Il Trump visto da Mosca, ma un pò anche dalla moglie a casa

         Il massimo dunque che l’avvenente moglie slava e filo-ucraina è riuscita a strappare a Trump, contestandone fra le lenzuola ed altro i resoconti delle telefonate con Putin, è quella specie di equidistanza, indifferenza e simili espressa dal presidente americano dicendo di non stare “né  da una parte né dall’altra”. E ciò per quanto abbia ereditato dal predecessore Biden, trattato del resto da lui come uno scimunito, una guerra -quella appunto in corso da tre anni e mezzo in Ucraina- condotta da Zelensky per procura statunitense. Alla quale poi si sarebbero affiancati gli europei.

         Il né di là né di qua di Trump, al netto delle armi che egli fornisce o vende alla Nato con destinazione finale a Kiev, e persino dell’accordo così fortemente voluto e strappato a Zelensky per la partecipazione ai traffici delle cosiddette terre rare, o di quel che ne sarà rimasto alla fine della guerra, presumibilmente nelle mani di Putin; il né di lò né di qua di Trump, dicevo, avvalora la caricatura che del presidente americano è stata fatta a Mosca. Quella del personaggio da circo che spara bolle d’aria. Il primo a riderne, magari dopo avere personalmente ispirato quella megavignetta colorata, sarà stato al Cremlino Putin in persona, fra un ordine e l’altro di ulteriori attacchi all’Ucraina, ai suoi ospedali, alle sue scuole, alle sue case di abitazione, alle sue chiese, e non solo ai cosiddetti obiettivi militari.

         Non so se e sino a quando o come la moglie riuscirà a smuovere Trump da questa ignavia che gli avrebbe rimproverato Dante confinandolo nell’Antinferno. Ma è chiaro che il destino di un’Ucraina libera, e non so quanto integra, è ormai solo nelle mani degli stessi ucraini e degli europei. Di noi europei: volenterosi e non, convinti o scettici, se non addirittura più accondiscendenti di Trump con Putin. Quella dei dazi è solo una parte della guerra più generale che si sta combattendo  per la costruzione del nuovo ordine internazionale che ha in testa il presidente americano. Ammesso che abbia ancora una testa, e non sia davvero la caricatura di cui ridono a Mosca.

Il ministro dello Sport graziato per l’affronto a Re Sinner

Almeno sino al momento in cui scrivo, dalle opposizioni politiche e mediatiche intrecciatesi nella solita polemica di giornata, pur tra guerre militari e commerciali, e relativi ultimatum, non si è levata la richiesta delle dimissioni del ministro dello Sport Andrea Abodi. Che ha dichiarato, ammesso e quant’altro di avere preferito un impegno domenicale in famiglia a un viaggio a Londra per aggiungersi o sostituire l’ambasciatore d’Italia diligentemente presente alla finale di tennis a Wimbledon, vinta per la prima volta da un connazionale: l’ormai mitico Jannik Sinner.

         Il nostro campione è stato promosso dai giornali italiani a “Re di Wimbledon” o direttamente e completamente “d’Inghilterra”, alla faccia del regnante Carlo e del principe ereditario, che è forse andato a godersi la partita non solo per ospitare il Re di Spagna, quello vero e tifoso dello sconfitto Carlos Alcaraz, ma anche per non perdere il trono di là da venire.

  Nell’euforia della vittoria italiana chiunque non abbia saputo prevederla e apprezzarla anche a livello istituzionale – e per indifferenza più che per ragioni scaramantiche, temendo di portare “sfiga”, come si dice a Roma-  è finito nel tritacarne delle polemiche.

         Il ministro Abodi, poi. circondato da quelli che l’ex premier Matteo Renzi ha addirittura definito “sgherri”, aveva già i suoi guai per le contestazioni ricevute in occasione della recente elezione alla presidenza del Coni. Che, non avendo il diritto di parteciparvi, ha seguito dai suoi uffici e dintorni sponsorizzando il candidato sconfitto alla successione a Giovanni Malagò. Chissà se, scampato a questo infortunio, riuscirà a farla franca per quello di Wimbledon, chiamiamolo così.

         Stupisce, con le abitudini che ci hanno fatto prendere -ripeto- le concorrenti opposizioni politiche e mediatiche, che sia mancata, oltre alla richiesta di dimissioni, quella di un rapporto autocritico del ministro alle Camere, magari in seduta eccezionalmente congiunta per la gravità dell’accaduto. Stupisce anche sia stata risparmiata -almeno sinora, ripeto- una richiesta di rapporto e di scuse alle Camere e al Paese direttamente alla premier Giorgia Meloni. Che si è procurata solo una vignetta del Corriere della Sera, nella quale Emilio Giannelli l’ha proposta ai lettori dolente con se stessa, e magari anche con i suoi collaboratori, per l’occasione mancata di partecipare adeguatamente alla festa di Sinner associandola alla sua campagna per il premierato. Che è un po’ rallentata, in verità, non ho capito bene se più per stanchezza o furbizia, preferendo Meloni posticiparla alla riforma costituzionale per la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri, e altro ancora di ugualmente sgradito all’associazione nazionale dei magistrati.

         Tanta ironia di fronte alle cronache politiche e, più in generale, sociali vi sembrerà forse eccessiva. Ma ho e voglio mantenere il sospetto che al ridicolo contribuiscano   i politici più dei giornalisti che li scimmiottano.

Pubblicato sul Dubbio

Politici e politicanti disturbano anche la festa ….nazionale per Sinner

         Jannik Sinner, il primo italiano a vincere la finale di tennis a Wimbledon, “fa impazzire l’Italia”, ho letto su qualche prima pagina. Dopo che ieri gli stessi giornali lo avevano incoronato Re di Wimbledon, o d’Inghilterra detronizzando prima ancora di succedere al padre Carlo il principe ereditario William accorso ad assistere alla finale con la moglie come padroni di casa.

Tutta gioia comprensibile e condivisibile, per carità, in un contesto internazionale e nazionale peraltro di preoccupazioni e paure. Cui gareggiano a chi ne incute di più il presidente russo Putin e quello americano Trump firmando i suoi ordini ostentati davanti alle telecamere e lanciando ultimatum a destra e a sinistra. Chissà se riesce da solo, senza l’aiuto di qualche collaboratore, a ricordare le varie scadenze, prima di cambiarle.

         La festa nazionale non dichiarata, o non ancora, ma comunque in corso per la vittoria di Sinner è stata tuttavia disturbata dal tentativo di buttare anche le palline del campione mondiale di tennis nel tritacarne della politica. Si è contestato più o meno esplicitamente al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di non avere avuto l’accortezza, la sensibilità, il coraggio e quant’altro di correre anche lui a Wimbledon, come il Re di Spagna ha fatto per incoraggiare il connazionale che tuttavia ha perso la partita. E poi si è sceso giù per i gradi, sino a lamentare l’assenza a Londra del ministro dello Sport o di qualche sottosegretario, non potendosi considerare sufficiente la presenza, fortunatamente assicurata, dell’ambasciatore d’Italia in Gran Bretagna.

         Emilio Giannelli si è divertito come al solito con la sua vignetta sul Corriere della Sera, immaginando e raffigurando la premier Giorgia Meloni, dietro la scrivania di Palazzo Chigi, pentita dell’”occasione perduta”. Vignetta a suo modo gustosa, per carità, al netto della paura che forse ha avuto la Meloni, e anche Mattarella e tutti gli altri, di portare sfiga, come si dice a Roma, a un Sinner che, per quanto bravissimo, non veniva dato vincente al cento per cento, essendo le palline anch’esse tonde come il pallone.

         Certo, se a Palazzo Chigi ci fosse stato la buonanima di Giovanni Spadolini, come accadde nell’estate del 1982 con i campionati mondiali di calcio vinti a Madrid dall’Italia, alla presenza coraggiosa del presidente della Repubblica Sandro Pertini, il presidente del Consiglio avrebbe fatto improvvisare qualche corteo festoso nelle piazze attigue di Chigi e Montecitorio, per mettervisi alla testa avvolto nella bandiera tricolore. Lui -osservò qualche malizioso, anche suo amico- che di calcio e di sport non sapeva certamente come di storia, sin forse a confondere tra un terzino e un attaccante.

         Scherzi a parte, mi sembra che la politica e dintorni mediatici azzuffandosi  anche sulle assenze italiani eccellenti, diciamo così, a Wimbledon abbiano perso anch’essi una buona occasione di misura, come Giannelli ha praticamente accusato la Meloni.

Ripreso da http://www.startmag.it

Paolo Gentiloni torna a prendere le distanze dalla segretaria del Pd

         Paolo Gentiloni, già presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e commissario europeo, ogni tanto indicato dai retroscenisti come una riserva del Pd in grado di assumerne la segreteria se gliene fosse offerta l’occasione, è tornato a suonare una musica diversa da quella di Elly Schlein, come sul problema del cosiddetto riarmo, di fronte ai dazi al 30 per cento sui prodotti europei programmati dal presidente americano Donald Trump. Le cui lettere “come temporali estivi possono produrre effetti disastrosi”, ma sono pur scritte da “un interlocutore tutt’altro che onnipotente”, giù spintosi tante volte troppo avanti per tornare poi sui suoi passi. “Al dunque fa sempre marcia indietro”, ha scritto l’ex presidente del Consiglio di Trump sulla Repubblica.

         Gentiloni ha preferito quindi “capire” la prudenza opposta all’ultima lettera, anzi penultima, del presidente americano dalle due donne dell’Europa che sono la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e la premier italiana Giorgia Meloni. Le quali ritengono esistano margini di trattativa e sono decise a coltivarli, piuttosto che unirsi alla pratica d’assalto preferita, allo stato delle cose, dal presidente francese Emmanuel Macron in clima rievocativo della presa della Bastiglia del 14 luglio 1789.

         “L’Europa -ha concluso Gentiloni- finalmente si sta muovendo. Più che un bolide sembra una carovana. Ma è la nostra carovana”. Al di fuori della quale tutto diventerebbe per tutti ancora più difficile e rischioso. Una lezione, direi, di pragmatismo alla segretaria del Pd un po’ distratta, diciamo così, dall’inseguimento di Giuseppe Conte nella corsa a Palazzo Chigi per la pur improbabile alternativa al centrodestra.

L’assalto delle iene al governo col pretesto dei dazi di Trump

Le iene, non quelle televisive ma quelle che fanno in Italia l’opposizione fra aule parlamentari, piazze, strade, vie e vicoli mediatici, si sono scatenate dopo l’annuncio dei dazi al 30 per cento sulle esportazioni europee negli Stati Uniti propostisi dal presidente Donald Trump. E comunicati alla presidente della Commissione dell’Unione Ursula von der Leyen con una lettera inconfondibile con quella firma verticale ostentata come uno skyline. Che a Trump deve piacere un sacco per le torri che lui non si limita a costruire e possedere.

         Appena informata pure lei, ospite col segretario della Cgil Maurizio Landini di un convegno sulla politica industriale promosso dall’ex ministro Andrea Orlando, la segretaria del Pd Elly Schlein se l’è subito presa con la premier Giorgia Meloni, più ancora che con Trump. Una premier della quale sarebbe mancata “una posizione netta e forte”, che avrebbe “piegato l’interesse nazionale alle amicizie politiche”. Per cui “ci aspettiamo molta più serietà da parte del governo”, ha ammonito la Schlein.

         A leggere sul Corriere della Sera la testimonianza, il racconto e quant’altro di Maria Teresa Meli il segretario della Cgil sarebbe stato “molto più cauto” nella reazione. E anche “più nebuloso”, guardando l’amica di traverso.  

         E’ seguito sulle agenzie di stampa e altrove il solito coro di contumelie e previsioni catastrofiche. Dalle grida di Giuseppe Conte contro “governanti che svendono l’interesse nazionale” a quelle di Matteo Renzi contro ”i sovranisti alle vongole”, alle “scuse agli italiani” reclamate da un Riccardo Magi, di +Europa, senza il lenzuolo addosso da fantasma che gli ha procurato una sospensione dall’aula della Camera dove l’aveva esibito prevedendo il fiasco dei referendum del mese scorso. Si è passati ancora dalla “schiena dritta” reclamata da Nicola Fratoianni, parlando sempre di una Meloni arrendevole nei riguardi di Trump, alla solita richiesta perentoria di Angelo Bonelli di “riferire” al Parlamento. Persino Carlo Calenda, in odore o puzza, come si preferisce, di tresca con la Meloni, fuggendo dalla “tenda” moderata offertagli da Goffredo Bettini nel cosiddetto campo largo dell’alternativa al centrodestra, si è sentito in obbligo di partecipare alle chiassate diffidando la premier, ed altri che le farebbero compagnia in Europa, dallo “strisciare ai piedi” di Trump. O dal  baciargli l’”ass”, come il presidente americano chiama il suo deretano offrendolo al bacio degli ospiti.

         Eppure nella notte non lontana dei bombardamenti americani, e non solo israeliani, sull’Iran deciso a fornirsi della sua bomba atomica al servizio della causa che prevale su tutte le altre degli ayatollah, cioè la cancellazione dello Stato ebraico, la segretaria del Pd, sempre lei, Elly Schlein, avvertì l’esigenza, l’opportunità o com’altro si voglia chiamare di un contatto diretto con la premier Meloni. Il suo concorrente, nel campo dell’opposizione, alla guida del governo dell’alternativa, Giuseppe Conte, ne profittò subito per distinguersi su posizioni più critiche. E’ probabilmente per questo che la Schlein sulla crisi dei dazi, diciamo così, non ha osato ripetere quel gesto di responsabilità. Si è messa subito alla testa dell’attacco e della intransigenza. L’interesse alla sua corsa a Palazzo Chigi, per quanto improbabile continui ad essere l’alternativa per ammissione di esponenti anche autorevoli dello stesso Pd, prevale su tutto. Anche sul senso di responsabilità nazionale avvertito da ben altri leader e forze politiche nella storia della Repubblica, nelle sue varie edizioni.

         Trump alla Casa Bianca, nell’ottica dell’opposizione italiana a conduzione contesa, non si lascerà di certo fermare o frenare nella prospettiva di avere a Roma interlocutori diversi dalla Meloni, e neppure diversi da Ursula von der Leyen a Bruxelles. Questo mi sembra scontato.

Pubblicato su Libero

Il burro europeo, e non solo, nel quale Trump può affondare il coltello

         Diviso nella immaginazione sarcastica di Stefano Rolli, sulla Stampa, fra i sogni del Nobel della pace e dell’economia, designato al primo dal governo israeliano dell’amico Nethanyau e al secondo dalle cronache dei dazi che salgono e scendono nei suoi rapporti con amici e nemici, il presidente americano Donald Trump si starà godendo dalle sue postazioni reali o di fantasia le divisioni che riesce a creare fra i suoi interlocutori. O delle quali profitta per sviluppare la sua complessa, spesso indecifrabile corsa alla scomposizione degli equilibri geopolitici per ricomporli diversamente: conformi -si può sospettare ogni tanto- più ai suoi umori o interessi personali che a quelli degli americani che lo hanno eletto. O debbono subire col fiato sospeso, e le mani fra i capelli, quando li hanno, la sua seconda esperienza alla Casa Bianca. 

         Questa storia delle divisioni e delle incertezze di cui Trump approfitta nella sua azione non è fantasiosa. E’ concreta. E’ dimostrata da fatti e circostanze. Non credo, per esempio, che sia un caso “la stangata” dei dazi al 30 per cento, come la chiama Repubblica, che il presidente americano ha comunicato per iscritto alla presidente della Commissione dell’Unione Europea dopo avere registrato, e interpretato a suo modo, la confusione -a dir poco-nella quale Ursula von der Leyen è riuscita ad evitare la sfiducia promossa contro di lei da un praticamente sconosciuto sovranista romeno nel Parlamento di Strasburgo.

  Nella votazione, fra sì, no, astensioni e assenze, si sono scomposte a livello europeo e interno, considerando cioè i singoli paesi dell’Unione, tutte le aree. La maggioranza su cui può davvero contare la Commissione di Bruxelles è quella di tipo cosiddetto variabile. Cioè il caos, che qualcuno scambia per ordine. Non certo Trump, che appunto ne approfitta, come dicevo.

         In una Europa che il presidente americano ha preso di petto nella sua realtà istituzionale, interloquendo direttamente con la presidente tedesca al suo secondo mandato, l’idea di una reazione, di una risposta davvero unitaria, e perciò solida è debolissima. E lo è anche all’interno dei singoli paesi dell’Unione. In Italia, per esempio, si è subito replicato il solito spettacolo della maggioranza divisa e dell’opposizione lesta ad approfittarne a sua volta, come Trump alla Casa Bianca, per processare politicamente, se non si cercherà anche questa volta di tentare di farlo anche giudiziariamente, la premier Giorgia Meloni. Che si sarebbe lasciata prendere alla sprovvista dal pur amico, estimatore e quant’altro Trump e ora raccomanda solo calma. O esprime fiducia in un negoziato tutto da condurre.

Mai che da parte dell’opposizione, o delle opposizioni parlandone al plurale, venga la voglia, la consapevolezza di un momento di solidarietà nazionale di fronte alle emergenze.

Ripreso da http://www.startmag.it

L’ombrellino nucleare offerto all’Europa da Francia e Gran Bretagna…

         Non una parola, dico una, sulle prime pagine dei giornali, ma neppure nel dibattito politico a livello partitico, solitamente abbondante, sull’accordo stipulato ieri tra la Francia e la Gran Bretagna, in ordine rigorosamente alfabetico, sul coordinamento delle loro forze nucleari. Che pure dovrebbe essere finalizzato all’ombrello di protezione dell’Europa, scomposta a livello di Unione ma ricomposta a livello nucleare, mentre quello degli Stati Uniti mostra, a dir poco, qualche difficoltà. Anche con la storia ingarbugliata del pagamento delle armi destinate alla difesa dell’Ucraina dall’accresciuta offensiva della Russia.

  Altro che le “stronzate” per telefono che il presidente americano Donald Trump ha rivelato di avere sentito da Putin parlando appunto dell’Ucraina. Qui la confusione si è fatta massima.  E in questo contesto  fa una certa impressione a dir poco scettica la ricostruzione alla quale si sono impegnati a Roma i partecipanti all’omonima Conferenza mentre Putin continuava e continua nelle opere di demolizione del paese tanto limitrofo alla Russia quanto sgradito.  

Salvate il soldato Antonio Tajani da un futuro di precarietà

In senso politico non abbiamo solo i fratelli d’Italia costituitisi a suo tempo in partito, nel deserto creatosi a destra con le disavventure, a dir poco, di Gianfranco Fini. E affidatisi alla guida delle due sorelle Meloni: Giorgia, salita quasi tre anni fa a Palazzo Chigi, e Arianna, maggiore d’età ma minore di grado.

         Abbiamo anche i fratelli Berlusconi: Marina e Piersilvio, figli di primo letto del compianto Silvio, fondatore di Forza Italia, e Barbara, figlia di secondo letto che ogni tanto mostra anche lei di voler dire la sua in politica.

         Oltre che fratelli Berlusconi, che dal padre hanno ereditato per ora solo i debiti del suo partito, che ne fanno non dico i proprietari ma sicuramente i garanti finanziariamente, molto più concretamente di quanto sia stato Beppe Grillo sino a qualche tempo fa per il Movimento 5 Stelle; oltre che fratelli Berlusconi, dicevo, Marina e Piersilvio sono per Antonio Tajani, segretario di Forza Italia, vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, “amici”. Come li ha definiti lo stesso Tajani, specie parlando di Marina, come ha fatto di recente per mettere le mani avanti a chi le attribuiva un dissenso silenzioso dal cosiddetto jus scholae per la cittadinanza. Che Tajani ha sostenuto sino ad adombrare la possibilità di farlo approvare in Parlamento a qualsiasi costo e mezzo, ritrovandosi insieme, per esempio, col Pd di Elly Schlein, e contro la Lega e buona parte, se non tutti i fratelli d’Italia. Un dissenso silenzioso, dicevo parlando di quello di Marina Berlusconi che Pier Silvio ha espresso invece pubblicamente contestando la priorità attribuita da sinistra alla riforma della cittadinanza degli immigrati.  

         Ma Pier Silvio non si è limitato a parlare pubblicamente dello ius scholae. Egli ha voluto rispondere, e ancor più parlare di sua spontanea iniziativa, della “passione” politica, ereditata anch’essa dal padre con le aziende e tutto il resto, e della tentazione -chiamiamola così- di tradurla fra o entro due anni nella cosiddetta discesa in campo. Come fu quella del padre a 58 anni, quanto il figlio ne avrà -guarda caso- quando verranno rinnovate le Camere. Tanto, il cognome Berlusconi già è nel titolo del partito, come un marchio di fabbrica. Come la Fiat sulle macchine che produceva.

         Non dico apposta, per carità, con la malizia alla quale cedeva anche la buonanima di Giulio Andreotti scommettendo di indovinarci, ma nei fatti l’ipotesi di un Berlusconi in piena attività politica ha finito per allungare una fastidiosa ombra di precarietà sul segretario di Forza Italia eccetera eccetera Antonio Tajani. Che già si sente, con una ironia che in verità non gli è riuscita tanto bene, visto il tuffo che hanno fatto nelle sue acque un po’ tutti i giornali e i suoi avversari, “il ministro degli Esteri più sfigato della storia”, fra guerre che non si fermano e tregue che non reggono. In bocca al lupo, Antonio.

Pubblicato sul Dubbio

Il chiaroscuro del governo italiano fra Roma e Strasburgo

         Tanto è consolante l’immagine del governo italiano in quella foto emblematica della Conferenza internazionale a Roma per la ricostruzione dell’Ucraina, dove Putin tuttavia continua a ordinare distruzioni e morti, quanto non lo è stata nel Parlamento europeo nella pur evitata sfiducia promossa da un sovranista romeno contro la presidente della Commissione dell’Unione, Ursula von der Leyen: la terza a sinistra in prima fila nella foto dell’evento romano.

         Persino la nave ammiraglia, per quanto in vendita, della flotta antigovernativa italiana, la Repubblica, ha dovuto riconoscere, ammettere e quant’altro che “l’Europa unita riparte da Roma” con la conferenza sull’Ucraina da ricostruire anche nelle parti, ripeto, che ancora non sono state distrutte dai russi e alleati ma lo saranno nei prossimi giorni. Sino a quando Putin, interrompendo le “stronzate” telefoniche al presidente americano Donald Trump, che se n’è doluto pubblicamente, non smetterà di dare ordini di demolizioni e morte dal Cremlino volendo emulare lo zar Pietro il Grande, in una visione ricomposta della storia russa dopo la lunga parentesi sovietica. Ma Pietro il Grande non disponeva delle armi persino  nucleari di Putin.

         Ma che “Europa unita” -ripeto- e temibile in Russia e dintorni è quella che ha una Commissione “esecutiva”, presieduta per la seconda volta dalla tedesca Ursula von der Leyen, a maggioranza a dir poco variabile? Direi variabilissima osservando i partiti che compongono il governo italiano. Dei quali Forza Italia ha potuto e voluto votare contro la sfiducia promossa per una vecchia vicenda di acquisti di vaccini durante la pandemia di Covid, la Lega ha voluto votare a favore e i Fratelli d’Italia della premier Giorgia Meloni non hanno voluto o potuto andare oltre la non partecipazione al voto.

         L’ex ministro democristianissimo Gianfranco Rotondi, eletto al Parlamento nelle liste del partito della Meloni, si è consolato e ha cercato di consolare i suoi amici ed estimatori, parlandone al Foglio, con la rappresentazione dei fratelli d’Italia e della premier in persona ora più vicini o meno lontani -come si preferisce- dal Partito Popolare europeo  cui appartiene quello tedesco, e sostanzialmente democristiano,  della von der Leyen.  No, Gianfranco carissimo. La divisione della maggioranza parlamentare italiana a Strasburgo non è meno grave e significativa di quella dell’opposizione italiana, al singolare. Sono due facce di una stessa medaglia intestabile alla confusione. Che non produce di solito poco o niente di buono, per quante illusioni possa creare i  un primo momento.

Ripreso da http://www.startmag.it 

Bombe a volontà, vere e di carta, un pò dappertutto nel mondo

         Qui ciascuno bombarda quello, dove e come  vuole o può: da Putin naturalmente, che in un giorno solo ha colpito l’Ucraina con 750 fra droni e missili, ai magistrati italiani che col solito uso o abuso di informazioni hanno deciso di bombardare il ministro della Giustizia Nordio che ne vuole separare le carriere e contenere le correnti, e al giovane Piersilvio Berlusconi. Che  ha bombardato di dichiarazioni il partito fondato dal padre, Forza Italia, in attesa di decidere se scendere in politica a tutti gli effetti fra due anni, quando si rinnoveranno le Camere e lui avrà la stessa età del genitore allorchè decise di scalare direttamente Palazzo Chigi, peraltro centrando l’obbiettivo e sgominando l’”allegra macchina da guerra” allestita dall’ultimo segretario del Pci Achille Occhetto.  

         Di Putin orma – e persino delle sue “stronzate”, come le ha definite uno stremato Donald Trump dopo avere fatto tanto per invogliarlo alla pace, sino a dargli dell’aggredito anziché dell’aggressore- è ormai evidente l’irriducibilità alla distruzione. A Roma arriva il presidente Zelensky, dividendosi subito fra Mattarella al Quirinale e il Papa a Castelgandolfo, per partecipare alla Conferenza internazionale per la ricostruzione del suo Paese? E Putin aumenta l’offerta delle distruzioni, appunto. Neppure l’intelligenza artificiale gli farà cambiare il modo di pensare e di agire.

         I magistrati italiani che si occupano di mezzo governo nel procedimento giudiziario sulla vicenda del generale libico Almasri rimandato nel suo paese, anzichè consegnato alla Corte dell’Aja che lo accusa di crimini feroci,   sono stati praticamente colti con le mani nel sacco dall’avvocata degli inquisiti, la senatrice leghista Giulia Bongiorno, nella diffusione di notizie, sospetti, voci e quant’altro finalizzate non al processo in un tribunale, se e quando vi si arriverà, ma al processo mediatico e politico. Che si svolge col solito rito sommario, fra linciaggi, richieste di dimissioni eccetera.

         Piersilvio Berlusconi, per ultimo, ha colpito e quasi affondato il già dicharatamente ministro “più sfigato” d’Italia o del mondo Antonio Tajani, in crociera o quasi con la proposta del cosiddetto ius scholae. Da delfino, ripeto, del compianto padre di Piersilvio il povero Tajani  è un po’ tornato ad essere, o rischia di tornare presto “il merluzzo” definito  da chi già non gli voleva bene con Silvio in vita. Una riduzione, questa, dell’immagine di Tajani che finisce per danneggiare anche la premier Giorgia Meloni, promossa invece a pieni voti da un Piersilvio forse lontano da quel professionismo necessario anche alla politica.  

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