La difesa bipartisan di Mattarella dagli attacchi per russofobia

         Quel Mattarella messo a Mosca nella lista dei russofobi per le posizioni sempre espresse a favore dell’Ucraina, aggredita  tre anni e mezzo  fa con una cosiddetta operazione speciale che perdura sino a spazientire il presidente americano ben disposto verso Putin, ha prodotto un miracolo nella politica italiana. Oltre alla convocaziome dell’ambasciatore di Mosca alla Farnesina.

         Da entrambi gli schieramenti, di governo -pur nel silenzio del vice presidente leghista del Consiglio Matteo Salvini escluso dalla lista, diversamente dai ministri Tajani e Crosetto-  e di opposizione sparsa nel campo largo di fantasia bettiniana, da Goffredo Bettini del Pd; da entrambi gli schieramenti, dicevo, si sono levate voci in difesa del presidente della Repubblica. Che dal canto suo ha profittato dell’incontro con la stampa parlamentare, che gli ha donato il tradizionale ventaglio, per ribadire la concezione che ha non dei russi ma del suo governo dispotico: “un macigno” per l’Europa. Che ha il sacrosanto diritto di sentirsi minacciata e di proteggersi dalla “angosciosa postura aggressiva del Cremlino.  

         Purtroppo è ormai avvertibile, come un macigno -per i morti e gli affamati di Gaza e per la guerra che sta perdendo sul fronte mediatico, l’ottavo di quelli sui quali combatte- anche l’Israele di Nethanyau in Medio Oriente, e oltre.  E Mattarella non si è certamente risparmiato nelle parole di biasimo per “l’ostinazione a uccidere”. Parole alle quali la premier Giorgia Meloni ha fatto seguire una telefonata all’omologo di Gerusalemme per chiedere, anzi per tornare a chiedere la fine di quello che è ormai diventato uno scempio, pur provocato dal podrom del 7 ottobre di due anni fa. Quando i terroristi di Hamas sconfinarono in Israele da una terra di palestinesi – Gaza, appunto- sotto le cui case, scuole, ospedali, chiese, mercati, piazze e strade essi hanno costruito un gigantesco arsenale antisemita con i finanziamenti ricevuti per migliorare la vita della popolazione. Che è quindi ostaggio di quelli che dicono di volerla difendere e rappresentare. Una oscenità sanguinaria, a dir poco.

Lo spartito di “mani pulite” nei ricordi del nipote musicista di Borrelli

Delle mani pulite milanesi di più di trent’anni fa, evocate in questi giorni, a torto o a ragione, per la Cementopoli sempre di Milano o l’Affidopoli di Pesaro e altro, non si riesce mai a saperne abbastanza. L’ultimo o penultimo inedito è del grande musicista Alessio Vlad, figlio dell’ancor più famoso Roman e nipote -come ho scoperto leggendone una lunga intervista autobiografica al Corriere della Sera– di Francesco Saverio Borrelli. Che fu il capo della Procura ambrosiana sotto la cui metaforica ghigliottina finirono partiti e leader, prevalentemente di governo, della cosiddetta prima Repubblica. Un magistrato appassionato anche di musica, immancabile alle prime della Scala, sempre a Milano, e di equitazione.

         Nipote di Borrelli per via di sua moglie, Alessio ha raccontato che lo zio apprezzava del suo sostituto Antonio Di Pietro “il merito di introdurre l’uso dell’informatica nelle indagini”, anche quelle sul finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica. Ma non di più, in particolare non ne condivideva “metodo di sbattere in galera gli indagati”, che infatti furono tanti. Alcuni dei quali si uccisero pur di non finire in galera, o dopo esservi finiti senza essere stati ancora rinviati a giudizio.

         Eppure forse per la popolarità di Di Pietro proiettata sulle indagini, o chissà per cos’altro, Borrelli -ha raccontato il nipote- “non fece nulla per limitare quel modo di fare” del suo sostituto. E produsse, volente o nolente, contrasti anche in famiglia “perché -ha raccontato ancora Alessio Vlad- mio padre con Paolo Grassi e Strehler era legato al partito socialista finito nel mirino del pool” di mani pulite. Un partito peraltro di cui alcuni esponenti, a cominciare dal sindaco di Milano Paolo Pillitteri e dell’architetto Claudio Dini, presidente della Metropolitana ambrosiana, erano stati amici personali e conviviali dello stesso Di Pietro prima di diventarne indagati e imputati.

Pubblicato sul Dubbio

Eppur (non) si muove l’Europa colpita dai dazi americani

         Dell’Europa intesa come Unione, con la sua Commissione presieduta a Bruxelles da Ursula von der Leyen, si vorrebbe poter dire, come Galileo Galilei della terra dopo essere stato costretto ad abiurare la sua opposta teoria, che “pur si muove”. Nonostante la mazzata datale dal presidente americano con i dazi nominalmente al 15 per cento rispetto al 30 annunciato o minacciato. Su cui si è aperta in Italia, ma anche altrove, una furiosa polemica relativa alla loro “sostenibilità”.

         Il confronto, chiamiamolo così, è difficile anche perché i documenti americani e quelli europei, pur scritti entrambi in inglese, non sembrano combaciare. Manca del resto, e forse non a caso, una fotografia che ne documenti la firma, nonostante la mania di Trump di esibire la sua, fatta a torri come quelle che ha costruito o possiede. Esistono solo le immagini della stretta di mano fra lui e la sua ospite in terra peraltro scozzese.

         Di solito i numeri, in percentuale o assoluti, sono sinonimi di certezza. Ma, appunto, di solito. Non sempre. Questi della partita dei dazi americani sui prodotti europei esportati negli Stati Uniti costituiscono una delle eccezioni. Ma ormai entrambe le parti ne sono in qualche modo prigionieri perché l’alternativa sarebbe forse peggiore della pur scomoda realtà: una confusione ancora più grave di una guerra commerciale per chi produce non parole ma beni da esportare, su cui preferibilmente guadagnare e procurare lavoro.

         Nella pratica dell’ottimismo della volontà preferibile al pessimismo della ragione, contrapposti dalla buonanima di Antonio Gramsci, mi attacco oggi alla lettura della partita dei dazi fatta da parte del direttore Claudio Cerasa sul Foglio. Ben diversa da quella di ieri di Maurizio Belpietro sfociata sulla sua Verità nella rappresentazione dell’Europa come una “ciofeca”.

         Pur con un “forse” forte come una frenata, Cerasa si e data una risposta positiva alla domanda se “le bastonate di Trump all’Ue possono produrre effetti positivi in Europa”, una volta depositate le polveri delle polemiche. Il bicchiere mezzo pieno è sempre migliore di quello tutto vuoto, ma anche mezzo vuoto. In fondo, si è consolato a torto o a ragione Cerasa, in 7 mesi l’euro ha guadagnato l’8 per cento sul dollaro. Non ditelo, per favore, a Trump.

Piace ad Antonio Ingroia il sorteggio anticorrentizio per le toghe al Csm

“La selezione, tramite sorteggio, dei componenti del Consiglio Superiore della Magistratura mi sembra una cosa buona o, meglio, l’unica strada possibile, seppur drastica, per risolvere il problema delle correnti. Così si ferma la loro eccessiva influenza. Non c’è altro sistema”. Parole al Tempo del ministro della Giustizia Carlo Nordio? No. Del suo vice Paolo Francesco Sisto, di Forza Italia? No. Parole di Antonio Ingroia, che quando era magistrato dell’accusa, a Palermo, aveva messo a dura prova anche il sistema nervoso dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Insorto con un ricorso alla Corte Costituzionale, accettato, contro l’uso che nel processo della famosa, controversa, fantomatica trattativa fra lo Stato e la mafia della stagione stragista si voleva fare di alcune sue conversazioni telefoniche intercettate con uno degli imputati. Che era l’ex presidente del Senato ed ex vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Nicola Mancino, poi assolto.

         Successivamente anche Ingroia, come il suo collega di toga Antonio Di Pietro a Milano dopo le gesta di Mani pulite, si affacciò alla politica candidandosi addirittura a Palazzo Chigi. Dove di Pietro non pensò neppure di arrivare come sottosegretario candidandosi soltanto a senatore in un collegio rosso blindato, al Mugello, e riuscendo eletto.

         A proposito di Di Pietro, anche lui è intervenuto in questi giorni, ormai anche da ex politico, nelle polemiche sulla riforma della Giustizia targata Nordio spiazzando amici e colleghi di un tempo. Cioè condividendo non solo il sorteggio apprezzato da Ingroia per sottrarre la Giustizia, sempre quella con la maiuscola, al gioco delle correnti di quel partito dei magistrati che è la loro associazione di apparenza sindacale, ma anche la divisione del Consiglio Superiore in due: uno per i giudici e l’altro per gli inquirenti. Divisione invece non condivisa da Ingroia, che l’ha definita “ipotesi assurda”.

         La condivisione tuttavia del sorteggio per sottrarre la composizione stessa del Consiglio Superiore della Magistratura al gioco -o ai giochi, al plurale- delle correnti togate basta e avanza per vedere nella posizione di Ingroia una sorpresa, a dir poco. Personalmente anche piacevole.

         Da ex, evidentemente, e ora solo avvocati, come sono sia Ingroia sia Di Pietro, le problematiche -chiamiamole così- della magistratura si vedono diversamente. Meglio, a mio avviso. E questo può aiutare anche il pubblico a capire di pù, visto che partiti politici e correnti della magistratura se ne contendono già il consenso nella battaglia referendaria che si sono proposti contro la riforma Nordio, una volta approvata con a doppia lettura dal Parlamento. Una battaglia referendaria della quale è cominciata con largo anticipo la campagna. Come in qualche modo accadde per la legge sul divorzio fra il 1972 e il 1974, con interposto rinvio di una votazione dalla quale comunque la legge uscì confermata. Come, sempre personalmente, penso che accadrà con la riforma Nordio.

Pubblicato sul Dubbio

Gramellini rovescia il suo caffè addosso a Ursula Von der Leyen…..

         Nella furia di unirsi alle critiche e proteste politiche contro l’accordo con Trump sui dazi al 15 per cento Massimo Gramellini dalla postazione abituale sulla prima pagina del Corriere della Sera ha rovesciato la sua tazzina quotidiana del caffè addosso alla presidente della Commissione dell’Unione europea Ursula von der Leyen. Degradandola a “Ursula Vien dal Mare”, tipico esempio -ha spiegato ai lettori più sprovveduti o meno spiritosi- di “personalità inadeguata al ruolo”. Piegatasi anche al rito scozzese, diciamo così, della genuflessione al presidente americano Trump nella sua tenuta oltre oceano, in terra neppure europea dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, come sottolineato -sempre sul Corriere– dall’ex direttore Ferruccio de Bortoli.

         “Con tutti questi bulli in circolazione -ha concluso Gramellini- urge trovare a qualsiasi costo qualcuno che tuteli gli interessi del Vecchio (ma non defunto) Continente meglio della Serbelloni tedesca”, letterariamente Vien dal Mare, e del Fracchia olandese”. Che sarebbe il segretario generale della Nato Mark Rutte, recentemente supino a Trump davanti a telecamere e fotografi più ancora della presidente europea in terra scozzese.

         Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano non poteva certamente lasciarsi scappare l’occasione. Per cui ha concluso una ricostruzione oraria della prestazione di Ursula von der Leyen così: “Ore 12,06- Dopo ben 6 minuti di corpo a corpo VdL accenna a una riverenza da sdraiata. Trump le passa sopra: “Ops, scusa, credevo fosse il tappeto”. “Ma sono qui apposta!”. Se non l’avesse fatto Lei, glielo avrei chiesto io, Santità”.

         Di fronte a tanto spirito mediatico aggiuntosi -ripeto- alle dure reazioni politiche di parti che pure avevano concorso alla conferma di Ursula Von der Leyen alla presidenza della Commissione, concludo questa mezza rassegna stampa condividendo il sarcasmo del vistoso titolo di Maurizio Belpietro sulla sua Verità: “Gli eurofanatici scoprono che l’Unione è una ciofeca”.

E’ stato in effetti regalato a Trump un successo politico maggiore di quello economico che gli europei stessi gli hanno concesso con una visione catastrofista dei dazi al 15 per cento, e dei “dettagli” ancora da definire o scoprire.

La maturità rivendicata da Nordio nel diritto di cambiare idea….

Pur pleonastica in un giornale come Il Dubbio, che è premessa culturale e storica di ogni ripensamento, credo che meriti un approfondimento la difesa del diritto rivendicato dal guardasigilli Carlo Nordio di sostenere la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri da lui contesta invece con altri colleghi di toga nel 1994. Una separazione ora troneggiante nella riforma della giustizia all’esame delle Camere con la doppia procedura delle modifiche alla Costituzione. Una riforma contro la quale è paradossalmente cominciata sul piano mediatico una campagna referendaria prima ancora che la legge abbia finito il suo percorso parlamentare.

         Prima Nordio ha cercato di contestare sul piano personale la contestazione, a sua volta, dell’associazione nazionale dei magistrati, che aveva ritenuto di coglierlo in fallo ripescando anche fotograficamente quella sua firma galeotta, diciamo così. Ha motivato, in particolare, il ripensamento col suicidio di un suo sfortunato imputato, che però sembra arrivato -secondo l’archivio solitamente aggiornato di Marco Travaglio- prima ancora di quella sua firma. Poi, penso con più efficacia e pertinenza, il ministro ha ritrovato fra le carte e fatto ripubblicare un suo articolo del 2017, di otto anni fa, ben precedente alla riforma proposta dal governo alle Camere sulla riforma della giustizia, in cui il ripensamento è proposto filosoficamente e storicamente come sintomo, prodotto e quant’altro di “maturità”. Che manca di certo ai paracarri, di solito resistenti agli urti.

         Così paradossalmente Nordio ha r concesso il diploma di maturità anche a quei tanti esponenti del Pd che in anni non lontani sottoscrissero congressualmente l’impegno per la separazione delle carriere dei giudici e degli inquirenti e ora invece la contrastano. Credo maliziosamente, o andreottianamente, più per (loro) convenienza politica, nel timore di non essere ricandidati al Parlamento da un partito che nel frattempo ha cambiato linea su questo punto, che per maturità. 

         Otto anni fa, in epoca -ripeto- non sospetta, quando forse neppure pensava di entrare in politica, Nordio indicò come esempi di ripensamento Einstein e  Oppenheimer, pentitisi della bomba atomica dopo averla, rispettivamente, impostata e realizzata. E tale, metaforicamente, si è rivelata nell’uso che se n’è fatta la carriera unica dei giudici e dei pubblici ministeri. Che una volta, in vista alla città giudiziaria di Roma, per il racconto fattone da Rosario Priore che l’accompagnava, un altissimo magistrato inglese si scandalizzò di  vedere nello stesso ascensore.

         In quell’articolo di otto anni fa, scritto con una preveggenza inconsapevole per natura, Nordio citò come esempi di apparente contraddizione anche la pena di morte fatta applicare a Mussolini da Sandro Pertini e quella reclamata come magistrato da Oscar Luigi Scalfaro contro un imputato capitatogli tra mani, piedi e coscienza in tempi ancora di guerra. Meditate gente, in toga e non. Meditate.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 2 agosto

Le riserve di Meloni e di Gentiloni sui “dettagli” dei dazi americani del 15 per cento sui prodotti europei

         E’ certamente significativa la riserva che la premier Giorgia Meloni si è presa prudentemente di esaminare “i dettagli” dell’accordo fra Trump e l’Unione Europea sui dazi americani al 15 per cento per valutarne appieno la portata e confermare la tendenza, diciamo così, mostrata per un giudizio positivo, essendo l’alternativa una più grave guerra commerciale fra le due sponde dell’Atlantico. E’ nei dettagli, del resto, che si nasconde proverbialmente il diavolo.

         In apparenza 15 è la metà di 30: quanto Trump aveva annunciato, ma non si sa, per esempio, se contiene o si aggiunge al circa 5 per cento di media che vigeva prima del negoziato, ha avvertito, per esempio, e giustamente, il vice direttore del Corriere della Sera Federico Fubini parlandone in onda a la 7.

         Ci sono “deroghe” genericamente annunciate su chip e prodotti agricoli, il capitolo rimasto aperto sugli acolici e altri dettagli, ripeto, che potrebbero cambiare, e di molto, le valutazioni dei danni alle industrie e all’economia dei paesi europei da compensare con misure di sostegno.

         La riserva, diciamo pure le riserve, al plurale, che sono state prese dalla Meloni sui dettagli non coincidono non si sovrappongono di certo, ma confinano quanto meno con quelle dell’ex commissario europeo ed ex presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, del Partito Democratico. Che ne ha scritto su Repubblica ricordando, fra l’altro, che di dettagli ancora da scoprire o valutare è pieno anche l’accordo raggiunto con Trump, prima dell’Unione Europea, dal Giappone. E avvertendo che comunque quella derivante dall’intesa fra Donald Trump e Ursula von der Leyen – con la solita stretta di mano e la promessa, quanto meno, del presidente statunitense di “più amicizia” verso gli europei “scrocconi” di altre recenti circostanze-  sarà, anzi è una “supertassa”. Costosa e sgradevole come tutte le supertasse.

         Anche se “c’è poco da festeggiare”, come ha scritto in apertura del suo commento, e se da parte europea, col concorso del governo italiano ci sarebbe stata poca forza, diciamo così, nella trattativa col presidente americano, peraltro conclusasi nell’abituale incertezza o imprevedibilità, essendo Trump mutevole di umori e persino interessi, Paolo Gentiloni ha voluto distinguersi dal tono e dal contenuto catastrofistico delle reazioni della segreteria del suo partito ed altri esponenti più o meno autorevoli del campo santo, piuttosto che largo, della futuribile alternativa al centrodestra.

Dario Franceschini si sente strattonato dal Corriere della Sera e lo smentisce

         Come era facile prevedere, e come lo stesso autore del quasi scoop aveva furbescamente messo nel conto considerandola una eventualità naturale, l’ex ministro del Pd Dario Franceschini ha smentito il “messaggio segreto” ai magistrati attribuitogli da Francesco Verderami, del Corriere della Sera, riferendo del discorso da lui pronunciato al Senato contro la riforma costituzionale della giustizia targata Nordio.

         Il messaggio sarebbe consistito in una proposta, offerta e quant’altro di scambio fra una magistratura più contenuta, quanto meno, nelle indagini che stanno investendo amministrazioni ed esponenti importanti del Pd, e più in generale della sinistra, e una mobilitazione estrema del Nazareno e dintorni nel referendum contro la riforma Nordio che ne seguirà l’approvazione. Una mobilitazione, secondo notizie e quant’altro adombrate sul Corriere della Sera, già avvertita nella sua pericolosità dalla premier Giorgia Melon: a tal punto da tentarla al rallentamento del percorso della riforma nota soprattutto per la separazione delle carriere fra giudici e inquirenti. Un rallentamento che farebbe slittare il referendum nominalmente “confermativo” a dopo le elezioni politiche del 2027.

         La smentita opposta alla “fantasia” del retroscenista del Corriere della Sera è arrivata da Franceschini anche a seguito di una sostanziale richiesta pubblica di chiarimento avanzatagli dal dichiaratamente amico ed estimatore ministro della Difesa Guido Crosetto. Che della riforma Nordio è tra i più convinti sostenitori. Ed è anche tra i fratelli d’Italia il più anziano emotivamente, con i suoi soli 61 anni, e vicino alla premier.

Ripreso da http://www.startmag.it il 28 luglio

Panico al Nazareno per la dipendenza del Pd da Giuseppe Conte

         Panico al Nazareno, neppure tanto nascosto, per l’ultimo sondaggio elettorale condotto dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli. Nel mese trascorso fra il 26 giugno e il 24 luglio, durante il quale si sono intrecciate più del solito le cronache politiche con quelle giudiziarie, da Cementopoli ad Affidopoli, come i giornali chiamano le indagini che imbarazzano, a dir poco, il Pd  da Milano alle Marche, la Schlein ha perduto un modesto 0,3 per cento -peraltro quasi quanto lo 0,2 perso da Giorgia Meloni sul fronte del centrodestra ,attestandosi sul 28 per cento delle intenzioni di voto- ma il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte nel campo più o meno largo della futuribile alternativa al centrodestra ha guadagnato, secco, l’1 per cento. Che ha portato l’ex presidente del Consiglio ad un 14,3 per cento che lo rende determinante da quelle parti, per quanti sforzi possano fare da soli o siano aiutati a fare dal volenteroso Goffredo Bettini per allargare la “tenda” dei moderati, rifornisti e quant’altri.

         Un 14 per cento, arrotondando in difetto, è pari a quanto prendeva il Psi del garofano di Bettino Craxi, al quale la Dc non dell’amico Arnaldo Forlani ma del “nemico” Ciriaco De Mita nel 1983 fu costretto a cedere Palazzo Chigi per quattro anni, sino al 1987, dopo averlo lasciato meno dolorosamente, ma sempre con fastidio, a Giovanni Spadolini per circa un anno e mezzo, fra giugno del 1981 e novembre 1982.

         Schlein finge di non accorgersi, come i suoi collaboratori più stretti e i critici, se non avversari interni, che la circondano, ma il Pd nato dalla fusione dei resti del Pci, della sinistra democristiana e cespugli vari, si trova sul terreno dei rapporti con Conte nella stessa situazione, o pressappoco, della Dc con Craxi. Con la differenza che la Dc era la Dc, il Pd è il Pd e Conte naturalmente non è Craxi. Anche se questo, magari, lo renderà orgoglioso e più spedito nel passo.

         Dopo avere infilato con tanta testardaggine “unitaria”, come lei stessa la definisce parlandone in pubblico e in privato, il Pd in un campo dove Conte ha la cosiddetta azione d’oro, per quanto sceso a meno della metà dei voti che prendeva a suo tempo Beppe Grillo, la Schlein ne è rimasta sostanzialmente prigioniera. Non riuscirà probabilmente a sfilarsene, e chissà in quanto tempo, da sola. Né è facile che trovi qualcuno che possa ma soprattutto voglia aiutarla, al punto in cui sono arrivati i rapporti al Nazareno.  E’ più probabile che possa o debba tentare un altro, prima o dopo, l’impresa dello sganciamento.

Ripreso da http://www.startmag.it

La campagna referendaria contro la riforma non ancora approvata della giustizia

“Mi pare che si stia mettendo in pratica un progetto che, visto nel suo complesso, scardina gli architravi sui quali è stata costruita la nostra democrazia costituzionale. Penso all’autonomia differenziata, alla riforma del premierato, alla riforma della giustizia, alla legge sicurezza. Cambia non solo l’equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, così sapientemente disegnato dai nostri costituenti nella preoccupazione di garantire che non si potesse giungere a una dittatura della maggioranza, ma anche il rapporto tra potere e cittadini”. Così, parlando del governo di Giorgia Meloni, ha detto verso la conclusione di una lunga intervista al direttore del Foglio Claudio Cerasa non la segretaria del Pd Elly Schlein, non il suo concorrente alla guida della futuribile alternativa al centrodestra, l’ex presidente pentastellato del Consiglio Giuseppe Conte, ma la giudice in carriera Silvia Albano, presidente della storica corrente di sinistra delle toghe chiamata Magistratura democratica.

         Sono parole, quelle della dottoressa Albano, non certo sorprendenti per la storia della sua corrente, ripeto, e per i suoi recenti interventi professionali, cioè giudiziari, che l’hanno persino orgogliosamente opposta al governo per l’applicazione che questo si aspettava delle norme disposte per contrastare l’immigrazione clandestina. Ma sorprendenti per chi. leggendo la prima parte dell’intervista, si era illuso che il buon Cerasa facesse il miracolo propostosi, sulla scia di quanto ottenuto di recente da Antonio Di Pietro, non dico di convertire, per carità, ma di spostare di qualche metro o centimetro la posizione della sua interlocutrice nota, a torto o a ragione, come la capa delle “toghe rosse”. E così rappresentata anche nel titolo, in rosso anch’esso, dedicatole in prima pagina dal Foglio.

         Con quella risposta alla domanda sul governo Meloni, preceduta del resto dalla natura “resistenziale” rivendicata dalla giudice per il referendum cui l’associazione dei magistrati intende partecipare attivamente contro la riforma della giustizia all’esame del Parlamento, la giudice Albano ha buttato, volente o nolente, un barattolo di vernice, non dico di quale colore, sulla tela che il povero Cerasa voleva completare di una magistrata polemica sì, anche di punta, ma non del tutto salita sulla montagna per “resistere”, come dicevo, al governo propostosi di instaurare “la dittatura della maggioranza”. Preferibile forse a quella della minoranza, ma pur sempre dittatura.

         Il buon Cerasa ha ugualmente esposto come bandierine o trofei, nei sommari apposti ai titoli sulla sua intervista alla dottoressa Albano, il riconoscimento strappatole di una certa ragionevolezza della “inappellabilità di primo grado” prospettata dal ministro della Giustizia, o l’ammissione che “ci siano state occasioni in cui la magistratura ha pestato il fianco a critiche”, o il riconoscimento degli “aggettivi di troppo” negli atti dei pubblici ministeri, e persino nelle sentenze. Ma il risultato o quadro complessivo della tentata conversione della “capa delle toghe rosse” è stato francamente negativo.

         Il guaio maggiore dell’associazione nazionale dei magistrati è tuttavia quello di essere rimasta a sinistra, diciamo così, pur sotto la presidenza del moderato Cesare Parodi, di Magistratura indipendente. Che ha come il fiato addosso quello del segretario Rocco Maruotti, di Area democratica, affine all’omonima Magistratura. Il referendum contro la separazione delle carriere e il resto le vedrà tutte appassionatamente insieme. Un referendum la cui campagna è paradossalmente cominciata, come solo tra i magistrati poteva accadere, prima ancora che sia stata approvata del tutto la riforma Nordio in Parlamento.

Pubblicato su Libero

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