L’inchiesta a Milano che non convince gli “esperti” Di Pietro e Fuksas

Antonio Di Pietro, 75 anni da compiere in ottobre, e Massimiliano Fuksas, 81 anni compiuti a gennaio, possono ben considerarsi due esperti nella valutazione di quell’inchiesta giudiziaria a Milano che si sta chiamando “Grattacieli puliti”, evocando in qualche modo le “Mani pulite” di 33 anni fa: gli uni e le altre accomunati dal proposito di eliminare lo sporco della corruzione.

L’ex magistrato simbolo delle mani pulite, Di Pietro appunto, e l’architetto tra i più famosi nel mondo, Fuksas, si sono pronunciati con uno scetticismo persino sarcastico su quanto è accaduto e sta accadendo nella Milano una volta da bere e ora da abitare, dicono quelli che la considerano proibitiva per i prezzi ai quali la speculazione avrebbe portato le vendite e gli affitti degli appartamenti.

         Di Pietro, parlandone col Foglio, ha detto che i grattacieli puliti “non c’azzeccano niente” con le sue mani pulite e ha esortato gli ex colleghi inquirenti a rendersi conto che quei palazzi che già svettano nel cielo di Milano o che si vorrebbero aggiungere non sono cose da “geometri di Canicattì”.

         Fuksas ha ricordato agli stessi inquirenti insorti a difesa di leggi e regolamenti finiti sotto i piedi di progettisti, costruttori e amministratori comunali, a cominciare dal sindaco indagato con più di settanta persone, che “in Italia abbiamo 170 mila leggi, in Francia ne hanno 6500, in Germania circa 7000”. “Abbiano più leggi di tutti, e poi abbiano tutti i regolamenti attuativi, e poi i regolamenti attuativi dei regolamenti attuativi, ma il piano regolatore è ancora quello del 1942”, ha continuato Fuksas non per fare dell’antifascismo.

         Quando l’intervistatrice di Domani ha tentato di esaltare il cantiere giudiziario, chiamiamolo così, Fuksas l’ha fulminata  dicendole che “la magistratura è un epifenomeno”, cioè “un fatto accessorio, la cui presenza o assenza non incide sull’esplorazione di un dato fenomeno”, spiega  il dizionario della lingua italiana “La magistratura -ha detto Fuksas- può trovare un reato, ma i buoi sono usciti dalla stalla”. “La corsa” agli affari, ai guadagni, alla spersonalizzazione della proprietà edilizia, per cui chi prende in affitto (caro) una casa raramente riesce a conoscerne il padrone, “si sospende per un attimo, si gira la pagina, si guarda da un’altra parte”. “La gente si annoia dei vostri articoli”, ci ha gridato in faccia Fuksas.

         Sul piano più strettamente politico, infine, deve essere apparso sinistro a Sala – incoraggiato dal suo partito, dopo qualche esitazione, e comunque a certe condizioni, a proseguire il suo lavoro sino alla conclusione del mandato- l’avvertimento mandatogli, in una intervista al Tempo, dall’ex sindaco di Roma Ignazio Marino. E’ quello di “non fidarsi del Pd” perché la sua abitudine sarebbe di piegarsi “alle convenienze” di turno. A prescindere dai segretari in carica. 

Pubblicato sul Dubbio

La nuvola di Fuksas sul palazzo di giustizia di Milano e dintorni

         Agli urticanti giudizi di un esperto giudiziario come Antonio Di Pietro si sono aggiunti sull’inchiesta milanese intestata  ormai ai “grattacieli puliti” quelli di un esperto di urbanistica come l’architetto Massimiliano Fuksas, fra i più fanosi nel mondo. Che con una sua nuvola ha tolto un po’ di sole mediatico al palazzo di giustizia dove opera la Procura che ha messo sotto indagine una settantina di persone, fra le quali il sindaco Beppe Sala, per corruzione e quant’altro. L’assessore all’urbanistica sarebbe stato già arrestato se fosse rimasta invariata la disciplina delle manette in corso di indagini esistente all’epoca delle “mani pulite”, 33 anni fa.

         Fuksas ha ricordato che “in Italia abbiamo 170 mila leggi, in Francia ne hanno 6500, in Germania circa 7000”. “Abbiano più leggi di tutti, e poi abbiano tutti i regolamenti attuativi, e poi i regolamenti attuativi dei regolamenti attuativi, ma il piano regolatore è ancora quello del 1942”, ha continuato Fuksas non per dargli del fascista ma per sottolinearne l’inadeguatezza ai cambiamenti nel frattempo intervenuti.

         Il colpo di grazia all’indagine in corso l’architetto l’ha dato interrompendo l’intervistatrice di Domani convinta che la magistratura milanese abbia “trovato un bandolo” per uscire dalla situazione. “La magistratura è un epifenomeno”, ha reagito Fuksas sapendo bene che esso significa, leggendo il dizionario della lingua italiana, “un fatto accessorio, la cui presenza o assenza non incide sull’esplorazione di un dato fenomeno”. La magistratura -ha spiegato l’architetto- può trovare un reato, ma i buoi sono usciti dalla stalla. “La corsa” agli affari, ai guadagni, alla spersonalizzazione della proprietà edilizia, per cui chi prende in affitto (caro) una casa raramente riesce a conoscerne il padrone, “si sospende per un attimo, si gira la pagina, si guarda da un’altra parte”. “La gente si annoia dei vostri articoli”, ci ha gridato in faccia dalla sua nuvola Fuksas.

Ripreso da http://www.startmag.it

Quell’affaccio fatale di Sala sul campo largo dell’alternativa

Alla voce “sarcasmo” corrisponde comunemente nel dizionario della lingua italiana una “ironia amara o caustica, espressione di insoddisfazione personale o di compiacimento nell’umiliare gli altri”. Vi si è attenuta ieri “la cattiveria” di giornata del Fatto Quotidiano, in prima pagina. Che in una decina di parole e una quarantina di battute tipografiche ha ritenuto -in vista dell’appuntamento del sindaco di Milano Beppe Sala col Consiglio comunale per la politica urbanistica finita sotto inchiesta giudiziaria- di rappresentare così la situazione politica, diciamo così, del primo cittadino ambrosiano: Ultim’ora- Sala sul Campo Largo: ”Sì, se è  edificabile”.

         Il campo largo, non necessariamente con le maiuscole, è quello immaginato filosoficamente e politicamente nel Pd da Goffredo Bettini, ed entrato rapidamente nelle cronache e nei retroscena della politica, come un’alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni. Un’alternativa estesa da Matteo Renzi, propostosi su un campo sportivo l’anno scorso all’Aquila passando una palla alla segretaria del Pd Elly Schlein, al Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte e alla sinistra cosiddetta radicale di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni.

         A questo campo ha avuto la disavventura -temo- di affacciarsi anche Beppe Sala, il cui secondo ed ultimo mandato di sindaco di Milano scadrà sulla carta fra meno di due anni, un po’ prima della legislatura e del governo Meloni. Vi si è affacciato Sala con un interesse, una curiosità e quant’altro scambiati da molti, a torto o a ragione, per una disponibilità a concorrervi, magari sistemandosi in qualcuna delle tende proposte dal già citato, immaginifico Bettini ai riformisti, moderati e simili, capaci -se mai vi riuscissero- di proporsi come “federatori”. E persino candidati a Palazzo Chigi, al posto dei due che vi aspirano più palesemente o dichiaratamente, che sono la Schlein, segretaria del partito per ora più votato fra quelli di opposizione, e Conte. I cui sostenitori lo ritengono ancora vittima fra il 2020 e il 2021 di un mezzo complotto per scalzarlo dalla guida del governo a vantaggio di Mario Draghi.

         Sarò malizioso, troppo malizioso, come del resto si vantava la buonanima di Giulio Andreotti confessando di “peccare” e insieme “indovinare”, ma le difficoltà di Sala, inevitabili come sindaco di una città delle dimensioni, delle capacità e persino della simbologia come quelle di Milano, sono cresciute da quel momento del suo affaccio, evidentemente imprudente, sul campo largo dell’alternativa. Un campo che i suoi avversari, critici, concorrenti ed altri vogliono precludergli temendo- come ha insinuato “la cattiveria” del Fatto Quotidiano– che ne voglia fare “un’area edificabile”. Con tutto ciò che l’edificabilità comporta in senso lato e dispregiativo.

         Le dimissioni di Sala da sindaco di Milano sono state reclamate a Roma, fra le proteste della collega del Pd, dal capogruppo al Senato delle 5 Stelle. Delle quali, politicamente parlando, non c’è traccia nel Consiglio Comunale ambrosiano. Ce n’è, navigando per internet, solo per gli “omonimi” alberghi della città. Dimissioni reclamate dal senatore Stefano Patuanelli, per una questione “etica”, ho letto sul Corriere della Sera. Una questione cioè morale, come quella sollevata negli anni Ottanta dal segretario del Pci Enrico Berlinguer sganciandosi dalla cosiddetta maggioranza di solidarietà nazionale nella quale si era ritrovato con la Dc e persino con l’odiato Psi di Bettino Craxi.

         La politica è capace anche di queste sorprese, di questi paradossi: il partito di Conte emulo del Pci di Berlinguer, erede della sua presunta diversità, superiorità e simili.  Il povero Sala è finito in questo tritacarne dell’assurdo. Per quello che vale, cioè niente, gli offro la mia solidarietà umana in questa giornata davvero particolare.

Pubblicato su Libero

Il dito della magistratura di Milano e la luna del sindaco sotto inchiesta

         Tutti in attesa, almeno in apparenza, di quello che il sindaco Beppe Sala dirà domani al Consiglio Comunale di Milano sulla prosecuzione o meno, e in quali condizioni il suo secondo mandato, fra due anni.  Cui comunque non potrebbe seguirne per legge un altro consecutivo.  In quali condizioni, perché la solidarietà espressagli dal Pd per telefono dalla segretaria nazionale e per comunicati dalla sede ambrosiana non è stata appunto incondizionata.

Sala sarebbe comunque tenuto a una correzione di rotta, accettando, fra l’altro e di fatto, la cogestione della politica urbanistica della città con gli uffici giudiziari. E con le loro interpretazioni di norme e regolamenti, di cui inutilmente sono state tentate modifiche in sede parlamentare col sostanziale ma insufficiente aiuto del governo. All’interno della cui maggioranza si sono fatte sentire resistenze, a dir poco, pari a quelle dello schieramento variegato di opposizione.

         Quello che si sta guardando in queste ore continua ad essere il dito di Sala. Quello che non si guarda, o si guarda meno, è la luna. Che è costituita dal futuro cui il sindaco ambiva sino all’altro ieri, o cui lo volevano destinare gli amici, di cosiddetto federatore di un campo largo dell’alternativa al governo nazionale. Un campo largo: esteso da Matteo Renzi, che come segretario del Pd lo aveva spinto al vertice dell’amministrazione comunale di Milano, a Giuseppe Conte. Che si è affrettato a precisare, appena è scoppiata la vicenda giudiziaria con una settantina di indagati, fra lo stesso Sala, e alcuni candidati alle manette, di non intendere fare “sconti a nessuno”, neppure al sindaco attuale di Milano, pensando non alla sua giunta, che prescinde dalle 5 Stelle, ma appunto all’ipotesi di trovarselo tra i piedi fra due anni come concorrente a Palazzo Chigi.

         Questo e non altro -neppure il tanto decantato interesse per la Milano diventata troppo cara anche per il ceto medio, allontanato nelle periferie più accessibili per gli affitti- è il terreno politico su cui si sta svolgendo l’offensiva nominalmente giudiziaria.  

Il boicottaggio del cantiere politico del sindaco Beppe Sala

Non è un’altra Tangentopoli, come quella del 1992 esplosa con l’arresto di Mario Chiesa a Milano, ha precisato anche l’insospettabile Antonio Di Pietro dando una lettura diversa dalla Procura ambrosiana della politica urbanistica di Milano. Della quale già da qualche tempo si contendevano il controllo, la gestione e quant’altro gli uffici preposti dell’amministrazione comunale di Beppe Sala e quelli giudiziari, convinti che fossero illegali, e persino corruttivi, le interpretazioni e applicazioni di leggi e regolamenti per le ristrutturazioni edilizie, riqualificazioni di aree eccetera.

         A dire chi avesse ragione fra gli uffici comunali e giudiziari, senza lasciare degenerare il conflitto fra gli uni e gli altri in una mezza guerra che è scoppiata con una settantina d’indagati e le prime richieste d’arresti, avrebbe potuto e dovuto provvedere il Parlamento con una legge di interpretazione autentica delle norme in vigore. Ma il percorso dell’iniziativa assunta dal governo, la cosiddetta “legge salva Milano”, è stato interrotto dalla sinistra, che pure avrebbe dovuto avere interesse a completarlo essendo appunto di sinistra la giunta Sala. E’ qui, quindi, a sinistra, che si è verificato un corto circuito, a dir poco. Se non un complotto.

E’ a casa sua, politicamente parlando, che il sindaco coinvolto nell’affare ora giudiziario deve cercare il Bruto o i Bruti di turno. Non a destra, dove si sono levate richieste di dimissioni e quant’altro ma anche quali la precisazione responsabile di Giorgia Meloni. Che festeggiando i suoi primi mille giorni a Palazzo Chigi, ha preso le distanze persino dal presidente del Senato Ignazio La Russa dicendo che è Sala a dovere valutare la situazione.

         La segretaria del Pd Elly Schlein è rimasta per alcune ore, quasi un giorno, silenziosa. Ma alla fine si è decisa ad esprimere la solidarietà telefonica al sindaco condividendone -si deve presumere- la contestazione delle valutazioni dei magistrati inquirenti. Tutto chiaro allora dopo la pur lungamente attesa telefonata della Schlein? Per niente.

Di Sala, in questa vicenda esplosa a livello giudiziario con tutte le solite cadute politiche e mediatiche, non è più in gioco soltanto la prosecuzione del mandato di sindaco, ai fini della quale la solidarietà della segretaria del Pd può avere l suo significato e peso. E’ in gioco, ancor prima o di più, il percorso che Sala si era proposto, o si era lasciato attribuire, di federatore del progetto di alternativa al centrodestra. E di candidato a Palazzo Chigi, spinto da quello spirito “civico” visto al Nord in lui e al Sud nel sindaco di Napoli, e presidente dell’associazione nazionale dei Comuni, Gaetano Manfredi.

         Rispetto a questo percorso, legittimo per un politico, la telefonata della Schlein vale poco o niente, ripeto. Vale  di più quel “rifiuto di sconti” annunciato, commentando appunto la vicenda milanese, dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Che è un concorrente, nella corsa a Palazzo Chigi, della stessa Schlein e di Sala, deciso a sfruttare l’azione d’oro che ritiene di avere in mano considerandosi elettoralmente determinante nel campo dell’alternativa.

         E’ tutto a sinistra quindi, ripeto, il problema scoppiato a Milano. Come, del resto con la Tangentopoli di 33 anni fa, esplosa in sede giudiziaria e amplificata in sede politica e mediatica per liberarsi a livello nazionale di Bettino Craxi. Colpito peraltro proprio nella sua Milano perché ormai, finito il comunismo sotto il muro di Berlino, con lo slogan e le bandiere dell’”unità socialista” lui era diventato per il Pci e i suoi derivati, nominalistici e simbolici, con la falce e martello depositati sotto una quercia, ancora di più un’ossessione. Questa non è dietrologia. E non è più nemmeno cronaca. E’ storia. La sinistra ha finito per avvilupparsi nelle sue abitudini e angosce.

Pubblicato su Libero

                                   

Antonio Di Pietro -sì, proprio lui- prende le distanze dalla Procura di Milano

         Antonio Di Pietro, che fu il magistrato simbolo delle “mani pulite” dell’epoca di Tangentopoli, 33 anni fa, continua a smarcarsi. Quegli anni, per carità, gli sono rimasti nel cuore, più ancora forse dell’avventura politica che ne derivò come ministro di Romano Prodi, che pure aveva strapazzato interrogandolo sulla partecipazione dell’Iri al sistema del finanziamento illegale dei partiti e affini. Ma di quello che ì accaduto dopo di lui nelle stanze della Procura di Milano dove lavorò non gli piace per nulla. “Non c’azzecca nulla”, dice ripetendo, ma all’incontrario, le grida in tribunale contro i suoi inquisiti e imputati.

         Già delusi da lui per la difesa della separazione delle carriere di giudici e inquirenti, da cui i magistrati associati, diciamo così, si sentono minacciati, gli ex colleghi di Di Pietro lo vedono ora associato, a sua volta, alle critiche, perplessità e proteste contro la Milano minacciata, nel suo sviluppo, da un’inchiesta sull’urbanistica condotta col metodo dello “strascico”, buttando con “l’acqua sporca” anche il bambino.

Non si fa così, ha gridato Di Pietro, come lui e i colleghi di un tempo furono però accusati di fare più di trent’anni fa. No, noi -ha praticamente obbiettato Di Pietro parlandone al Foglio– buttavano le reti sui conti correnti bancari, cercavamo i soldi sporchi per risalire alle persone. Che tuttavia -andrebbe ricordato all’ex magistrato ed ex ministro- finirono in molte a torto nelle reti, arrestate magari all’alba, processate, e assolte. A volte neppure rinviate a giudizio.

Quello spettacolo degli arresti a grappolo, delle retate con preannuncio a fotografi e telecronisti stavolta non si ripete per fortuna solo perché nel frattempo Carlo Nordio è riuscito a fare modificare la legge, giustamente vantandosene e reclamando il ringraziamento da uomini e partiti interessati a questo turno giudiziario.

Ripreso da http://www.startmag.it 

Matteo Renzi, quasi un figliuol prodigo del Pd della Schlein e di Cuperlo

         Ho appreso da Matteo Pucciarelli, leggendone su Repubblica “il racconto” della festa dell’Unità a Melzo, nella “provincia profonda di Milano”, del nuovo, penultimo ritorno di Matteo Renzi fra il pubblico del Pd. Che lo ha accolto persino con ovazioni come ospite e interlocutore di Gianni Cuperlo. Il quale a suo tempo, ma sempre in questo secolo, non nell’altro, si dimise da presidente del partito non sopportando politicamente Renzi come segretario, e contemporaneamente anche presidente del Consiglio. Come nella Dc, da cui lo stesso Renzi proveniva con la famiglia, avevano voluto fare solo il corregionale Amintore Fanfani e l’irpino Ciriaco De Mita ricavandone alla fine, anche loro, più guai che altro.

         Poco è mancato che il pubblico e lo stesso Cuperlo non chiedessero all’ospite, e amico ritrovato, di tornare nel partito smettendola di contare i pochi, pochissimi decimali della sua nuova formazione politica. Magari, se si fossero spinti a tanto, Renzi pur di sorprenderli avrebbe accettato,

         Il caso ha voluto che il quasi figliol prodigo del Nazareno arrivasse a Melzo nello stesso giorno della rivolta giudiziaria contro l’urbanistica presuntivamente corruttrice e corrotta di Milano. E lui è riuscito a parlarne apprezzando acrobaticamente sia i magistrati inquirenti sia il sindaco milanese finito fra la settantina degli indagati, di cui ha personalmente garantito competenza, onestà e serietà.

Ma oltre alle notizie della Pirellinpoli seguita alla Tangentopoli di 33 anni fa, ha accompagnato Renzi a Melzo  l’eco, diciamo così, dei festeggiamenti a Roma e dintorni dei primi mille giorni trascorsi da Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, in fase ormai di sorpasso anche del suo governo -di Renzi- durato fra il febbraio del 2014 e il dicembre del 2016.

         Della Meloni ormai il predecessore toscano ha un’ossessione. Per quanto ne scriva e ne dica il peggio possibile, deridendone più o meno la stabilità istituzionale, elettorale e sondaggistica, la sente minacciosamente e concretamente lanciata verso il Quirinale Dove nessuna donna -come prima di lei a Palazzo Chigi- è mai riuscita ad arrivare nella storia della Repubblica.

“Non credete alle balle. Loro -ha gridato Renzi aspirando al massimo tutto il possibile- vogliono mettere le mani al Quirinale. Non con Ignazio La Russa, con Giorgia Meloni. Se prendono il Colle viene meno un sistema istituzionale”. Alla scadenza del secondo mandato di Sergio Mattarella, nel 2029, mancano tre anni e mezzo, pari a circa 1300 giorni. Un’eternità di angoscia per il senatore di Scandicci. 

Ripreso da http://www.startmag.it   

Delusioni e pene dei nostalgici delle manette nella Milano urbanistica sotto inchiesta

         La “sottocultura manettara”, come la chiama Giuliano Ferrara scrivendone sul Foglio, sta soffrendo questa specie di riedizione di Tangentopoli a Milano, limitata all’urbanistica, perché le manca lo spettacolo di 33 anni fa. Quando gli arresti cadevano come foglie dall’albero di autunno. E della loro esecuzione giornali e televisioni erano avvisati in tempo per poterli riprendere al meglio.

Di una settantina quanti sono diventati gli indagati di adesso, triplicandosi in ventiquattro ore, almeno una decina sarebbero finiti in manette, davanti a fotografi e telecamere, con le abitudini e le norme del 1992. Che il ministro della Giustizia Carlo Nordio si è vantato di avere fatto modificare dal Parlamento, per cui ora si può finire arrestati dopo e non prima di essere interrogati.

         In questa novità tuttavia i nostalgici delle manette facili e abbondanti, festeggiate e sollecitate da cortei di manifestanti in orgasmo metaforico, hanno subito ravvisato la prova di un ulteriore degrado della moralità e della politica. Per cui i post-grillini di tendenza e presidenza Conte hanno avvisato il sindaco di Milano Beppe Sala, “allucinato” nel sapersi indagato leggendo i giornali, che non deve aspettarsi “sconti” se e quando gli dovesse toccare anche un arresto. Così è stata avvertita anche la segretaria del Pd Elly Schlein che gli ha telefonato per solidarietà.

          Ancora più chiaramente di Conte e altri onorevoli dichiaranti, sul Fatto Quotidiano il direttore in persona Marco Travaglio ha indicato ciò che compromette di più, e definitivamente il sindaco di Milano: la sua origine di destra, provenendo dall’amministrazione milanese di Letizia Moratti, le sue conseguenti abitudini e frequentazioni di ricchi insaziabili, anche di cemento. E infine la sua fallace, arbitraria collocazione a sinistra, per giunta in gara con altri, magari della sua stessa stoffa sociale e culturale, possibili federatori di un’alternativa al centrodestra estesa da Matteo Renzi a Nicola Fratoianni attraverso il Pd e il MoVimento 5 Stelle.

La deTutto questo è qualcosa di indigeribile che Travaglio, sempre lui, rimprovera alla Schlein di non avere ancora capito, visto che ha telefonato a Sala, ripeto, per condividerne allucinazione, sorpresa e quant’’altro. Soprattutto il rifiuto esplicito del sindaco di Milano di “riconoscersi” nella rappresentazione urbanistica di Milano corrotta e corruttibile fatta dagli inquirenti nelle richieste dei primi arresti, bontà loro, domiciliari: una Milano opaca di affari, oltre che  di skyline.

Ripreso da http://www.startmag.it 

La vittima designata di Pirellinpopoli è il Beppe Sala federatore dell’alternativa

Chiamiamola pure impropriamente Pirellinopoli, dal nome dell’edificio di Milano attorno al cui ampliamento per sei anni si è svolta una guerra fatta di vari ingredienti: burocratici, politici e persino legislativi, con un tentativo fallito di darle una soluzione in Parlamento. La vicenda infine è esplosa giudiziariamente, mediaticamente e politicamente nel millesimo giorno della permanenza di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, per cui si è risolta in una partecipazione alla festa della premier e, più in generale, del centrodestra. Paradossale, incredibile, “allucinante”-  come ha detto il sindaco di Milano Beppe Sala apprendendo dai giornali e non dalla Procura di essere indagato come lui, con un’altra ventina di persone fra cui sei sotto richiesta di arresti domiciliari- ma fattualmente vero.

         Per quanto non sottoposto anche lui, almeno sinora, alla richiesta degli arresti domiciliari, Sala è quello destinato a pagare di più per Pirellopoli per il semplice fatto che era quello che aveva ed ha politicamente da perdere di più a livello politico per gli obiettivi che si era proposti. O si era lasciato attribuire nella previsione della scadenza del suo secondo mandato di sindaco, cui non può seguirne un terzo consecutivo. Avrebbe potuto invece seguire, prima di questa vicenda apparentemente urbanistica, la sua partecipazione alla gara a federatore dell’alternativa al centrodestra nelle elezioni del 2027 per il rinnovo del Parlamento.

         La sua corsa è finita qui, come si diceva e credo si dica ancora nelle selezioni di miss Italia. Più che la richiesta di dimissioni da sindaco levatesi dall’interno del centrodestra, dove il garantismo si prende forse troppe licenze, vale contro Sala e la sua corsa alla leadership di un centrosinistra pur improbabilmente esteso abbastanza per diventare competitivo, il muro levato da Giuseppe Conte: l’ex presidente del Consiglio e presidente per ora solo del MoVimento 5 Stelle, che celebra adesso, credo senza allegria, i 1500 giorni trascorsi dalla perdita di Palazzo Chigi.  Dove a sostituirlo fu chiamato Mario Draghi dal tuttora presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

         Conte ha gridato che sul piano morale non guarda in faccia nessuno, e tanto meno gli fa sconti. A cominciare da Sala, che fra i vari inconvenienti ha anche quello -si potrebbe scherzare- di essere chiamato Beppe come Grillo. E di essergli anche notoriamente amico, forse persino solidale nella disavventura della sostanziale defenestrazione da garante o dal “più elevato” del movimento fondato praticamente in piazza, fra grida e insulti, dopo avere inutilmente tentato di scalare addirittura il Pd all’indomani delle dimissioni a sorpresa del suo primo segretario Walter Veltroni. Era l’estate, come questa, del 2009. Il segretario della sezione piddina di Arzachena, sulla Costa Smeralda, aveva anche incassato la quota di iscrizione di Grillo al partito, non so se rilasciandogli pure la tessera, comunque costretto poi a restituire l’una e riprendersi l’altra su ordine del reggente nazionale del Pd. Che era Dario Franceschini.

Pubblicato sul Dubbio

 Ripreso da http://www.startmag.it

I primi 1000 giorni di Meloni a Palazzo Chigi e 1500 di Conte fuori

         I primi 1000 giorni trascorsi da Giorgia Meloni a Palazzo Chigi hanno contenuto non so quante ore o giornate in aereo pe le sue numerose missioni all’estero, ma anche all’interno del paese, essendo il volo il più rapido modo di spostarsi. Ma Meloni stessa ha raccontato di avere vissuto in volo metaforico ciascuno dei suoi giorni da premier buttandosi col paracadute sulla realtà. E mai fallendo un lancio, per fortuna sua e sfortuna degli avversari. Che credo abbiano anche smesso di sperare in un incidente, nella consapevolezza di non essere pronti all’alternativa pur orgogliosamente propostasi nel campo a grandezza variabile, secondo i giorni, le ore, i minuti e gli umori degli sconfitti nelle elezioni politiche di quasi tre anni fa.

         Conte, il Giuseppe dell’anagrafe di Volturara Appula, non quello al plurale promosso dal primo Trump alla Casa Bianca, quando l’allora presidente del Consiglio italiano rimaneva a Palazzo Chigi cambiando disinvoltamente maggioranza, cioè sostituendo la Lega di Matteo Salvini col Pd di Nicola Zingaretti, e ancora di Matteo Renzi al Nazareno e dintorni; Conte, dicevo, ha opposto all’immaginazione ottimistica e compiaciuta della Meloni quella di una catastrofe. In particolare, egli ha contrapposto al paracadute sempre sicuro della premier -apertosi puntualmente per farla rialzare a terra, salire il giorno dopo sull’aereo e ripetere il lancio-  alla condizione dei poveri e affamati d’Italia. Che senza di lui a Palazzo Chigi, che li riforniva di redditi di cittadinanza e simili, non hanno uno straccio di paracadute cui appendersi sognando di volare.  O lanciandosi nel vuoto da qualche dirupo.

         E’ apocalitticamente immaginario, come si vede, il presunto migliore ex presidente del Consiglio d’Italia dopo la buonanima di Camillo Benso di Cavour, secondo la certificazione di Marco Travaglio che lo rimpiange quotidianamente da 1500 giorni, quanti ne sono passati all’incirca dall’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi, il 13 febbraio 2021. E non si dà pace della dabbenaggine dell’allora e ancora oggi presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quanto meno caduto nella trappola dei sostenitori dell’ex presidente della Banca Centrale Europea, se non promotore lui stesso di quel colpo di Stato attuato gestendo una crisi di governo che non a caso Conte aveva inutilmente cercato di ritardare, una volta persi per strada pezzi della sua seconda e ultima maggioranza.

Per convincere l’allora presidente del Consiglio a dimettersi, interrompendo la ricerca persino personale di nuovi apporti parlamentari, gli addetti ai lavori istituzionali sudarono le proverbiali sette camicie. Mancò solo l’invio di un carro attrezzi a Palazzo Chigi, come una volta un segretario della Dc minacciò parlando di un collega di partito arroccatosi nell’ufficio di presidente del Consiglio. Erano, rispettivamente, Arnaldo Forlani ed Emilio Colombo.

Blog su WordPress.com.

Su ↑