tre anni e mezzo dopo un’aggressione che col nome di “operazione speciale” avrebbe dovuto concludersi in una quindicina di giorni con la capitolazione e l’assassinio o la fuga all’estero di Zelensky.

 Il presidente ucraino sarebbe tuttora per il Cremlino un nazista travestito . E, già trattato una volta alla Casa Bianca come un indesiderato, a dir poco, è stato nuovamente accusato ieri dal presidente americano un ingrato per la resistenza che continua ad opporre ad una soluzione troppo penalizzante.  Eppure Trump, sempre lui, sdoppiandosi da Putin almeno per un attimo, ha declassato a non definitivi i 28 punti del documento tradotto in inglese dal russo, pur avendo preteso una risposta da Kiev entro il 27 novembre, cioè giovedì prossimo.

         Trumputin continua a incombere, per carità, ma ha trovato un’incertezza minore del previsto o del desiderato in Europa. Dove i sostenitori dell’Ucraina hanno predisposto 24 punti su cui trattare una soluzione che non comprometta il fronte occidentale che ancora esiste nella realtà politica e militare. E che Trump può indebolire e persino dileggiare in certe sortite e iniziative, come quelle economiche in materia di dazi, ma non eliminare. O non ancora, perché un ordigno di questo genere e di questa portata potrebbe esplodergli in mano, cioè a casa, negli stessi Stati Uniti. Dove il presidente sta già avvertendo segni di una popolarità in calo. Una cosa questa che Trumputin non può aggirare. Lo può Putin, nel sistema dispotico in cui si muove come il pesce nell’acqua, ma non Trump.  

         Il diavolo, si sa, fa le pentole senza i coperchi, per fortuna.

 

    

Col fiato sospeso per i progetti di tale Trumputin…

         Più dei tredici milioni di elettori chiamati alle urne fra oggi e domani in Veneto, Campania e Puglia, o di quanti effettivamente andranno a votare resistendo alla tentazione di ingrossare il partito dell’astensione che è ormai di maggioranza, è in cima alla mia curiosità, anzi alla mia paura quel mostro che grava su quello che siamo ancora abituati a chiamare Occidente. E’ Trumputin: metà Trump, 79 anni, presidente degli Stati Uniti, e metà Putin, 73 anni, zar della Russia senza corona ma con un bastone forse ancora più nodoso, per l’arsenale nucleare che detiene, di tutti i suoi predecessori, bianchi o rossi che siano stati.

         Questo Trumputin fantomatico, ma non troppo, sta giocando non solo con l’Ucraina a ferro e fuoco da tre anni e mezzo ma con tutto l’Occidente, ripeto, come il gatto col topo. I suoi penultimatum – visto che sono stati sinora per fortuna a scadenza variabile, come i piani che elabora e intesta addirittura alla pace pur praticando la guerra, da aggressore o da fornitore intermittente d’armi e di soldi all’aggredito- si succedono come rilanci ad un tavolo sinistro e insanguinato di poker. Le cancellerie non solo d’Occidente, a questo punto, ma di tutto il mondo lo inseguono o lo scrutano a dir poco con diffidenza.  A cominciare dalla Cina, dalla quale gli ottimisti di un tanto al chilo suppongono di staccare la Russia.

         Quale delle due metà di questo mostruoso Trumputin prevalga sull’altra, o finirà per prevalere, e con quali effetti più diretti in Europa, dentro e anche oltre i confini dell’Unione, vista la posizione della Gran Bretagna? Ecco la domanda che disperatamente vorremmo forse porci sperando che del mostro si possano ancora distinguere o persino separare le due metà. Sperando o illudendoci? Analizzando o sognando, anche se distratti domani dai risultati elettorali delle tre regioni italiane alle urne.  

Le avanzate sinistramente parallele di Putin e Trump in Ucraina

         “Avanza il piano di pace” hanno titolato in Italia i giornali più o meno ostili o stanchi della guerra in corso in Ucraina da più di tre anni e mezzo, per parlare solo della “operazione speciale” del 2022 e non andare ancora più indietro, almeno di 8 anni, quando i russi presero -o ripresero, dicono loro- la Crimea con la sostanziale complicità di un Occidente borbottante, ma niente di più. La buonanima di Silvio Berlusconi andò addirittura sul posto per compiacersi di Putin collegandosi addirittura alle memorie risorgimentali delle truppe piemontesi nella omonima guerra dell’Ottocento.

         La pace predisposta dal presidente americano Donald Trump in qualche modo collegato con Putin  “non si può rifiutare”, ha titolato il manifesto sullo sfondo di un presidente ucraino corrucciato e dichiaratamente diviso fra la perdita della dignità o dell’alleato. Che sarebbe Trump, ma potrebbe essere domani anche Putin, addirittura, pur dopo tutto quello che ha fatto e probabilmente si propone di fare ancora di più, e non solo in Ucraina.

         In un parallelismo tanto paradossale quanto indecente o osceno, con memorie più o meno cinematografiche, il piano di Trump prodotto anche dal suo incontro d’agosto con Putin in Alaska procede davanti e dietro le quinte come le truppe, i missili, le bombe e  tutto il resto di produzione o acquisto russo nel territorio già mutilato dell’Ucraina.

         La vignetta più emblematica della situazione è quella di Natangelo sul Fatto Quotidano, naturalmente soddisfattissimo degli sviluppi pur tardivi, secondo Marco Travaglio, della questione ucraina. Che lui sperava forse potesse concludersi secondo i piani di Putin: in quindici giorni e con la conquista russa della capitale ucraina. O la sua “denazificazione”.

         La vignetta di Natangelo fa ridurre i 28 punti formali del piano Trump – o Trump e Putin- in due imposizioni a Zelensky, seduto davanti ad un documento e con la penna in mano : “Zitto e firma”.

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