Goffredo Bettini scende dalle stelle fuori stagione per soccorrere l’amico Matteo Ricci

         Goffredo Bettini, già spintosi nel Pd a sostenere le carriere separate dei giudici e degli inquirenti perché dichiaratamente abituato dal compianto padre avvocato a diffidare di un potere giudiziario troppo forte, senza gli opportuni bilanciamenti nel rapporto anche con l’imputato all’interno del processo, ha compiuto un altro passo avanti sul terreno della giustizia e delle sue ricadute politiche.

         Il guru del Pd, quale Bettini viene considerato da tempo, ha preso la penna non per una dedica -come nella foto- di un suo libro a Matteo Ricci, amico e compagno di partito in tutte le edizioni del suo percorso, ma per il lancio di una proposta di solidarietà con l’ex sindaco di Pesaro e candidato alla presidenza della regione Marche. Che ha avuto notoriamente l’inconveniente di avere ricevuto l’avviso di cosiddetta garanzia proprio all’avvio delle procedure delle elezioni regionali, entrando nell’avventura di Affidopoli, come l’’inchiesta è stata mediaticamente chiamata.

         Compiaciuto della solidarietà e fiducia confermate all’amico Ricci dalla segretaria nazionale del partito Elly Schlein, e della modica reazione, diciamo così, del Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte, che non ha ancora ritirato l’appoggio annunciato alla corsa regionale dell’europarlamentare ed ex sindaco di Pesaro, chiedendo solo “le carte” per valutarle, Bettini ha proposto un accordo generale fra tutti gli schieramenti che si contendono di volta in volta il governo del Paese. Sarebbe quello di reagire francescanamente, diciamo così, a tutte le disavventure giudiziarie che dovessero continuare ad avere candidati, amministratori, parlamentari, cioè prendendone atto senza anticipare in alcun modo l’esito del percorso. Rispettando cioè alla lettera la presunzione di innocenza del resto messa in Costituzione, e sistematicamente ignorata da sempre, e non solo dai trent’anni e più che ci separano da Tangentopoli, mani pulite e via chiamando di volta in volta le inchieste a cronaca mista, giudiziaria e politica.

         Bella idea, bella proposta, per quanto un po’ tardiva, e formulata curiosamente in coincidenza coi problemi difficili maturati a sinistra con la magistratura. Bettini è sceso dalle stelle fuori stagione, diciamo così. Ma sarebbe bello lo stesso se Schlein e Meloni, Conte e Salvini, già abituati del resto a convivere in un governo, Tajani e Fratoianni, che fanno pure rima, Lupo e Bonelli, si incontrassero e sottoscrivessero l’intesa, il manifesto e quant’altro proposto oggi, via facebook, da Bettini. Affidandogli magari un ruolo di garante, assumendolo come un proboviro interpartitico. Un colpo di sole in estate sarebbe del resto naturale.  

Ripreso da http://www.startmag.it il 27 luglio

I presunti messaggi riservati di Franceschini ai magistrati che disturbano

         In un articolo misto di cronaca, retroscena, analisi e immaginazione Francesco Verderami sul Corriere della Sera ha visto e indicato nel discorso “pubblico” pronunciato al Senato conrto la riforma costituzionale della giustizia un “messaggio riservato” ai magistrati molto, forse troppo attivi in questo periodo ai danni della sinistra che amministra a livello locale e aspira all’alternativa al centrodestra a livello nazionale.

Un messaggio “riservato” in un discorso pubblico è un ossimoro, cioè una contraddizione in termini, come scrivere di un silenzio assordante. Ma di ossimori, si sa, è pieno il linguaggio politico. E anche quello letterario calzante con Franceschini scrittore di romanzi, oltre che regista nel Pd di tutte le maggioranze che si creano, si trasformano e si alternano. Un uomo insomma fatto apposta per messaggi riservati in discorso pubblico, ripeto adottando parole e immagini del retroscenista del Corriere.

         Il messaggio ai magistrati sarebbe quello di potersi fidare, a dispetto dei dissensi emersi in qualche settore del Pd, della mobilitazione del partito del Nazareno nella “battaglia referendaria tutta politica” per la bocciatura della riforma della giustizia che ha appena superato al Senato il secondo degli almeno quattro passaggi parlamentari necessari. Una riforma notoriamente indigesta alle toghe, almeno quelle associate e più attive, per la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministri, lo sdoppiamento del Consiglio Superiore della Magistratura  con un misto di elezione e di sorteggio, il conseguente colpo al gioco delle correnti e l’Alta Corte alla quale sottomettere, in modo non più “domestico”, i procedimenti sui magistrati.

         Nel suo “messaggio riservato” alle toghe, ma anche nell’incontro segreto con un “alto” magistrato non meglio definito, Franceschini avrebbe anticipato i timori che già avvertirebbe la premier Giorgia Meloni per ciò che lo stesso Franceschini starebbe organizzando nella conduzione del referendum sulla riforma della giustizia. Che la prenier, in particolare, dietro l’apparente accelerazione parlamentare avrebbe deciso o sarebbe tentata di ritardare per fare svolgere il relativo referendum dopo e non prima delle elezioni del 2027. Come, d’altronde, le è già stato attribuito per il referendum sul premierato.

         A conclusione del suo racconto da scoop Verderami si cautela da ogni smentiva scrivendo dell’”abilità” e della “prudenza” di Franceschini, “pronto a smentire”, appunto, “perché non può consentire che emerga ciò che davvero pensa, riservatamente dice”, ma soprattutto fa. L’invito, insomma,  ai magistrati e ai lettori, più in generale, è a fidarsi più di lui, Verderami, che del tenebroso senatore e regolo del Pd.  O del capogruppo del Pd al Senato Francesco Boccia, fedelissimo della segreteria del partito Elly Schlein.

Ripreso da http://www.startmag.it

Il compiacimento masochista della sinistra per l’assalto delle toghe al governo

A pensarci bene, neppure ai tempi di Tangentopoli  –quando tutto in fondo cominciò, ma con la mobilitazione di piazza stavolta mancata, almeno sinora, magari solo perché il Paese è disturbato dal caldo o dall’acqua dove cade troppo in abbondanza- si verificò lo sconquasso istituzionale di questi giorni. Come merita di esse considerato l’assalto combinato dei magistrati, associati nel loro sindacato o “tutelati” nell’omonimo Consiglio Superiore. Dove il ministro della Giustizia, peraltro ex magistrato, ma forse anche o soprattutto per questo, è finito praticamente sotto processo per avere osato contestare le critiche mossegli da un sostituto procuratore della Cassazione senza alcun rispetto per le competenze del tribunale dei ministri. Che se ne sta occupando.

         Eppure allora, più di 30 anni fa,  nonostante i ricordi, ripensamenti e quant’altro di Antonio Di Pietro tornato alla sua terra, in ogni senso, le inchieste sul finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica investirono il sistema. Come Craxi sfidò gli inquirenti e i partiti che li sostenevano a riconoscere sino in fondo, riducendo tutta la politica, il sistema appunto, ad un’associazione a delinquere che non avevano avuto invece il coraggio di contestare. Ad un “sistema criminale”, disse il leader socialista nell’aula di Montecitorio, ormai agli sgoccioli di una carriera che lo aveva portato per quattro anni, fra il 1983 e il 1987, alla guida del governo. Dove peraltro egli sarebbe tornato nel 1992 , con la sua alleanza con la Dc, se non fosse stato investito giudiziariamente, sino a dovere evitare l’arresto rifugiandosi nella sua casa estiva di Hammamet.

         Neppure in quei giorni, ripeto, di confusione e di eccitamento all’odio, con i giornali che avevano assunto le manette come logo delle pagine interne dedicate alle cronache giudiziarie e politiche, si arrivò ad un assalto per quanto metaforico al governo. O ai governi, per includere quelli che seguirono all’ultimo di Giulio Andreotti. E pensare che a presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura era l’ex magistrato, pure lui come Nordio, che si vantava di sentirsi ancora addosso la toga: Oscar Luigi Scalfaro. Il quale reclamava le dimissioni dei ministri indagati minacciando lo scioglimento delle Camere.  

         Il multiforme “campo largo” della improbabile alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni, per quanto investito esso stesso dalle Cementopoli, Affidopoli e varie che troneggiano sulle prime pagine dei giornali, sta assistendo a questo spettacolo – l’assalto al governo come al Palazzo d’Inverno- con un compiacimento più da intossicati che da lucidi. Non si rendono conto, lorsignori, come li chiamerebbe Fortebraccio se il mio amico Piero Sansonetti potesse disporne nella Unità riportata nelle edicole con un editore di destra, che se dovessero mai riuscire a vincere le elezioni politiche e tornare a Palazzo Chigi, si potrebbero trovare nelle stesse condizioni odierne della Meloni. Vi si troverebbero sia con la segretaria del Pd Elly Schlein, ancora più giovane della Meloni, sia con Giuseppe Conte, che sogna di notte e di giorno il posto perduto nel 2021.

 Conte, magari, potrà pensare in cuor suo di non correre rischi, o di correrne di meno, essendo riuscito a strappare al Pd, e alle edizioni precedenti, la posizione di maggiore fiancheggiamento della magistratura. Dalla quale sta anche ricavando in questi giorni un aumento della sua capacità contrattuale nel cosiddetto campo largo. L’ha subito spesa nelle Marche chiedendo “le carte” dell’ex sindaco di Pesaro Matteo Ricci, indagato in coincidenza con l’avvio delle procedure per le elezioni regionali alle quali egli è candidato della sinistra alla presidenza.

Ma la ruota gira, caro Conte zio di manzoniana memoria. E quella della magistratura ormai è imprevedibile, tanto è diventato grande il suo potere grazie alle debolezze e alle paure sulle quali essa ha potuto contare di volta in volta dal lontano 1992.

Pubblicato su Lbero

Continua a Milano la spasmodica attesa delle manette per Cementopoli

         Ha fatto notizia sulla prima pagina di Repubblica -l’unica fra quelle selezionate quotidianamente dalle rassegne parlamentari della stampa- l’ostinazione, probabilmente anche condivisa nell’intimo giustizialista, con la quale i pubblici ministeri di Milano hanno ribadito la richiesta di arrestare gli indagati sull’urbanistica ambrosiana, anche dopo gli interrogatori di garanzia eseguiti dal giudice competente.

         L’indagine milanese, che intanto ha provocato le dimissioni dell’assessore comunale Tancredi e l’entrata della giunta di Beppe Sala in una cosiddetta “fase due”, dai caratteri correttivi richiesti dal partito principale della maggioranza, che è il Pd, ha forse trovato un suo nuovo nome mediatico. Glielo ha applicato lo storico settimanale Espresso, che ha gridato in copertina Cementopoli. Avrà probabilmente più fortuna di altri ispirati sempre alla madre, diciamo così, di tutte le vicende giudiziarie di questo tipo che fu chiamata Tangentopoli nel 1992. Un nome che smentisce da solo il tentativo compiuto in questi giorni da Antonio Di Pietro, fra i protagonisti giudiziari di quell’anno, di distinguere le sue famose “mani pulite”, che avrebbero riguardato solo i reati e i loro responsabili, da quelle in corso ora a Milano, che sembrano perseguire, colpire e quant’altro “un fenomeno”.  Col rischio conseguente di bloccare lo sviluppo di una metropoli e di interferire con la politica dalle cui scelte esso deve dipendere.  Non dalla preferenza del modello che Di Pietro ha ironicamente, anzi sarcasticamente indicato nel “geometra di Canicattì”.

Il ministro della Giustizia processato dal Consiglio Superiore della Magistratura

Il “fuoco” ripetuto dell’associazione nazionale dei magistrati non è bastato. Si è aggiunto il Consiglio Superiore della Magistratura. Che con la posizione assunta oggi contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio per avere ribattuto alle critiche mossegli dal  sostituto procuratore della Cassazione Raffaele Piccirillo, messo ora sotto “tutela”, ha fatto ciò che nel 1985, su un livello più alto,  gli era stato impedito dal presidente Francesco Cossiga, presidente anche della Repubblica naturalmente.

         Allora nell’obbiettivo del Consiglio Superiore entrò direttamente il presidente del Consiglio Bettino Craxi per avere criticato il trattamento giudiziario troppo lieve, a suo giudizio, riservato ai responsabili dell’assassinio terroristico del giornalista del Corriere della Sera, e suo personale amico, Walter Tobagi, Che era stato ucciso sotto casa come un cane da un gruppetto estremistico che aspirava anche con quella azione ad essere assorbito dalle Brigate rosse. Delle quali il povero Walter, amico anche mio, aveva preso la imprudente abitudine di occuparsi sostenendone la pericolosità -e capacità di fuoco, dimostrata nel 1978 col sequestro di Aldo Moro, lo sterminio della scorta e l’uccisione dell’ostaggio dopo 55 giorni di prigionia- ma anche la possibilità di sconfiggerle.

         Informato non direttamente da lui, suo amico e collega di patito e di corrente democristiana, che il Consiglio Superiore della Magistratura stava per essere convocato per criticare Craxi e mettere praticamente sotto tutela giudici e inquirenti che si erano occupati del delitto Tobagi, il presidente Cossiga chiamò il vice presidente dell’organo di autogoverno della magistratura Giovanni Galloni per controllare l’informazione. A sentirsela confermare il capo dello Stato saltò letteralmente sulla sedia e spiegò all’interlocutore che il presidente del Consiglio risponde delle sue opinioni e della sua azione politica al Parlamento, che lo fiducia o sfiducia, non al Consiglio Superiore della Magistratura. Il capo del governo poteva allora finire pure sotto processo ma alla Corte Costituzionale, e non su iniziativa del Consiglio Superiore. Ora le cose sono cambiate.  Presidente del Consiglio e ministri finiscono all’omonimo tribunale.

         Poiché Galloni mostrava di voler tenere il punto, considerando normale l’ordine del giorno predisposto per il Consiglio del Palazzo dei Marescialli, Cossiga glielo impedì ritirandogli la delega della convocazione dell’organo di autogoverno della magistratura. E lo avvisò con la sua solita franchezza che se il Consiglio fosse stato convocato lo stesso e si fosse riunito allo scopo propostosi avrebbe mandato i Carabinieri, d’altronde già d’abitudine davanti al palazzo a proteggerlo, per impedire un evento per lui eversivo.

         La polemica naturalmente non finì col blocco della convocazione e della seduta. I rapporti fra Cossiga e Galloni non si sarebbero più ricomposti davvero. E Craxi naturalmente ringraziò Cossiga nella sua triplice veste di presidente del Consiglio, di leader politico e di amico personale, come il Guardasigilli Carlo Nordio non ha potuto fare ieri col vice presidente del Consiglio Superiore Fabio Pinelli, che di fatto ha gestito una vicenda tradottasi in un sostanziale processo a lui, Nordio.

Pubblicato su Libero

Pera fa al Senato con la riforma Nordio della giustizia come Garibaldi

         Al limite dell’ossimoro il senatore Marcello Pera, dirottato negli anni passati alla presidenza del Senato dal Ministero della Giustizia dove Silvio Berlusconi l’avrebbe voluto destinare, non è soddisfatto della separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Che tuttavia ha approvato insieme con i colleghi della maggioranza e con Carlo Calenda ancora formalmente all’opposizione.  

         In una intervista al Giornale egli ha paragonato i pubblici ministeri disciplinati dalla riforma costituzionale, che ha appena superato il secondo degli almeno quattro passaggi parlamentari necessari, a “1.300 ufficiali dei Carabinieri che si costituissero in un corpo, con gli stessi poteri di adesso ma senza ufficiali superiori e senza un comando generale”. Dei quali “ciascuno risponde a se stesso e nessuno è subordinato ad altri”.

         Con tutto il rispetto, la simpatia e quel poco anche di amicizia da lui concessami quando era presidente del Senato, il paragone di Pera fra i pubblici ministeri a carriera separata dai giudici e i 1.300 ufficiali dei Carabinieri senza superiori, cioè senza ordine, al singolare, non mi convince. I pubblici ministeri continueranno ad avere i loro superiori, che sono i capi delle Procure dove lavorano e i vice, che sono i procuratori aggiunti.

         Pera li preferirebbe come li avrebbe voluti nella Costituente il mitico Piero Calamamdrei, sottoposti non al governo, come l’associazione nazionale dei magistrati li considerano destinati a carriere separate da quelle dei giudici, ma a un “Procuratore generale commissario della giustizia” nominato dal Capo dello Stato “su una terna redatta dal Parlamento, che risponde di fronte alle Camere del buon andamento della magistratura, e sfiduciabile”.

         Una bella idea, di certo, quella del compianto Calamandrei. Che però non trovò campo fertile nell’Assemblea Costituente. Figuriamoci la fine che farebbe oggi in Parlamento se gli amici glielo lasciassero proporre. Il governo ha blindato la riforma nel testo attuale per evitarne un percorso più lungo. Ragione alla quale Pera si è arreso, ubbidendo come Giuseppe Garibaldi al generale Alfonso Lamarmora arrestando la sua avanzata verso Trento nella terza guerra d’indipendenza (1886). Ha ubbidito anche Pera conservando ed esercitando il suo diritto ad esprimere e spiegare il dissenso. Non siamo del resto in una guerra, anche se tale viene avvertita dall’associazione nazionale dei magistrati l’offensiva sindacale, culturale e quant’altro contro la riforma che porta ormai il nome del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Una guerra peraltro “di indipendenza” anch’essa, che le toghe associate considerano compromessa dalla separazione delle carriere e dalle altre innovazioni, come il doppio e parzialmente sorteggiato Consiglio Superiore della Magistratura e l’Alta Corte che sottrarrà i contenziosi dei magistrati alla disciplina che oggi chiamiamo domestica, in tutti i sensi.  

Il sorpasso delle 5 Stelle sul Pd nei rapporti con la magistratura

A proposito delle analogie, da alcuni avvertite e da altri contestate, fra le “mani pulite” a Milano nel 1992 e i “grattacieli puliti” di 33 anni dopo, sempre a Milano, mi sovviene un‘ammissione, confessione e quant’altro dell’ultimo segretario del Pci e primo del successivo Pds Achille Occhetto. Che si rammaricò a suo tempo del fatto che l’inchiesta sul finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica avesse finito per influenzare l’esito del confronto, a dir poco, apertosi fra i comunisti e i socialisti per l’egemonia a sinistra, e per un suo complessivo ridisegno, dopo il crollo del muro di Berlino.

Allora Bettino Craxi fece sventolare le bandiere orgogliosamente propiziatrici dell’”unità socialista” sotto l’insegna del garofano.  Propiziatrici per lui, che dal 1976, cioè dal suo arrivo alla segreteria socialista, perseguiva il riequilibrio dei rapporti di forza fra Pci e Psi, minacciose per Occhetto e compagni. Che si arroccarono in difesa e cavalcarono la vicenda giudiziaria di “mani pulite” per salvarsi dal compagno-nemico che incombeva.

I magistrati con la loro azione a Milano, rapidamente emulata altrove, apparvero così decisivi, volenti o nolenti, a favore del partito di Occhetto, tanto da provocare un contrappasso dantesco. Alle elezioni anticipate del 1994 vinse il centrodestra improvvisato da Silvio Berlusconi. E lo stesso Occhetto perse poi la guida del suo partito. La sinistra quindi, nel suo complesso e nelle nuove denominazioni dei partiti che la componevano, riuscì a godere solo dei guai di Craxi. Per il resto essa si condannò ad un’avventura che ancora continua come tale, tra alti e bassi, ma più bassi che alti, e nuove divisioni al suo interno.

E’ proprio su queste divisioni della sinistra che rischia di cadere come un incidente, più che come un aiuto, la vicenda giudiziaria dei “grattacieli puliti”, che finisce per svolgere, all’interno del cosiddetto campo largo della futuribile alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni, un ruolo a favore non del Pd ma dei suoi concorrenti, a cominciare da ciò che pur resta del Movimento 5 Stelle presieduto da Giuseppe Conte. Del quale è nota l’ambizione a tornare a Palazzo Chigi. Ma anche la cura con la quale ha cercato, e mi pare che sia anche riuscito a fare del suo movimento la sponda maggiore della magistratura, o di certa magistratura.

Non è un caso, credo, che al Senato abbia parlato contro l’approvazione, nel secondo degli almeno quattro passaggi parlamentari richiesti, della riforma costituzionale della giustizia per conto delle 5 Stelle l’ex procuratore generale della Cote d’Appello di Palermo Roberto Scarpinato. Ed ha parlato -altra curiosa coincidenza- mentre la sinistra incorreva in un’altra disavventura giudiziaria nelle Marche, all’avvio ufficiale della corsa dell’ex sindaco di Pesaro Matteo Ricci alla presidenza della regione.

Il diavolo, come si sa, si nasconde nei dettagli. O il veleno sta nella coda.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 27 luglio

L’autorete delle proteste al Senato contro la riforma della giustizia

         Sono state a dir poco sfortunate, almeno per le circostanze temporali, le proteste levatesi nell’aula del Senato contro la riforma costituzionale della giustizia proposta dal governo e approvata -nella seconda delle quattro tappe parlamentari del suo percorso- con 106 voti favorevoli, 61 contrari e 11 astensioni.

         Quelle locandine sventolate dai banchi delle opposizioni sulla Costituzione rovesciata dovevano accompagnare solo il secondo passaggio parlamentare -ripeto- della riforma che, fra l’altro, separa le carriere e i Consigli Superiori della Magistratura giudicante e inquirente Invece hanno accompagnato anche, per circostanze di tempo volute dalla magistratura inquirente, l’azione giudiziaria appena promossa contro l’eurodeputato del Pd ed ex sindaco di Pesaro Matteo Ricci mentre cominciava la sua corsa ufficiale a presidente della regione Marche.

         Così le cronache miste di giustizia e di politica, già abbondanti per l’urbanistica milanese finita sotto inchiesta col sindaco Beppe Sala e altri settanta e più, sono ulteriormente aumentate. E nel solito intreccio di velenosi sospetti proprio sui tempi delle iniziative giudiziarie. Che hanno colpito Sala, a Milano, nel mezzo della sua partecipazione alla lunga corsa per la formazione del campo largo dell’alternativa nazionale al centrodestra, e per chi dovrebbe guidarla candidandosi a Palazzo Chigi. E Ricci a Pesaro all’avvio della corsa a presidente, ripeto, della  sua regione.

         Il fatto che quelle locandine sulla Costituzione al rovescio siano state sventolate dai banchi soprattutto del Pd, cui appartengono come indipendente Sala e come iscritto e militante Ricci, le rende praticamente ridicole. Un’autorete più che una rete.

         La Costituzione viene rovesciata non dalla legittima proposta governativa di riforma della giustizia, al termine del cui percorso si sa già che seguirà un referendum popolare di verifica, o conferma, ma da una magistratura che ormai da troppi anni, direi, riesce a intrecciare la sua azione con la politica. Ieri, una trentina d’anni fa, ai tempi di Tangentopoli, mentre a sinistra per effetto della caduta del comunismo sotto il muro di Berlino i socialisti – non a caso i maggiori penalizzati dalla magistratura- tendevano a strappare la guida della sinistra al Pci. Oggi mentre, sempre a sinistra, si gioca la partita già accennata dell’alternativa al centrodestra nella prospettiva delle elezioni politiche del 2027.  Un’alternativa la cui guida è contesa praticamente fra il Pd e il Movimento 5 Stelle che nel frattempo è diventato il partito a più alto tasso di affiancamento alla magistratura, come una volta era il Pci.    

Il corso lungo della magistratura e quelli corti della politica

Nel consentire a Beppe Sala, che ha accettato si vedrà se più con coraggio o imprudenza, di proseguire con il suo secondo ed ultimo mandato di sindaco di Milano, il Pd ha assicurato a livello locale e nazionale che la magistratura proseguirà “il suo corso”. Certamente, figuriamoci. Non potranno essere né Sala nè il Pd a poterlo impedire, anche se lo volessero dietro la facciata della sfida o della fiducia, come preferite.

         Ma temo per Sala, i suoi amici, i suoi estimatori, simpatizzanti eccetera che “il corso” della magistratura sia non meno insidioso insidioso di quello della maggioranza, se non addirittura di più. Anche perché nel caso del sindaco di Milano la maggioranza è solo apparentemente una sola. In realtà sono almeno due. Una è quella più o meno confermatasi nell’aula del Consiglio Comunale, dove non è presente nemmeno fisicamente il Movimento 5 Stelle che sta all’opposizione fuori, deciso a “non fare sconti”, come ha avvertito con severità, minaccia e quant’altro da Roma Giuseppe Conte camminando quasi a passo di carica fra la sua abitazione, gli uffici del partito e quelli della Camera.

         L’altra maggioranza è quella futuribile a livello nazionale alla quale lavora, sempre a Roma, la segretaria del Pd pensando –“testardamente unitaria”, come usa ripetere- al cosiddetto campo largo dell’alternativa al centrodestra. A partecipazione naturalmente pentastellata o pentastellare, anche a costo o a rischio di lasciarla guidare dallo stesso Conte, o da altri che dovessero prevalere nella corsa di cui ogni tanto si avvertono i rumori.

Al lavoro della Schlein per questa maggioranza a guida ancora incerta o improbabile non mi pare proprio che voglia o possa sottrarsi il Pd milanese. Dal quale pertanto Sala dovrebbe guadarsi per primo dietro la facciata della solidarietà ricevuta, del resto condizionata a quella che in politica anche noi cronisti ci siamo abituati a chiamare “fase due” di un governo, locale o nazionale che sia. Una fase che in genere, già nella cosiddetta prima Repubblica, quando c’erano partiti fortemente strutturati e leader un pò più navigati di quelli attuali, senza volerli offendere, si risolveva in un fiasco. O, se preferite, in una crisi ritardata, e quindi in una situazione più aggrovigliata e densa di veleni e sospetti.

         Il buon Andreotti -che pure si sarebbe poi distinto per una resistenza opposta a Ciriaco De Mita che ne voleva la caduta del governo di turno perché, a suo avviso, troppo logorato, sino a dire che “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia- mi disse una volta, che “le fasi due dei governi” dovevano intendersi addirittura “agonie”. Delle quali bisognava solo preoccuparsi che fossero per il malcapitato le meno dolorose.

         Mi rendo conto che non è bello parlarne. E neppure sentirne o leggerne per il sindaco Sala. Ma questa è -lui lo sa molto bene, con o senza quella “faccia di Cristo in croce” che gli ha impietosamente attribuito Carmelo Caruso sul Foglio sentendolo e vedendolo al Consiglio comunale di lunedì- la situazione in cui si trova, spintovi dalle circostanze sempre drammatiche quali sono quelle che si producono quando si intrecciano i “corsi” – ripeto- della politica e della giustizia, dei partiti e delle procure della Repubblica. Circostanze che francamente, pur condividendola, non so se e fin quanto potranno essere eliminate o ridotte dalla riforma costituzionale della giustizia “in corso” d’esame, anch’esso, in Parlamento. Quella, per intenderci, della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, del doppio Consiglio Superiore della Magistratura e dell’Alta Corte per le toghe, oggi sottoposte ad un trattamento domestico sotto tutti i punti di vista.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 26 luglio

Le mani pulite ostentate da Beppe Sala nel Consiglio comunale di Milano

         Il sindaco Beppe Sala, indagato con più di altre settanta persone per l’urbanistica di Milano sporcata, secondo la Procura, da affaristi senza scrupoli e complici in conflitto d’interesse, ha deciso di restare fidandosi della solidarietà pur condizionata del Pd, che si aspetta da lui una correzione, quanto meno, di rotta. Lo ha deciso e annunciato al Consiglio Comunale ostentando le sue mani dichiaratamente “pulite”, come nel titolo dell’inchiesta del 1992 sul finanziamento tangentizio della politica. E in quasi tutti i titoli di prima pagina guadagnatisi oggi dal sindaco indagato, al quale Carmelo Caruso ha attribuito tuttavia sul Foglio, “la faccia del Cristo in croce”. In effetti, non era per niente felice. Meno infelice, in fondo, è apparso l’assessore alla cosiddetta rigenerazione urbanistica Giancarlo Tancredi, dimessosi spontaneamente nella speranza di evitare in questo modo, durante o dopo l’interrogatorio fissatogli per mercoledì in tribunale, l’arresto chiesto dagli inquirenti, per quanto domiciliare.

         Credo che difficilmente il consigliere comunale della destra Enrico Marcora vedrà realizzato il sogno francamente osceno, espresso in un fotomontaggio e contrario anche alla linea garantista dichiarata dalla premier Giorgia Meloni a Roma, di un Sala detenuto, lasciato però dai carcerieri con i suoi calzini gioiosamente colorati ai piedi.  Ma non per questo la vita del sindaco nel residuo del suo secondo e ultimo mandato a Palazzo Marino sarà facile, anche per tutte le diffidenze e ostilità che si è procurato nella sua stessa area di cosiddetto centrosinistra da quando ha mostrato un certo interesse, una certa voglia di partecipazione, non credo marginale, al cosiddetto campo largo dell’alternativa al governo di centrodestra da proporre agli elettori nel 2027. Una voglia che insisto a sospettare gli sia in qualche modo costata anche la disavventura, chiamiamola così, di questi giorni per l’abitudine ormai consolidatasi in Italia   di inquinare la politica con la giustizia, e viceversa.

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