Dario Franceschini si sente strattonato dal Corriere della Sera e lo smentisce

         Come era facile prevedere, e come lo stesso autore del quasi scoop aveva furbescamente messo nel conto considerandola una eventualità naturale, l’ex ministro del Pd Dario Franceschini ha smentito il “messaggio segreto” ai magistrati attribuitogli da Francesco Verderami, del Corriere della Sera, riferendo del discorso da lui pronunciato al Senato contro la riforma costituzionale della giustizia targata Nordio.

         Il messaggio sarebbe consistito in una proposta, offerta e quant’altro di scambio fra una magistratura più contenuta, quanto meno, nelle indagini che stanno investendo amministrazioni ed esponenti importanti del Pd, e più in generale della sinistra, e una mobilitazione estrema del Nazareno e dintorni nel referendum contro la riforma Nordio che ne seguirà l’approvazione. Una mobilitazione, secondo notizie e quant’altro adombrate sul Corriere della Sera, già avvertita nella sua pericolosità dalla premier Giorgia Melon: a tal punto da tentarla al rallentamento del percorso della riforma nota soprattutto per la separazione delle carriere fra giudici e inquirenti. Un rallentamento che farebbe slittare il referendum nominalmente “confermativo” a dopo le elezioni politiche del 2027.

         La smentita opposta alla “fantasia” del retroscenista del Corriere della Sera è arrivata da Franceschini anche a seguito di una sostanziale richiesta pubblica di chiarimento avanzatagli dal dichiaratamente amico ed estimatore ministro della Difesa Guido Crosetto. Che della riforma Nordio è tra i più convinti sostenitori. Ed è anche tra i fratelli d’Italia il più anziano emotivamente, con i suoi soli 61 anni, e vicino alla premier.

Ripreso da http://www.startmag.it il 28 luglio

Panico al Nazareno per la dipendenza del Pd da Giuseppe Conte

         Panico al Nazareno, neppure tanto nascosto, per l’ultimo sondaggio elettorale condotto dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli. Nel mese trascorso fra il 26 giugno e il 24 luglio, durante il quale si sono intrecciate più del solito le cronache politiche con quelle giudiziarie, da Cementopoli ad Affidopoli, come i giornali chiamano le indagini che imbarazzano, a dir poco, il Pd  da Milano alle Marche, la Schlein ha perduto un modesto 0,3 per cento -peraltro quasi quanto lo 0,2 perso da Giorgia Meloni sul fronte del centrodestra ,attestandosi sul 28 per cento delle intenzioni di voto- ma il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte nel campo più o meno largo della futuribile alternativa al centrodestra ha guadagnato, secco, l’1 per cento. Che ha portato l’ex presidente del Consiglio ad un 14,3 per cento che lo rende determinante da quelle parti, per quanti sforzi possano fare da soli o siano aiutati a fare dal volenteroso Goffredo Bettini per allargare la “tenda” dei moderati, rifornisti e quant’altri.

         Un 14 per cento, arrotondando in difetto, è pari a quanto prendeva il Psi del garofano di Bettino Craxi, al quale la Dc non dell’amico Arnaldo Forlani ma del “nemico” Ciriaco De Mita nel 1983 fu costretto a cedere Palazzo Chigi per quattro anni, sino al 1987, dopo averlo lasciato meno dolorosamente, ma sempre con fastidio, a Giovanni Spadolini per circa un anno e mezzo, fra giugno del 1981 e novembre 1982.

         Schlein finge di non accorgersi, come i suoi collaboratori più stretti e i critici, se non avversari interni, che la circondano, ma il Pd nato dalla fusione dei resti del Pci, della sinistra democristiana e cespugli vari, si trova sul terreno dei rapporti con Conte nella stessa situazione, o pressappoco, della Dc con Craxi. Con la differenza che la Dc era la Dc, il Pd è il Pd e Conte naturalmente non è Craxi. Anche se questo, magari, lo renderà orgoglioso e più spedito nel passo.

         Dopo avere infilato con tanta testardaggine “unitaria”, come lei stessa la definisce parlandone in pubblico e in privato, il Pd in un campo dove Conte ha la cosiddetta azione d’oro, per quanto sceso a meno della metà dei voti che prendeva a suo tempo Beppe Grillo, la Schlein ne è rimasta sostanzialmente prigioniera. Non riuscirà probabilmente a sfilarsene, e chissà in quanto tempo, da sola. Né è facile che trovi qualcuno che possa ma soprattutto voglia aiutarla, al punto in cui sono arrivati i rapporti al Nazareno.  E’ più probabile che possa o debba tentare un altro, prima o dopo, l’impresa dello sganciamento.

Ripreso da http://www.startmag.it

La campagna referendaria contro la riforma non ancora approvata della giustizia

“Mi pare che si stia mettendo in pratica un progetto che, visto nel suo complesso, scardina gli architravi sui quali è stata costruita la nostra democrazia costituzionale. Penso all’autonomia differenziata, alla riforma del premierato, alla riforma della giustizia, alla legge sicurezza. Cambia non solo l’equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, così sapientemente disegnato dai nostri costituenti nella preoccupazione di garantire che non si potesse giungere a una dittatura della maggioranza, ma anche il rapporto tra potere e cittadini”. Così, parlando del governo di Giorgia Meloni, ha detto verso la conclusione di una lunga intervista al direttore del Foglio Claudio Cerasa non la segretaria del Pd Elly Schlein, non il suo concorrente alla guida della futuribile alternativa al centrodestra, l’ex presidente pentastellato del Consiglio Giuseppe Conte, ma la giudice in carriera Silvia Albano, presidente della storica corrente di sinistra delle toghe chiamata Magistratura democratica.

         Sono parole, quelle della dottoressa Albano, non certo sorprendenti per la storia della sua corrente, ripeto, e per i suoi recenti interventi professionali, cioè giudiziari, che l’hanno persino orgogliosamente opposta al governo per l’applicazione che questo si aspettava delle norme disposte per contrastare l’immigrazione clandestina. Ma sorprendenti per chi. leggendo la prima parte dell’intervista, si era illuso che il buon Cerasa facesse il miracolo propostosi, sulla scia di quanto ottenuto di recente da Antonio Di Pietro, non dico di convertire, per carità, ma di spostare di qualche metro o centimetro la posizione della sua interlocutrice nota, a torto o a ragione, come la capa delle “toghe rosse”. E così rappresentata anche nel titolo, in rosso anch’esso, dedicatole in prima pagina dal Foglio.

         Con quella risposta alla domanda sul governo Meloni, preceduta del resto dalla natura “resistenziale” rivendicata dalla giudice per il referendum cui l’associazione dei magistrati intende partecipare attivamente contro la riforma della giustizia all’esame del Parlamento, la giudice Albano ha buttato, volente o nolente, un barattolo di vernice, non dico di quale colore, sulla tela che il povero Cerasa voleva completare di una magistrata polemica sì, anche di punta, ma non del tutto salita sulla montagna per “resistere”, come dicevo, al governo propostosi di instaurare “la dittatura della maggioranza”. Preferibile forse a quella della minoranza, ma pur sempre dittatura.

         Il buon Cerasa ha ugualmente esposto come bandierine o trofei, nei sommari apposti ai titoli sulla sua intervista alla dottoressa Albano, il riconoscimento strappatole di una certa ragionevolezza della “inappellabilità di primo grado” prospettata dal ministro della Giustizia, o l’ammissione che “ci siano state occasioni in cui la magistratura ha pestato il fianco a critiche”, o il riconoscimento degli “aggettivi di troppo” negli atti dei pubblici ministeri, e persino nelle sentenze. Ma il risultato o quadro complessivo della tentata conversione della “capa delle toghe rosse” è stato francamente negativo.

         Il guaio maggiore dell’associazione nazionale dei magistrati è tuttavia quello di essere rimasta a sinistra, diciamo così, pur sotto la presidenza del moderato Cesare Parodi, di Magistratura indipendente. Che ha come il fiato addosso quello del segretario Rocco Maruotti, di Area democratica, affine all’omonima Magistratura. Il referendum contro la separazione delle carriere e il resto le vedrà tutte appassionatamente insieme. Un referendum la cui campagna è paradossalmente cominciata, come solo tra i magistrati poteva accadere, prima ancora che sia stata approvata del tutto la riforma Nordio in Parlamento.

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