Così, a caldo, mentre ancora arrivano dagli Stati Uniti i dati non definitivi della vittoria di Donald Trump su Kamala Harris nella corsa alla Casa Bianca lasciatemi dire che trovo esagerata quella bandiera americana in fiamme sventolata, non so se più per paura o per rabbia, sulla prima pagina di Domani. Che è il giornale orgogliosamente posseduto dal vedovo di Repubblica Carlo De Benedetti. Che già l’altra volta, alla prima elezione di Trump, appunto, alla presidenza degli Stati Uniti volle farsi sorprendere imprudentemente dalla vittoria pronosticando nel salotto televisivo di Lilli Gruber, otto anni fa, la bocciatura del tycoon, da lui considerato anche troppo pieno di debiti per poter essere davvero eletto. Come in cuor suo nel 1994 aveva considerato Silvio Berlusconi prima che il Cavaliere vincesse in Italia le prime elezioni politiche della seconda Repubblica andando direttamente a Palazzo Chigi.
Quella bandiera in fiamme durante la notte sullo sfondo di una carta geografica degli Stati Uniti, e forse anche di qualcosa di più, è semplicemente una follia, superiore a tutte le altre che possa avere detto e minacciato, o promesso, Trump nella sua scomposta campagna elettorale.
La prima cosa che non si deve perdere davanti ad una notizia o a uno scenario sgradito è la testa.
Diavolo di un guastafeste, ma anche guastaguai, Papa Francesco con la sua visita a casa di Emma Bonino, convalescente da una crisi respiratoria che l’aveva costretta ad un ricovero, ha conteso e persino sorpassato su alcune delle prime pagine i concorrenti alla Casa Bianca. Che si stavano ancora contendendo ieri all’ultimo voto la successione al presidente americano Joe Biden.
Il Papa a Campo dei Fiori
Con i loro 163 anni e rotti complessivi sulle spallei due antagonisti in tante battaglie, l’antiabortista e antidivorzista Bergoglio e l’abortista e divorzista Bonino, hanno offerto un’immagine che da sola riabilita tutte le battaglie che possono svolgersi sul piano della politica e delle idee, senza compromettere persino i rapporti personali. Non siamo mica ai tempi di Giordano Bruno arso vivo nel 1600, la cui statua domina Campo dei Fiori, a pochi passi dalla casa della Bonino dove il Papa ha voluto andare a trovare la leader del mondo radicale che fu di Marco Pannella: altra persona che riusciva ad avere coi Papi di turno un rapporto di amicizia e persino simpatia, oltre che di rispetto.
La statua di Giordano Bruno
Le immagini del Papa dalla e con la Bonino, divisasi per 48 dei suoi 76 anni fra Parlamento e governo, di livello nazionale ed europeo, non contrastano felicemente solo con quelle d’oltre Oceano di una lotta all’ultimo voto e all’ultimo insulto, almeno da parte dell’ex presidente americano deciso a rifarsi della sconfitta mai riconosciuta di quattro anni fa. E paradossalmente aiutato anche da un attentatore che a luglio scorso lo insanguinò di quel che bastava per fare gridare a Trump di essere protetto da Dio. E per farlo avvolgere dai tifosi nella bandiera dell’eroismo e del martirio, pur mancato.
Giorgia Meloni, Sergio Mattarella e Fabio Pinelli
Le immagini provenienti da Campo dei Fiori contrastano, più modestamente ma non meno significativamente, anche con quelle di una lotta politica italiana tanto esasperata, fra maggioranza e opposizioni, e all’interno dell’una e delle altre, che ci si scontra in queste ore anche su un incontro svoltosi a Palazzo Chigi, addirittura con lo “stupore”, a dir poco, non smentito del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, fra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Fabio Pinelli. Che pure è stato motivato a Palazzo Chigi, con la condivisione dell’ospite, richiamandosi al senso doveroso della cooperazione fra le istituzioni richiamato più volte, anche di recente, dal Capo dello Stato. E ciò quando già era scoppiato il caso della opposta lettura delle norme in vigore contro l’immigrazione clandestina da parte del governo e di alcuni giudici che reclamano il diritto di disattenderle.
Di questo “sorprendente” incontro, anche nella percezione -ripeto- attribuita senza smentite al Quirinale, ora Meloni è stata chiamata dalle opposizioni a riferire, cioè a rispondere, al Parlamento. E Pinelli, da parte dei suoi critici, al Consiglio Superiore della Magistratura. Una sorpresa tira l’altra.
A leggere e sentire cronache e analisi dagli e sugli Stati Uniti alle urne, nonostante le immagini da festa nei raduni sia di Donald Trump sia della sua antagonista Kamala Harris nella corsa alla Casa Bianca, si potrebbe pensare che gli americani finiscano oggi di andare alle urne col naso turato. Come la buonanima di Indro Montanelli spinse una cinquantina d’anni fa gli italiani al voto soccorrendo la Dc -lui, laico incallito- nel rischio di sorpasso da parte del Pci.
La Dc in questo caso d’oltre Oceano dovrebbe avere il volto dell’Harris, vice presidente uscente, e il Pci il volto di Trump, anche se l’ex presidente statunitense di rosso ha solo le cravatte che predilige e la faccia quando grida e insulta avversari veri o solo immaginari, sembrando per il resto abbastanza nero, inteso naturalmente come uomo di destra, non di colore. Addirittura ammiratore di Hitler e dei suoi generali, come ha raccontato un ex collaboratore o amico.
Dal manifesto
Ma davvero l’America è allo stadio emotivo e politico di chi la racconta sui giornali sbandierando titoli da cardiopalma? Dall’”ultimo voto” al “fiato sospeso”, dal “giorno del giudizio” al “Thriller”, dagli “spaccati” agli spacciati sia se Trump dovesse vincere sia se dovesse perdere, visto che non sopporta le sconfitte e si è già mostrato capace di tutto per contestarle.
Dalla Ragione
Mah. Come tutti i budini anche quelli di Trump e della sua antagonista vanno mangiati per provarli davvero e giudicarli. E ci sarà tempo per farlo, peraltro in un Paese che per le sue dimensioni, i suoi fusi orari, le sue abitudini ha tempi più lunghi di quelli ai quali siano abituati in Italia, e in Europa.
Dal Messaggero
Anche le notti elettorali negli Stati Uniti sono più lunghe delle nostre. Il mondo sopravviverà anche alle invettive di Trump e alle risate della Harris che l’hanno tanto esposta al sarcasmo di analisti e imitatori.
E’ doppia la partita che la segretaria del Pd Elly Schlein ha deciso di giocare contro un terzo mandato di Vincenzo De Luca al vertice della regione Campania, ribadendo la sua contrarietà nel nuovo salotto televisivo di Fabio Fazio sotto le vecchie insegne della meteorologia politica.
Una partita è interna allo stesso Pd, dopo che De Luca è riuscito a spaccarne il gruppo nel Consiglio regionale. Dove la Schlein ha finito per trovarsi in forte minoranza nel contrastare da Roma una legge regionale che sta per fissare sì a livello regionale il limite dei due mandati, ma facendolo scattare da adesso, per cui il governatore uscente potrebbe riproporsi di nuovo.
La Schlein ha detto no a questa furbizia e reclamato la rinuncia del “ribelle”, concedendogli solo il diritto di contribuire alla scelta del candidato alla sua successione. Ma De Luca ha già respinto questa ipotesi nei mesi scorsi dicendo che si ricandiderà in ogni caso, anche contro il Pd: non so francamente se più sicuro di vincere lo stesso, creando attorno a sè una specie di terzo polo, o più contento di procurare al Nazareno una sconfitta, potendo a quel punto vincere invece il centrodestra.
L’altra partita è giocata dalla Schlein all’esterno del Pd, ma all’interno dello schieramento alternativo al centrodestra che ancora lei persegue contando sul MoVimento 5 Stelle. Dove la disponibilità a livello regionale a questo punto non è condizionata solo dall’esclusione del partito di Matteo Renzi, com’è appena accaduto in Liguria anche a costo di perdere le elezioni, e portare il movimento sotto il 5 per cento dei voti, a livello cioè di un cespuglio rispetto al Pd salito al 28 per cento. In Campania la disponibilità di Conte, sostanzialmente anticipata qualche giorno fa da Marco Travaglio in un editoriale sul Fatto Quotidiano, dipende dal coraggio che la Schlein avrà sino in fondo di rompere col “cacicco” De Luca. Così come Conte ha voluto o saputo rompere nel suo movimento col fondatore e tuttora garante Beppe Grillo. Che così è stato degradato anche lui a “cacicco” sotto le sue 5 Stelle, o come diavolo potranno o dovranno chiamarsi dopo l’assemblea costituente dell’ultima settimana di questo mese.
Elly Schlein nel salotto televisivo di Fabio Fazio
Questo paradossale parallelismo fra Beppe Grillo e Vincenzo De Luca, così diversi sotto tanti aspetti ma uguali nella pratica del “vaffanculismo”, chiamiamola così con tutte le scuse dovute ai lettori, è una dannata complicazione per la Schlein al Nazareno. Dove anche critici e avversari di De Luca potrebbero non gradire l’idea che per liberarsene come governatore regionale il Pd debba andare a rimorchio di Conte, pure ora che l’ex premier si è ridotto elettoralmente al lumicino. Ed è anche su questo che forse De Luca conta per resistere alla Schlein del salotto di Fazio, sapendo peraltro che ha più tempo lui a disposizione che la segretaria del suo partito.
Le elezioni regionali in Campania sono programmate in un 2025 tanto avanzato, essendosi le precedenti svoltesi nel mese di settembre del 2020, da potere addirittura slittare ai primi mesi del 2026. E chissà nel frattempo che cosa sarà potuto accadere nel Pd e dintorni, a livello campano e persino nazionale.
Siamo tutti naturalmente in attesa di sapere, capire e quant’altro già domani sera chi e come avrà vinto la corsa alla Casa Banca fra la vice presidente uscente Kamala Harris e l’ex presidente Donald Trump. O si sarà più avvicinata ad una vittoria che sarà sicuramente controversa se non risulterà quella di Trump: si vedrà se controversa solo a parole o anche con i fatti, come quando il tycoon la mancò quattro anni fa e incitò i suoi all’assalto al Congresso.
In pochi hanno resistito anche in Italia alla tentazione di schierarsi, vedendo tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra. Ne sono risultati divisi al loro interno i due schieramenti opposti del governo e delle opposizioni.
Giorgia Meloni
Nel centrodestra il tifoso più visibile, e persino orgoglioso di Trump è il vice presidente del Consiglio e leader leghista Matteo Salvini. Il tifoso più visibile della Harris è l’altro vice presidente del Consiglio e leader forzista, nonché ministro degli Esteri Antonio Tajani. Che, se avesse avuto ancora qualche dubbio, ha dovuto farselo passare qualche giorno fa di fronte alla preferenza espressa per l’antagonista di Trump da Marina Berlusconi. Della quale il segretario di Forza Italia ha già raccolto le indicazioni sul terreno dei cosiddetti diritti civili in Italia. Giorgia Meloni si è semplicemente messa alla finestra, o alle finestre di Palazzo Chigi, non dico indifferente ma quasi all’esito della partita americana, sapendo di dovere e potere interloquire con chiunque dovesse arrivare o tornare alla Casa Bianca da presidente dopo i quattro anni di Joe Biden.
Il centrodestra italiano, per quanto diviso, è insomma impermeabile al voto d’oltre Oceano. Le opposizioni no, non lo sono perché una parte di esse, costituita da Giuseppe Conte e dalla sinistra radicale, intende sfruttare una vittoria di Trump per tradurla nel perseguimento ulteriore di un indebolimento della tradizionale politica atlantica dell’Italia e in un allontanamento dell’Europa dagli Stati Uniti. Il tutto traducibile nell’immediato, salvo clamorose sorprese di Trump, in una chiusura della partita ucraina a favore della Russia di Putin, dopo due anni e mezzo di una guerra congegnata al Cremlino come un’operazione speciale di polizia da concludere in una quindicina di giorni.
Conte con Trump
Per Conte poi, scaricato ormai anche da Beppe Grillo e dai due terzi del suo elettorato, una vittoria di Trump si tradurrebbe in un tonico. Sono sin troppo note le ambizioni o illusioni personali dell’ex premier, che si consola e al tempo stesso si carica sfogliando l’album fotografico degli incontri con il già allora presidente americano quando lui era a Palazzo Chigi, passando disinvoltamente da una maggioranza all’atro, plurale come il nome Giuseppi storpiatogli dal capo della Casa Bianca. “Tu chiamale, se vuoi, emozioni”, cantava Lucio Battisti.
Pur con l’aria di volerlo difendere dalla “lotta furibonda di troppi opinionisti” secondo lui “liberali e democratici” solo tra virgolette, cioè né liberali né democratici, ma forse “miserabbili” con la doppia b del compianto Ugo La Malfa quando parlava di quanti incorrevano nelle sue sfuriate, Goffredo Bettini si è deciso a fare scendere Giuseppe Conte dalla sommità dove lo aveva piazzato nella sua seconda esperienza di presidente del Consiglio, a maggioranza giallorossa e non più gialloverde. In particolare, dal “punto di riferimento più alto dei progressisti” in Italia, come lo definì Bettini nel 2020, purtroppo “indebolito” dai summenzionati opinionisti, Conte è diventato “uno dei rami fondamentali dell’albero progressista” in una intervista appena concessa dallo stesso Bettini alla Stampa.
Goffredo Bettini alla Stampa
Esperto più di cinema che altro, o filosofo autodidatta com’è scambiato da molti che ne hanno letto e persino scritto come di un maestro d’idee della sinistra, nelle sue varie edizioni di partito o di coalizione, Bettini ha un po’ esagerato come agronomo parlando di alberi. Un ramo è un ramo. Fondamentale è solo un ossimoro. Esso può seccare senza compromettere il tronco, quale il Pci prima e poi le altre edizioni seguite al crollo del comunismo si sono considerati rispetto alla sinistra.
Giuseppe Conte
E’ un tronco, quello del Pd, che Elly Schlein pensa forse di avere rafforzato con quel 28 per cento dei voti preso in Liguria, pur perdendo le elezioni regionali per colpa di Conte ma riducendo quest’ultimo, sotto il 5 per cento, alle dimensioni di un cespuglio. Ma se lo pensa davvero, la segretaria del Pd sbaglia secondo l’impietoso Bettini. Che le ha ricordato l’esperienza di Walter Veltroni al Nazareno, dove lo stesso Bettini peraltro lo aiutò come coordinatore, cioè come principale collaboratore.
Goffredo Bettini alla Stampa
“Veltroni- ha ammonito il suo ex braccio destro parlandone sempre alla Stampa- conquistò il 34% nel 2008 e qualche mese dopo si dovette dimettere, perché non gli diedero il tempo di allargare e rendere vincente la sua proposta politica”. Non gli diedero il tempo o se l’era negato lo stesso Veltroni nelle elezioni di quel 2008, con l’aiuto, i consigli e quant’altro -ripeto- di Bettini, rifiutando l’apparentamento con i radicali di Marco Pannella e concedendolo invece all’Italia dei valori di Antonio Di Pietro? Che ricambiò rifiutando nelle nuove Camere i gruppi unici col Pd concordati prima del voto, mettendosi o tornando quindi in proprio sulle allora solite posizioni giustizialiste destinate, esse sì, a mettere in difficoltà Veltroni. Che aveva condotto la campagna elettorale cercando di ridurre al minimo la conflittualità col centrodestra, sino a parlare di Silvio Berlusconi senza mai nominarlo, dovendo bastare e avanzare definirlo “il principale esponente del campo avverso”. Col quale egli sperava di avviare persino una fase costituente, di riforma costituzionale. Chissà se Bettini se lo ricorda. O se lo ricorda almeno Gianfranco Fini, che nel centrodestra si mise di traverso rivendicando e ottenendo dal Cavaliere la presidenza della Camera, di solito destinata in una fase costituente all’opposizione. Occasioni mancate, che in politica difficilmente si ripresentano, come nella vita più in generale.
Alessandro Onorato
Fra le occasioni mancate c’è ora non solo o non tanto il “campo largo” prospettato per primo da Bettini, prima che glielo riducesse Conte con veti e simili, quanto “il tavolo a tre gambe” che lo stesso Bettini ha rivendicato o proposto nell’intervista alla Stampa indicandole nel Pd, nelle 5 Stelle e in un centro tutto da costruire, sulla falsariga della scomparsa Margherita di Francesco Rutelli. Ma la gamba di Conte è stata fratturata, a dir poco, da Grillo. E quella di centro neppure Bettini sa dove applicarla come una protesi: se a Rutelli che non ne vuole sapere, al sindaco di Milano Beppe Sala, che si è offerto, o all’ultima scoperta dello stesso Bettini. Che sembra essere il giovane assessore capitolino Alessandro Onorato, “capo della lista civica- ha detto Bettini come per vantarne il curriculum politico- che ha contribuito alla vittoria di Gualtieri” nelle ultime elezioni comunali a Roma. Con tutto ciò che ne è seguito nella Capitale, forse all’insaputa di Bettini. Che domani, 5 novembre, festeggerà comunque i suoi 72 anni compiuti. Auguri, naturalmente.
Dalla Liguria, dove si è votato a fine ottobre, alla Campania, dove si voterà l’anno prossimo, non passando ma saltando le elezioni fra quindici giorni in Emilia-Romagna e in Umbria. Ciò che resta del MoVimento 5 Stelle, meno del 5 per cento in Liguria, riconducibile per intero all’ex presidente del Consiglio, “l’uomo politico -lo ha consolato Marco Travaglio di recente- più sottovalutato nel mondo”, dove la gente perde ancora il suo tempo evidentemente occupandosi o preoccupandosi, secondo i casi, dei concorrenti alla Casa Bianca; ciò che resta, dicevo, del MoVimento 5 Stelle rosica per il Pd di Elly Schlein. Che in Liguria, pur mancando la presidenza della regione, lo ha distanziato di ben 23 punti mostrando impietosamente il carattere velleitario dell’ambizione di Conte a restare sul piedistallo, alzatogli da Goffredo Bettini, del “punto più alto dei progressisti”.
Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano
“Certo, al momento -ha scritto Travaglio nel suo editoriale, o mattinale, di giornata sul Fatto Quotidiano- la partita dei consensi la stravince il Pd. Ma Grillo non sposta più un voto, mentre in Campania De Luca è il Pd. Se si candida contro il Pd forse non vince ma sicuro lo fa perdere. Che farà Elly?”.
Domanda per domanda, che c’entra la Liguria con la Campania e con il duello fra la Schlein e il presidente della regione Vincenzo De Luca, rappresentati sul Fatto in un fotomontaggio di copertina con due pistoloni fra le mani, pronti a muoversi per spararsi addosso? C’entrano per la possibilità avvertita, auspicata e quant’altro dall’estimatore di Conte di vedere in Campania la segretaria del Pd umiliata da De Luca più di quanto Grillo in Liguria non abbia fatto con lo stesso Conte. E così finisce nella immaginazione di Travaglio l’incubo di una Schlein leader lei sì della sinistra alternativa al centrodestra.
Dal Fatto Quotidiano
La Schlein, arrivata al Nazareno promettendo di fare fuori uno alla volta i “cacicchi”, che sinora hanno però tutti resistito a loro modo, ha appena confermato il suo no al terzo mandato di De Luca alla presidenza della Campania. Ma su questo no il Pd si è spaccato nel Consiglio regionale, dove il presidente uscente intende cambiare la legge locale in tempo per ricandidarsi.
Dal Fatto Quotidiano
A questo punto si ripropone la domanda di Travaglio su cosa farà la Schlein, o Elly, come la chiama con familiarità forse ironica. “Accompagnerà alla porta -ha chiesto l’amico dell’ex presidente del Consiglio- la sua mina vagante come sta facendo Conte con Grillo, o abbozzerà con l’ennesima supercazzola? E’ quando il gioco si fa duro che si distinguono i veri leader dai quaquaraquà”. Parole che dicono e provano impietosamente a che livello sia scesa la competizione all’interno delle opposizioni, a tutto vantaggio della premier Giorgia Meloni, per quanto costretta a difendere le prerogative del suo governo dalla solita magistratura abituata da una trentina d’anni a scambiare la propria autonomia per sovranità, cioè per prevalenza.
A tre giorni dalle elezioni americane, in cui probabilmente l’aiuto più consistente ricevuto da Kama Harris è stato l’invito dell’attrice Julia Roberts alle donne a tradire nelle urne i mariti tifosi di Donald Trump, nella Repubblica italiana di carta prevale l’incubo delle elezioni regionali del 17 novembre in Emilia-Romagna e in Umbria, dopo la sconfitta della sinistra in Liguria.
Massimo Giannini su Repubblica
Che “i patrioti al comando” del centrodestra “possano tenersi” anche l’Umbria “è possibile”, ha riconosciuto su Repubblica, appunto, Massimo Giannini, “ma se dovessero espugnare anche la roccaforte del socialismo municipale di Togliatti, sarebbe la fine della Storia”, con la maiuscola. Il rischio evidentemente c’è, nonostante l’ottimismo verbale del “campo largo” dell’alternativa risparmiato da Giuseppe Conte, che non vi ha espulso i renziani, come in Liguria affondando la candidatura di Andrea Orlando alla presidenza della regione sottratta dai magistrati a Giovanni Toti, tenendolo agli arresti, per quanto domiciliari, fino alle dimissioni propedeutiche alle elezioni anticipate.
Da Repubblica
In attesa, oltre che delle elezioni regionali del 17 novembre, anche del cambio meno imminente di editore a Repubblica, messa in vendita nel mercato editoriale e finanziario da John Elkann, non so se più stanco o infastidito dalla linea di irriducibile opposizione del giornale fondato da Eugenio Scalfari, un prudente Giannini si è proposto, o riproposto, come consigliere della segretaria del Pd Elly Schlein con un editoriale dal titolo: “Cosa manca alla sinistra per costruire l’alternativa”.
Già, cosa manca dopo che il Pd ha salvato la pelle, diciamo così, nelle elezioni liguri attestandosi al primo posto col 28,5 per cento dei voti, sia pure grazie ad un’affluenza alle urne scesa al 46 per cento? La diagnosi di Giannini è stata alquanto generica, come la terapia, pur dal sapore critico verso la segretaria del Pd trattata con molto riguardo, e persino simpatia, nelle feste annuali “delle idee” di Repubblica.
Massimo Giannini su Repubblica
“Di fronte all’entropia del fu Campo Largo -ha scritto Giannini- la strategia del “troncare, sopire” non basta più. Dalla politica delle alleanze non si scappa. E con gli alleati, nell’area sempre più scompaginata delle opposizioni, è ora di esercitare una leadership rispettosa ma molto più vigorosa”. Ma “più vigorosa” in che senso? In che direzione? A destra per evitare che il centro vi scivoli sempre di più, come sostengono i riformisti del Pd battuti al congresso dalla Schlein nelle primarie aperte ai non iscritti, rovesciando le preferenze di questi ultimi per Stefano Bonaccini? O a sinistra, inseguendo Conte e il segretario generale della Cgil Maurizio Landini? Belle domande. Le risposte Giannini se l’è tenute tutte per sè, nascoste in qualche cartella del suo computer.
La crisi dei partiti in Italia -un po’ di tutti, a dire la verità- deriva anche da quella dei loro consiglieri.
In ritardo insolito, ma lieve, rispetto all’abituale immediatezza dello sdegno per notizie vissute quanto meno come scomode, se non tragiche, Marco Travaglio ha reagito a suo modo sul Fatto Quotidiano di oggi all’assist ottenuto dalla premier Giorgia Meloni con la rivendicazione, da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dei miglioramenti della situazione economica. E con le pubbliche doglianze per le agenzie internazionali di rating pur autorevoli che ignorano, sottovalutano o persino negano la realtà italiana: doglianze precedute peraltro dalla pubblica protesta, sempre di Mattarella, contro la deriva razzista della polizia del nostro Paese denunciata da un organismo del Consiglio d’Europa. Che ormai vive solo della confusione che se ne fa con l’Unione Europea. “Il Colle si muove per alzare il rating”, ha titolato in rosso Il Foglio riferendo del “filo patriottico che lega Mattarella, Meloni e Panetta nel pressing sul giudizio di Moody’s”. E registrando “fra Mattarella e Meloni un rapporto assai più disteso di quello che non possa apparire”.
Dal Fatto Quotidiano
Marco Travaglioha cercato di fare pagare caro a Mattarella, che già di suo non gli è mai stato molto simpatico, l’assist all’odiato governo in carica. E gli ha riservato il solito, sarcastico trattamento sul versante delle onorificenze che passano per il Quirinale, contestandogli in particolare quella di Cavaliere del Lavoro appena consegnata di persona a Marina Berlusconi. Che nella storia vista e raccontata da Travaglio starebbe al padre Silvio come Edda a Mussolini. “Marina, in arte Edda”, si è autotilolato l’editoriale il direttore del giornale, credo, orgogliosamente più fazioso d’Italia, non volendolo con ciò offendere ma semplicemente rilevare la sua partigianeria.
Ecco l’incipit, dopo il titolo, dell’editoriale di Travaglio: “E’ con il cuore ricolmo di orgoglio patriottico che apprendiamo dai Cinegiornali Luce quanto segue: Sua Eccellenza Sergio Mattarella ha conferito il Cavalierato del Lavoro a Marina Berlusconi, figlia di cotanto pregiudicato, pluri-prescritto, frodatore fiscale, corruttore di giudici e finanziatore della mafia che uccise Piersanti Mattarella (fratello di Sua Eccellenza”.
Mattarella l’anno scorso ai funerali di Silvio Berlusconi
Caspita, questa di avere potuto commissionare, o quasi, magari inconsapevolmente, l’omicidio di Piersanti Mattarella nel 1980, prima ancora delle stragi mafiose del 1992 e 93 propedeutiche -secondo ex magistrati portati in Parlamento da Giuseppe Conte, “l’uomo politico più sottovalutato nel mondo”, ha scritto ieri lo stesso Travaglio occupandosi di altro- non l’avevo ancora sentita. E se l’era dimenticato il medesimo Travaglio nel racconto pur critico della partecipazione di “Sua Eccellenza” il Presidente della Repubblica in carica, l’anno scorso, ai funerali di Stato spettanti e assegnati all’ex presidente del Consiglio.
Neppure Publio Ovidio Nasone, il semplicemente e miticamente Ovidio, se potesse tornare fra noi dopo più di duemila anni dalla morte potrebbe forse comprendere e consolare Giuseppe Conte nei “tormenti” giustamente attribuitigli dal nostro Paolo Delgadoscrivendo sul Dubbio dei suoi rapporti tutti politici, per carità, con la segretaria del Pd Elly Schlein, prima ancora ma ancora di più dopo la debacle del MoVimento 5 Stelle nelle elezioni in Liguria. Che sono costate la sconfitta ad Andrea Orlando nella corsa alla presidenza della regione, pur col vento soffiatogli nelle vele dalla magistratura arrestando per corruzione l’ex governatore Giovanni Toti e liberandolo solo dopo le dimissioni e il conseguente voto anticipato, che ha invece confermato il centrodestra affidatosi nel frattempo alla guida del sindaco di Genova Marco Bucci. Ma ancor più della sconfitta di Orlando, in negativo per la sinistra e la sua ambizione all’alternativa al governo di Giorgia Meloni a livello nazionale, vale -ripeto- la debacle del movimento pentastellato. Che si è materializzato nella evaporazione, estinzione, compostazione annunciate dallo stesso fondatore e tuttora garante Beppe Grillo, per usare le sue stesse parole. Peraltro propedeutiche al suo rifiuto di andare alle urne, come già nelle elezioni europee di giugno.
Se tuttavia in teoria, nella logica delle speranze o degli auspici espressi anche dal nostro direttore Davide Varì, il Pd della Schlein può continuare ad ambire all’alternativa senza Conte, il partito di quest’ultimo, comunque si chiamerà dopo il processo rifondativo in corso fra gli anatemi di Grillo, non ha realistiche possibilità di sopravvivenza senza un collegamento col pur odiato Nazareno. “Ego nec sine te nec tecum vivere possum”, scriveva Ovidio.
Per un istante, al massimo per qualche ora persino chi pensa di conoscere meglio, come Marco Travaglio, il mondo politico riconducibile in Italia a Conte, ritenuto l’ex presidente del Consiglio migliore dopo Cavour, ha pensato alle 5 Stelle rigenerabili in tre anni, o quanti ne mancano alle prossime elezioni politiche, di costante, irriducibile, persino solitaria opposizione: in sciopero generale ben oltre quello annunciato dalla Cgil e dalla Uil per il 29 novembre.
Ma un editoriale in questo senso, o così avvertito da molti degli stessi lettori che debbono avergli scritto mostrando qualche dissenso o preoccupazione, come si è capito dall’incipit dell’editoriale successivo, è svanito in un solo giorno di edicola. Esso è stato corretto col riconoscimento che col Pd a Conte, “l’uomo politico – ha scritto il direttore del Fatto Quotidiano- più sottovalutato del secolo”, non convenga rompere del tutto. Siamo insomma al “nec sine te” di Ovidio. Il problema si ridurrebbe solo ad una più oculata scelta delle cose, ma soprattutto delle persone su cui accordarsi col partito della Schlein in sede locale, ogni volta che si va a votare per rinnovare qualche amministrazione, o in sede nazionale quando verrà il momento.
Andrea Orlando
In Liguria, secondo Travaglio, l’errore di Conte non è stato quello di reclamare e ottenere l’esclusione dell’odiato Matteo Renzi, e dei suoi uomini e donne, dal “campo” dell’alternativa al centrodestra, ma di avere accettato come candidato alla presidenza della regione un esponente troppo d’apparato del Pd come il più volte ex ministro Andrea Orlando: ex, peraltro, anche del primo e unico governo di Renzi, al vertice addirittura del dicastero della Giustizia.
La vignetta del Corriere della Sera di oggi
Alle condizioni poste, consigliate e quant’altro da Travaglio è difficile tuttavia, diciamo pure impossibile, pensare che il Pd possa reggere, neppure se dovesse assumerne la guida – per una rinuncia o un rovesciamento improvviso della Schlein- il comprensivo, pazientissimo, disponibilissimo Goffredo Bettini. Che a suo tempo non sottovalutò ma sopravvalutò Conte promuovendolo al “punto più alto di riferimento dei progressisti” in Italia, peraltro non necessariamente di sinistra all’anagrafe politica di Travaglio.
Aldo Moro ed Enrico Berlinguer
Nemmeno il Pci di Enrico Berlinguer, coi voti e col prestigio che aveva, riuscì negli anni della cosiddetta “solidarietà nazionale” a imporre alla Dc di Aldo Moro la selezione della classe dirigente scudocrociata, reclamando per esempio le teste dei ministri Antonio Bisaglia e di Carlo Donat-Cattin senza ottenerle.