Pera fa al Senato con la riforma Nordio della giustizia come Garibaldi

         Al limite dell’ossimoro il senatore Marcello Pera, dirottato negli anni passati alla presidenza del Senato dal Ministero della Giustizia dove Silvio Berlusconi l’avrebbe voluto destinare, non è soddisfatto della separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Che tuttavia ha approvato insieme con i colleghi della maggioranza e con Carlo Calenda ancora formalmente all’opposizione.  

         In una intervista al Giornale egli ha paragonato i pubblici ministeri disciplinati dalla riforma costituzionale, che ha appena superato il secondo degli almeno quattro passaggi parlamentari necessari, a “1.300 ufficiali dei Carabinieri che si costituissero in un corpo, con gli stessi poteri di adesso ma senza ufficiali superiori e senza un comando generale”. Dei quali “ciascuno risponde a se stesso e nessuno è subordinato ad altri”.

         Con tutto il rispetto, la simpatia e quel poco anche di amicizia da lui concessami quando era presidente del Senato, il paragone di Pera fra i pubblici ministeri a carriera separata dai giudici e i 1.300 ufficiali dei Carabinieri senza superiori, cioè senza ordine, al singolare, non mi convince. I pubblici ministeri continueranno ad avere i loro superiori, che sono i capi delle Procure dove lavorano e i vice, che sono i procuratori aggiunti.

         Pera li preferirebbe come li avrebbe voluti nella Costituente il mitico Piero Calamamdrei, sottoposti non al governo, come l’associazione nazionale dei magistrati li considerano destinati a carriere separate da quelle dei giudici, ma a un “Procuratore generale commissario della giustizia” nominato dal Capo dello Stato “su una terna redatta dal Parlamento, che risponde di fronte alle Camere del buon andamento della magistratura, e sfiduciabile”.

         Una bella idea, di certo, quella del compianto Calamandrei. Che però non trovò campo fertile nell’Assemblea Costituente. Figuriamoci la fine che farebbe oggi in Parlamento se gli amici glielo lasciassero proporre. Il governo ha blindato la riforma nel testo attuale per evitarne un percorso più lungo. Ragione alla quale Pera si è arreso, ubbidendo come Giuseppe Garibaldi al generale Alfonso Lamarmora arrestando la sua avanzata verso Trento nella terza guerra d’indipendenza (1886). Ha ubbidito anche Pera conservando ed esercitando il suo diritto ad esprimere e spiegare il dissenso. Non siamo del resto in una guerra, anche se tale viene avvertita dall’associazione nazionale dei magistrati l’offensiva sindacale, culturale e quant’altro contro la riforma che porta ormai il nome del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Una guerra peraltro “di indipendenza” anch’essa, che le toghe associate considerano compromessa dalla separazione delle carriere e dalle altre innovazioni, come il doppio e parzialmente sorteggiato Consiglio Superiore della Magistratura e l’Alta Corte che sottrarrà i contenziosi dei magistrati alla disciplina che oggi chiamiamo domestica, in tutti i sensi.  

Il sorpasso delle 5 Stelle sul Pd nei rapporti con la magistratura

A proposito delle analogie, da alcuni avvertite e da altri contestate, fra le “mani pulite” a Milano nel 1992 e i “grattacieli puliti” di 33 anni dopo, sempre a Milano, mi sovviene un‘ammissione, confessione e quant’altro dell’ultimo segretario del Pci e primo del successivo Pds Achille Occhetto. Che si rammaricò a suo tempo del fatto che l’inchiesta sul finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica avesse finito per influenzare l’esito del confronto, a dir poco, apertosi fra i comunisti e i socialisti per l’egemonia a sinistra, e per un suo complessivo ridisegno, dopo il crollo del muro di Berlino.

Allora Bettino Craxi fece sventolare le bandiere orgogliosamente propiziatrici dell’”unità socialista” sotto l’insegna del garofano.  Propiziatrici per lui, che dal 1976, cioè dal suo arrivo alla segreteria socialista, perseguiva il riequilibrio dei rapporti di forza fra Pci e Psi, minacciose per Occhetto e compagni. Che si arroccarono in difesa e cavalcarono la vicenda giudiziaria di “mani pulite” per salvarsi dal compagno-nemico che incombeva.

I magistrati con la loro azione a Milano, rapidamente emulata altrove, apparvero così decisivi, volenti o nolenti, a favore del partito di Occhetto, tanto da provocare un contrappasso dantesco. Alle elezioni anticipate del 1994 vinse il centrodestra improvvisato da Silvio Berlusconi. E lo stesso Occhetto perse poi la guida del suo partito. La sinistra quindi, nel suo complesso e nelle nuove denominazioni dei partiti che la componevano, riuscì a godere solo dei guai di Craxi. Per il resto essa si condannò ad un’avventura che ancora continua come tale, tra alti e bassi, ma più bassi che alti, e nuove divisioni al suo interno.

E’ proprio su queste divisioni della sinistra che rischia di cadere come un incidente, più che come un aiuto, la vicenda giudiziaria dei “grattacieli puliti”, che finisce per svolgere, all’interno del cosiddetto campo largo della futuribile alternativa al centrodestra di Giorgia Meloni, un ruolo a favore non del Pd ma dei suoi concorrenti, a cominciare da ciò che pur resta del Movimento 5 Stelle presieduto da Giuseppe Conte. Del quale è nota l’ambizione a tornare a Palazzo Chigi. Ma anche la cura con la quale ha cercato, e mi pare che sia anche riuscito a fare del suo movimento la sponda maggiore della magistratura, o di certa magistratura.

Non è un caso, credo, che al Senato abbia parlato contro l’approvazione, nel secondo degli almeno quattro passaggi parlamentari richiesti, della riforma costituzionale della giustizia per conto delle 5 Stelle l’ex procuratore generale della Cote d’Appello di Palermo Roberto Scarpinato. Ed ha parlato -altra curiosa coincidenza- mentre la sinistra incorreva in un’altra disavventura giudiziaria nelle Marche, all’avvio ufficiale della corsa dell’ex sindaco di Pesaro Matteo Ricci alla presidenza della regione.

Il diavolo, come si sa, si nasconde nei dettagli. O il veleno sta nella coda.

Pubblicato sul Dubbio

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