L’autorete delle proteste al Senato contro la riforma della giustizia

         Sono state a dir poco sfortunate, almeno per le circostanze temporali, le proteste levatesi nell’aula del Senato contro la riforma costituzionale della giustizia proposta dal governo e approvata -nella seconda delle quattro tappe parlamentari del suo percorso- con 106 voti favorevoli, 61 contrari e 11 astensioni.

         Quelle locandine sventolate dai banchi delle opposizioni sulla Costituzione rovesciata dovevano accompagnare solo il secondo passaggio parlamentare -ripeto- della riforma che, fra l’altro, separa le carriere e i Consigli Superiori della Magistratura giudicante e inquirente Invece hanno accompagnato anche, per circostanze di tempo volute dalla magistratura inquirente, l’azione giudiziaria appena promossa contro l’eurodeputato del Pd ed ex sindaco di Pesaro Matteo Ricci mentre cominciava la sua corsa ufficiale a presidente della regione Marche.

         Così le cronache miste di giustizia e di politica, già abbondanti per l’urbanistica milanese finita sotto inchiesta col sindaco Beppe Sala e altri settanta e più, sono ulteriormente aumentate. E nel solito intreccio di velenosi sospetti proprio sui tempi delle iniziative giudiziarie. Che hanno colpito Sala, a Milano, nel mezzo della sua partecipazione alla lunga corsa per la formazione del campo largo dell’alternativa nazionale al centrodestra, e per chi dovrebbe guidarla candidandosi a Palazzo Chigi. E Ricci a Pesaro all’avvio della corsa a presidente, ripeto, della  sua regione.

         Il fatto che quelle locandine sulla Costituzione al rovescio siano state sventolate dai banchi soprattutto del Pd, cui appartengono come indipendente Sala e come iscritto e militante Ricci, le rende praticamente ridicole. Un’autorete più che una rete.

         La Costituzione viene rovesciata non dalla legittima proposta governativa di riforma della giustizia, al termine del cui percorso si sa già che seguirà un referendum popolare di verifica, o conferma, ma da una magistratura che ormai da troppi anni, direi, riesce a intrecciare la sua azione con la politica. Ieri, una trentina d’anni fa, ai tempi di Tangentopoli, mentre a sinistra per effetto della caduta del comunismo sotto il muro di Berlino i socialisti – non a caso i maggiori penalizzati dalla magistratura- tendevano a strappare la guida della sinistra al Pci. Oggi mentre, sempre a sinistra, si gioca la partita già accennata dell’alternativa al centrodestra nella prospettiva delle elezioni politiche del 2027.  Un’alternativa la cui guida è contesa praticamente fra il Pd e il Movimento 5 Stelle che nel frattempo è diventato il partito a più alto tasso di affiancamento alla magistratura, come una volta era il Pci.    

Il corso lungo della magistratura e quelli corti della politica

Nel consentire a Beppe Sala, che ha accettato si vedrà se più con coraggio o imprudenza, di proseguire con il suo secondo ed ultimo mandato di sindaco di Milano, il Pd ha assicurato a livello locale e nazionale che la magistratura proseguirà “il suo corso”. Certamente, figuriamoci. Non potranno essere né Sala nè il Pd a poterlo impedire, anche se lo volessero dietro la facciata della sfida o della fiducia, come preferite.

         Ma temo per Sala, i suoi amici, i suoi estimatori, simpatizzanti eccetera che “il corso” della magistratura sia non meno insidioso insidioso di quello della maggioranza, se non addirittura di più. Anche perché nel caso del sindaco di Milano la maggioranza è solo apparentemente una sola. In realtà sono almeno due. Una è quella più o meno confermatasi nell’aula del Consiglio Comunale, dove non è presente nemmeno fisicamente il Movimento 5 Stelle che sta all’opposizione fuori, deciso a “non fare sconti”, come ha avvertito con severità, minaccia e quant’altro da Roma Giuseppe Conte camminando quasi a passo di carica fra la sua abitazione, gli uffici del partito e quelli della Camera.

         L’altra maggioranza è quella futuribile a livello nazionale alla quale lavora, sempre a Roma, la segretaria del Pd pensando –“testardamente unitaria”, come usa ripetere- al cosiddetto campo largo dell’alternativa al centrodestra. A partecipazione naturalmente pentastellata o pentastellare, anche a costo o a rischio di lasciarla guidare dallo stesso Conte, o da altri che dovessero prevalere nella corsa di cui ogni tanto si avvertono i rumori.

Al lavoro della Schlein per questa maggioranza a guida ancora incerta o improbabile non mi pare proprio che voglia o possa sottrarsi il Pd milanese. Dal quale pertanto Sala dovrebbe guadarsi per primo dietro la facciata della solidarietà ricevuta, del resto condizionata a quella che in politica anche noi cronisti ci siamo abituati a chiamare “fase due” di un governo, locale o nazionale che sia. Una fase che in genere, già nella cosiddetta prima Repubblica, quando c’erano partiti fortemente strutturati e leader un pò più navigati di quelli attuali, senza volerli offendere, si risolveva in un fiasco. O, se preferite, in una crisi ritardata, e quindi in una situazione più aggrovigliata e densa di veleni e sospetti.

         Il buon Andreotti -che pure si sarebbe poi distinto per una resistenza opposta a Ciriaco De Mita che ne voleva la caduta del governo di turno perché, a suo avviso, troppo logorato, sino a dire che “è meglio tirare a campare che tirare le cuoia- mi disse una volta, che “le fasi due dei governi” dovevano intendersi addirittura “agonie”. Delle quali bisognava solo preoccuparsi che fossero per il malcapitato le meno dolorose.

         Mi rendo conto che non è bello parlarne. E neppure sentirne o leggerne per il sindaco Sala. Ma questa è -lui lo sa molto bene, con o senza quella “faccia di Cristo in croce” che gli ha impietosamente attribuito Carmelo Caruso sul Foglio sentendolo e vedendolo al Consiglio comunale di lunedì- la situazione in cui si trova, spintovi dalle circostanze sempre drammatiche quali sono quelle che si producono quando si intrecciano i “corsi” – ripeto- della politica e della giustizia, dei partiti e delle procure della Repubblica. Circostanze che francamente, pur condividendola, non so se e fin quanto potranno essere eliminate o ridotte dalla riforma costituzionale della giustizia “in corso” d’esame, anch’esso, in Parlamento. Quella, per intenderci, della separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, del doppio Consiglio Superiore della Magistratura e dell’Alta Corte per le toghe, oggi sottoposte ad un trattamento domestico sotto tutti i punti di vista.

Pubblicato su Libero

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