Con quanta poca voglia alle urne in Emilia-Romagna e in Umbria

Dal Quotidiano Nazionale

Pur con le riserve imposte dalla seconda, mezza giornata di voto che non c’era stata nelle analoghe, precedenti elezioni, non sembra incoraggiante il calo d’affluenza alle urne registratosi al termine della prima giornata in Emilia-Romagna e in Umbria per l’elezione dei rispettivi presidenti e Consigli regionali. Persino più nella rossa e sicura Emilia-Romagna, fra le preoccupazioni confessate da Romano Prodi, che in Umbria, la più incerta nelle previsioni dei risultati per le distanze minime registrate nei sondaggi fra il cosiddetto centro sinistra a ranghi completi, comprensivo dei renziani, e il meno cosiddetto centrodestra sostanzialmente allargatosi all’”alternativa popolare” del sindaco di Terni Stefano Bandecchi.

Dal Corriere della Sera

         Non si è insomma avuta la sensazione di una corsa alle urne con entusiasmo un po’ per la tendenza in generale, ormai, alla diserzione e un po’ per l’eccesso forse di politicizzazione delle campagne elettorali, nelle quali si sono infilati temi ben poco locali come le tensioni nelle piazze d’Italia tipo anni Settanta o addirittura i contraccolpi nazionali ed europei delle elezioni americane appena vinte da Donald Trump supportato da Elon Musk. Come volete che abbiano potuto influire queste cose sugli umori, per esempio, degli elettori umbri ai quali sono state propinate in qualche comizio per demonizzare l’appartenenza della governatrice leghista  uscente Donatella Tesei alla destra?  

Credo che abbiano influito poco sugli umori dei votanti umbri anche la volontà perseguita, in particolare, dalla sinistra di strappare loro qualche contributo al desiderio di una rivincita completa, non limitata alla sola e scontata Emilia-Romagna, dopo la cocente sconfitta, sia pure di misura, o proprio perché di misura, subita il mese scorso nelle elezioni regionali in Liguria. Dove pure i sostenitori della candidatura dell’ex ministro Andrea Orlando avevano avuto inizialmente la spinta della magistratura con l’arresto del governatore uscente di centrodestra Giovanni Toti,  e poi anche  con la decisione a sorpresa dello stesso Toti di preferire un patteggiamento ad un processo per corruzione che lui si era dichiarato pronto ad affrontare, petto in fuori e braccia gonfie dei muscoli, con la sicurezza di uscirne assolto. Sia pure nei soliti, lunghissimi tempi dei tribunali italiani, compresi quelli genovesi.

Dal blog di Beppe Grillo

Fra tutti i partiti in lizza, comunque, quello messo peggio è il MoVimento 5 Stelle per la sua confusione interna, a dir poco, oltre che per le sue note difficoltà nei cosiddetti “territori”. Beppe Grillo ha persino scavalcato in un imbarazzante trumpismo Giuseppe Conte – Giuseppi, secondo il presidente di ritorno alla Casa Bianca- proponendosi sul proprio blog in connessione col trumpissimo Elon Musk.  Muskiano e  contrario ad un rapporto “organico” col Pd, l’ancora (per poco) garante a vita dei pentastellati.

Dal Tevere all’Atlantico, quando le rive si avvicinano o si allontanano

Da Libero

In una decina di giorni, fra la vittoria alla grande di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane, la sorpresa del suo amico, consigliere, finanziatore e quasi ministro Elon Musk per la partecipazione dei giudici in Italia alla gestione dell’immigrazione clandestina e la reazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la distanza fra le due coste dell’Atlantico sembra aumentata. Con tutto quello che emotivamente, ancor più che politicamente, è derivato nei partiti e sui giornali.

Il libro di Giovanni Spadolini del 1970

         Eppure Giovanni Spadolini da storico prestato allora solo al giornalismo, e non ancora alla politica, nel 1958 cominciò a prendere le misure del nostro, più modesto Tevere per sostenere che più ne aumentavano le acque nel tratto romano più ne guadagnavano i rapporti fra l’Italia e il Vaticano, lo Stato e la Chiesa.  “Il Tevere più largo- Da Porta Pia ad oggi” fu il titolo di un suo “tascabile”stampato nel 1970 da Longanesi & C. e venduto a 350 lire, neppure 20 centesimi del nostro euro.

         Quando divenne ministro della Difesa, nel 1983 col governo di Bettino Craxi, il primo guidato da un socialista nella storia d’Italia, Spadolini  invertendo i criteri della laicità si mise a lavorare col suo solito impegno per ridurre metaforicamente al minimo le distanze fra le coste americane ed europee dell’Atlantico E allorchè le vide o avvertì aumentate nella famosa notte di Sigonella del 1985, quando Craxi impedì ai marines americani nella base siciliana della Nato di catturare e portare negli Stati Uniti gli autori del dirottamento della nave italiana Achille Lauro nel Mediterraneo, giudicati e condannati poi in Italia, appunto, Spadolini si dimise per solidarietà col presidente Ronald Reagan. Al quale personalmente Craxi aveva comunicato il suo rifiuto di rinunciare alla sovranità italiana con parole che però vennero tradotte male da Michael Ledeen in veste di interprete. Per cui alla Casa Bianca rimasero di stucco nell’apprendere del fallimento dell’operazione dei marines. Peggio ancora di quanto non fosse rimasto Spadolini.

Bettino Craxi e Giovanni Spadolini

         Poi Craxi e Reagan, o viceversa, si chiarirono e ripresero ancora meglio di prima i loro rapporti scambiandosi lettere e incontrandosi alla Casa Bianca. Spadolini, dal canto suo, aveva già ritirato le dimissioni e soffocato nella culla, diciamo così, una crisi di governo sulla quale gli avversari di Craxi avevano brindato con troppa fretta. Le distanze fra le due coste dell’Atlantico tornarono a ridursi. E, grazie al riarmo missilistico della Nato completato in Italia con Craxi a Palazzo Chigi, Reagan e l’intero Occidente sfiancarono l’Unione Sovietica senza sparare un colpo, facendo abbattere il muro di Berlino dai dimostranti in festa il 9 novembre 1989.

         Ricordo tutto questo anche per motivare il mio scetticismo per le vesti che si stanno strappando addosso in tanti, anche in Italia, di fronte a quanto è accaduto dopo la vittoria elettorale di Trump e la sconfitta di Kamala Harris. Che ha fatto perdere rispetto a quattro anni prima ben dieci milioni di voti al suo partito, diventato come la sinistra in Italia il riferimento più delle elite che del popolo, più dei centri a traffico limitato che delle periferie.

         Ma, per quanto allargato, con un paradosso nel paradosso, l’Atlantico alla nostra sedicente sinistra sembra anche fare paura più di prima, facendole sentire minacciata la sovranità italiana. O ciò che rimane al governo, e allo stesso Quirinale in fin dei conti, dopo quella che si è presa la magistratura interpretando a suo modo norme costituzionali e ordinarie italiane e ora anche sentenze e direttive europee.

         Per fortuna in Italia vige ancora l’articolo 78 della Costituzione, che affida alle Camere la “deliberazione” dello stato di guerra e il “conferimento al governo dei poteri necessari”. Sennò lor signori progressisti ci avrebbero già portati alla guerra contro gli Stati Uniti, come Benito Mussolini -sì, proprio lui- il 13 dicembre 1941 accodandosi ad Hitler.

Stefania Craxi

         Forse sbaglio violando addirittura la segretezza della corrispondenza privata, ma voglio riferirvi un messaggino ricevuto dalla mia amica Stefania Craxi. Alla quale per errore, in coda ad uno scambio di saluti e valutazioni del suo bellissimo libro appena scritto sul padre a quasi 25 anni dalla morte, avevo mandato la proposta di questo articolo destinata al direttore di Libero Mario Sechi.  “Francamente -mi ha scritto la presidente della Commissione Esteri e Difesa del Senato riferendosi alla sortita di Musk- tali ingerenze non si possono sentire…Ma vedere le vedove di Kamala non ha prezzo….”. Grandissima Stefania, con tutto quello che i giudici in Italia riuscirono a fare contro il padre.

Pubblicato su Libero

Quell’Umbria verde e…infedele che angoscia la sinistra nelle urne

Dal manifesto

Delle due regioni alle urne oggi e domani in quest’ultimo appuntamento elettorale dell’anno, dopo la conferma a sorpresa del centrodestra in Liguria nonostante la decapitazione giudiziaria dell’ex governatore Giovanni Toti, l’Emilia-Romagna sembra destinata a rimanere saldamente nelle mani della sinistra in un campo che Giuseppe Conte ha consentito largo, esteso sino all’odiato Matteo Renzi. L’Umbria invece è in bilico, “corre sul filo”, secondo il titolo di oggi sul manifesto.  Ma un filo che tende più a destra, come cinque anni fa con la vittoria della leghista Donatella Tesei, che a sinistra, per quanto la sfidante sindaca di Assisi Stefania Proietti sia riuscita a fare breccia tra i frati francescani mettendo in imbarazzo le gerarchie religiose della regione.

Il sindaco di Terni Stefano Bandecchi

         Più dei frati “rossi”, come li chiamerebbe forse Matteo Salvini risparmiando loro le “zecche” di uguale colore lamentate nei centri sociali, giocheranno probabilmente, ma contro la Proietti, i voti che riuscirà a procurare alla governatrice uscente l’”irregolare”, diciamo così, sindaco di Terni Stefano Bandecchi.  Ed è proprio a Terni, guarda caso, che la sindaca del Pd Elly Schlein e il presidente di quel che rimane del MoVimento 5 Stelle, sceso già nelle precedenti elezioni regionali al 7,4 per cento dei voti, hanno voluto persino baciarsi due volte per strada, davanti all’ospedale, per dare l’impressione di una coalizione di sinistra compatta e fiduciosa. Ma sono stati due baci scambiati così in fretta che nessuno ha fatto in tempo a fotografarli. O ne ha risparmiato le immagini.

La foto di Terni

         E’ rimasta nei cosiddetti social solo la foto di gruppo della sindaca di Assisi con la Schlein, Conte, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli. Che rischia però di portare male alla candidata come cinque anni fa al candidato della sinistra la foto di Nicola Zingaretti, ancora segretario del Pd, con gli alleati, compreso un Conte incoronato anche da Goffredo Bettini re dei progressisti italiani. O, più precisamente e repubblicanamente, il loro “punto di riferimento più alto”.

Dal Fatto Quotidiano

         Resta naturalmente da vedere quanti davvero dei 701 mila e rotti elettori dell’Umbria andranno davvero a votare, resistendo alla tentazione di un’astensione di protesta quanto meno contro tutti i tentativi, compiuti da entrambi gli schieramenti, di centrodestra e di centrosinistra, per quanto siano ben nove formalmente i candidati alla presidenza della regione,  di scaricare nelle urne locali temi come la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, gli attacchi del suo amico, consigliere e finanziatore Elon Musk ai giudici italiani che partecipano alla gestione dell’immigrazione clandestina, la reazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarell, i diffusi disordini di piazza da anni Settanta ed altro ancora. Compreso “il voto di scambio” attribuito dal solito Fatto Quotidiano ai troppi ministri accorsi in Umbria a sostenere la governatrice uscente.

Dietro, sotto e sopra la confessione di Mattarella sulle leggi non condivise

Dal Messaggero

Come diceva e avrebbe probabilmente ripetuto oggi la buonanima di Giulio Andreotti, a inserire la legge di applicazione delle autonomie differenziate delle regioni fra quelle che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha raccontato di avere dovuto promulgare senza condividerle, si fa peccato ma si indovina.

Mattarella al convegno dei giovani editori

         La confessione del Capo dello Stato davanti agli studenti dell’”Osservatorio permanente giovani-editori” si presta al sospetto “peccato” perché arrivata all’indomani della decisione presa dalla Corte Costituzionale, dirimpettaia del Quirinale, di bocciare e quindi eliminare proprio dalla legge sulle autonomie regionali sette passaggi ritenuti incompatibili con la Costituzione, appunto.

Dalla Stampa

         La legge nel suo complesso è sopravvissuta all’esame dei giudici costituzionali, per cui il ministro competente, il leghista Roberto Calderoli, e il suo partito si sono dichiarati soddisfatti lo stesso. Anzi, hanno cantato vittoria quanto le opposizioni, in un gioco di specchi politici ed elettorali, visto che domani e dopodomani si voterà in Emilia-Romagna e in Umbria, che Mattia Feltri ha definito “volantinaggio” sulla Stampa. Ma essa è sopravvissuta, francamente, alquanto malmessa, inapplicabile in sette punti sin quando il Parlamento, esplicitamente invitato dalla Corte Costituzionale a intervenire, non provvederà a modificarli, riempiendo i vuoti creatisi con la bocciatura parziale dei giudici.

         Se e quando il Parlamento, sia pure con un solo passaggio fra Camera e Senato trattandosi di una legge ordinaria, interverrà è’ francamente difficile prevedere sia per gli impegni di bilancio e altro che già lo occupano sia per la calma con la quale d’abitudine il Parlamento stesso risponde agli inviti della Corte, o non risponde per niente. Come sta avvenendo in tema di fine vita.

Dal manifesto

         Di certo, nonostante la decisione con la quale il ministro Calderoli ha annunciato che il governo “andrà avanti” sulla sua strada nel trattare con le regioni passaggi di competenze, o “funzioni”, come preferisce chiamarle la Corte Costituzionale, la situazione che si è creata col pronunciamento dei giudici della Consulta è a dir poco problematica. E non aiuta di certo, nel dibattito e nell’immaginario politico, diciamo così, il sospetto di una opinione contraria anche del presidente della Repubblica sulla legge, anche nella parte sopravvissuta, ripeto, alle forbici dei supremi giudici di garanzia. Che, al limite, potrebbero essersi sentiti persino scavalcati e censurati, per il loro limitato intervento, da quella che alcuni giornali e costituzionalisti più o meno improvvisati hanno definito “la lezione” di Mattarella, promosso a “leone” nella foresta dal manifesto.

Ripreso da http://www.startmag.it 

A proposito dei centri sociali e delle loro “zecche rosse” lamentate da Salvini….

Dal Corriere della Sera di ieri

Ho qualcosa da raccontarvi anche di personale, ma non troppo, sul più famoso, credo, dei centri sociali italiani. Che è chiamato Leoncavallo dal nome della strada di Milano dove esso acquistò fama occupando abusivamente un’area privata. Un centro appena tornato sulle prime pagine dei giornali un po’ per Matteo Salvini, che lo frequentò o sostenne nella prima gioventù e adesso invece chiede che i centri sociali vengano chiusi perché hanno prodotto troppe “zecche rosse”. Come quelle che a Bologna e altrove hanno assaltato le forze dell’ordine. E un po’ per la condanna subita dal Ministero dell’Interno a risarcire di tre milioni e rotti di euro la proprietà dell’area occupata abusivamente da quel centro sociale a Milano negli ultimi dieci anni, e non sgomberata temendo disordini.

         Arrivato alla direzione del Giorno  nella primavera del 1989, quindi non dieci anni fa, scoprii l’esistenza del Centro sociale Leoncavallo leggendo le lettere di protesta che arrivavano quotidianamente da abitanti di quella strada perché disturbati  anche di notte dalla musica assordante  e da altre abitudini moleste degli occupanti abusivi di ciò che rimaneva di qualcosa di mezzo fra un capannone e un edificio.

         Ne parlai subito col capocronista, che mi consigliò di lasciar perdere per i rischi che avrei potuto correre. E che infatti, occupandomene in un po’ di articoli, provai poi con telefonate minatorie a casa. A seguito delle quali la magistratura negò le intercettazioni chieste dalla polizia, che nel frattempo mi aveva assegnato una scorta. “Il garofano verrà reciso”, annunciavano i malintenzionati a mia moglie disapprovando anche le mie simpatie personali e politiche per Bettino Craxi, che del garofano aveva fatto il simbolo del Psi.

Paolo Pillitteri con la moglie Rosilde Craxi nel 1989

         Oltre che di Craxi, ero amico del cognato e sindaco di Milano Paolo Pillitteri, al quale chiesi perché mai nella “Milano da bere” propiziata giustamente dai socialisti dopo gli spaventosi anni di piombo del terrorismo si permettesse un’isola per niente da bere in una strada pur intitolata al celebre compositore italiano -Ruggero Leoncavallo- dei “Pagliacci”, e non solo di Manon Lescaut, della Bohème, di Zazà e altro. Pillitteri dopo qualche mese tentò soprattutto con i vigili urbani -a Ferragosto, puntando sulla sorpresa- lo sgombero. Al quale gli occupanti opposero una resistenza durissima, che sorprese e impensierì non so se più il Questore o il Prefetto. I quali poi, ciascuno nelle proprie competenze, permisero che l’occupazione praticamente proseguisse. Anzi, si trasferisse da via Leoncavallo altrove, prima in via Salomone e poi in via Watteau, in una soluzione di continuità fra la prima e le successive Repubbliche.

         Almeno per gli ultimi dieci anni vedo che il Ministero dell’Interno, a causa delle complicate vicende giudiziarie che hanno contrassegnato questa storia, è stato condannato a risarcire i danni alla proprietà. Quelli alla collettività altrettanto incolpevole sono andati in cavalleria.

Ripreso da http://www.startmag.it il 17 novembre

I sette vizi capitali dell’autonomia differenziata soppressi dalla Corte Costituzionale

Dal Fatto Quotidiano

Una Corte Costituzionale in versione o edizione biblica ha dunque individuato ed eliminato dalla legge sulle autonomie differenziate delle regioni -previste dalla Costituzione con una modifica voluta dalla sinistra poi pentita- sette vizi o peccati capitali. Che non sono così semplici da spiegare come l’ira, l’avarizia, l’invidia, la superbia, la gola, l’accidia e la lussuria, ma sono pur sempre sette. E, messi a nudo dai giudici della Consulta nel loro travestimento da norme, hanno inferto alla legge che porta ormai il nome del ministro leghista del settore, Roberto Calderoli, un “colpo”, come ha titolato il Corriere della Sera. O l’hanno ridotta a uno “zombie”, come ha commentato sul Fatto Quotidiano il costituzionalista Michele Ainis convincendo i titolisti di quel giornale  a buttare “l’autonomia nell’indifferenziata”, cioè nella monnezza, come si dice a Roma.

Sempre dal Fatto Quotidiano

         Per quanto zombie, monnezza e simile, la legge Calderoli tuttavia  nel suo complesso è sopravvissuta alla ghigliottina dei giudici costituzionali. A completare l’opera di demolizione, e abrogazione totale negata dalla Corte dirimpettaia al Quirinale, potrebbero provvedere i cittadini col giocattolo del referendum predisposto dalle opposizioni  e per niente compromesso, secondo Ainis, dalle forbici della Consulta. Ma su questa storia del giocattolo referendario col quale umiliare, quanto meno, il governo Meloni al quale gli avversari non riescono ad allestire un’alternativa per vie politiche le opinioni divergono alquanto.

Dalla Gazzetta del Mezzogiorno e Domani

         “Referendum a rischio”, hanno titolato su suggerimento di qualche altro costituzionalista la pur periferica Gazzetta del Mezzogiorno e Domani. “Addio referendum”, ha gridato La Verità di Maurizio Belpietro consultando evidentemente qualche altro giurista o, comunque, esperto della materia. A decidere alla fine sarà proprio la Corte Costituzionale, che ha l’ultima parola sull’ammissibilità di quello che ho chiamato “il giocattolo” allestito dalle opposizioni in un campo, una volta tanto, largo davvero, esteso da Giuseppe Conte a Matteo Renzi e comprensivo naturalmente del Pd di Elly Schlein, senza che nessuno cerchi di sgambettare o estromettere un altro. A meno che la Corte non trovi il modo, la fantasia e quant’altro, non mamcatale in altre occasioni, di lasciare le cose in sospeso, aspettando che il Parlamento, cui ha girato la palla, provveda a riempire i vuoti della legge uscita dall’esame della stessa Corte. E la renda commestibile o per uno o più referendum. E’ il solito cane -senza volere offendere istituzioni e persone che le incarnano- che si mangia la coda. Diciamocelo almeno da soli, come ha in qualche modo garantito il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ad Elon Musk se dagli Stati Uniti l’amico, consigliere e quasi ministro di Trump dovesse allungare la vista, liberandola del suo cappellino, anche su quest’altra vicenda italiana. E creare un nuovo putiferio includendo pure la Corte nell’”autarchia” dei giudici non eletti dal popolo.

Ripreso da http://www.startmag.it 

Il cappellino di Musk sui rapporti fra gli Usa di Trump e l’Italia

Dal Dubbio

Dubito -e come non potrei in un giornale che si chiama Il Dubbio?- che il richiamo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la successiva telefonata della premier Giorgia Meloni al tycoon amico abbiano davvero chiuso il caso aperto da Elon Musk negli Stati Uniti criticando l’”autarchia” dei giudici italiani. Che con le loro decisioni proteggono i migranti clandestini a rischio di rimpatrio in paesi dalla controversa sicurezza, diciamo così. Controversa, perché la classificazione datane prima in atti amministrativi e poi in una norma di legge viene contestata da magistrati che la ritengono in contrasto con sentenze e disposizioni europee, per non parlare della nostra stessa Costituzione.

Giorgia Meloni ed Elon Musk

         Lungi dalle scuse che pure qualcuno gli ha attribuito riferendone la telefonata con la premier italiana, Musk si è limitato a condividere il “rispetto” della Meloni per il Capo dello Stato, ha rivendicato il diritto di avere ed esprimere le proprie opinioni e, nell’auspicare un incontro con Mattarella, si è evidentemente riservato di ribadirgli quello che pensa di quanto accade in Italia nei rapporti fra governo e magistratura. A proposito dei quali si può certamente dire, come ha sostenuto o ammonito Mattarella, che sappiamo cavarcela da soli, ma anche temere che creino problemi di natura internazionale quando è in gioco un fenomeno come la immigrazione clandestina. Che travalica ormai, per le sue dimensioni e i suoi riflessi, i confini nazionali.

Dal Fatto Quotidiano

         Alexander Stille in una intervista al Fatto Quotidiano ha esortato dagli ormai suoi Stati Uniti a non sopravvalutare, o addirittura “prendere suo serio”,  il pur ricchissimo amico, consulente, finanziatore di Donald Trump, che ha appena vinto la corsa alla Bianca. Dove tornerà il 20 gennaio ma vi si è appena affacciato su invito del presidente uscente Joe Biden ponendo davvero fine alla campagna elettorale         e avviando con bonomia, almeno apparente, la fase di transizione che negli Stati Uniti dura una sessantina di giorni. Durante i quali il presidente uscente continua a comandare e quello entrante prenota, anticipa e quant’altro il suo lavoro.

         Ebbene, come lo stesso Mattarella ha tenuto a precisare nel suo intervento come per rafforzarne la portata, Musk non è più soltanto un amico, sostenitore, finanziatore, ripeto, di Trump ma anche un uomo destinato a fare parte della nuova amministrazione americana. Dovrà occuparsi, pur tra i “mugugni” dell’entourage dello stesso Trump riferiti da Massimo Gaggi sul Corriere della Sera, della lotta agli sprechi nel governo degli Stati Uniti, ma non credo che egli sia andato troppo lontano dalle opinioni e dagli umori del presidente di prossimo insediamento o ritorno alla Casa Bianca parlando come ha parlato dell’Italia e dei suoi giudici. E ciò significa che c’è un problema, per quanta sordina si possa e si voglia applicargli sul piano politico e diplomatico.

         Ci sono stati altri passaggi e momenti nella storia dei rapporti fra gli Stati Uniti d’America e l’Italia dopo la fine dell’insensata guerra dichiarata da Mussolini, in cui sono stati vissuti e gestiti problemi di una certa difficoltà non sempre attenuati abbastanza dalla diplomazia. Ricordo quelli, per esempio, sorti e a volte persino esplosi, perdurando ancora la cosiddetta guerra fredda, quando in Italia si sperimentò, praticò, sviluppò un rapporto non dico di alleanza ma di “solidarietà nazionale”, come venne ufficialmente definito, fra i tradizionali partiti di governo e l’altrettanto tradizionale partito di opposizione che era il Partito Comunista, con tutti i suoi rapporti con l’Unione Sovietica. Che procedevano fra “strappi” sapientemente gestiti dal segretario Enrico Berlinguer, sopravvissuto persino ad un attentato in Bulgaria, ma comunque procedevano. E finirono per prevalere nel 1979, quando il Pci si tirò fuori dalla maggioranza di governo per contestare il riarmo missilistico della Nato resosi necessario per il vantaggio militare acquisito dal blocco orientale dell’allora Patto di Varsavia con l’installazione degli SS 20 puntati contro le capitali dell’Europa occidentale.

Donald Trump ed Elon Musk

         Certamente le cose sono cambiate. Le analogie sono relative. Ma la politica resta la politica. E ci sono problemi che possono ripresentarsi in altro modo, fra i quali forse anche quello di un Paese dove si erigono muri lungo i confini per proteggersi dall’immigrazione clandestina e si fatica, quanto meno, a capire che in Italia il governo non può muoversi, né assumere impegni, su certi terreni dovendosi in qualche modo guardare anche dai giudici che la pensano diversamente interpretando altrettanto diversamente leggi e quant’altro.

Pubblicato sul Dubbio

L’affare Musk non è per niente chiuso dopo il richiamo di Mattarella

Elon Musk

Il caso -un diabolico, dannato caso-  ha voluto che lo scontro al tempo stesso diretto e a distanza fra il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella e il tycoon trumpiano Elon Musk sull’”autarchia” giudiziaria, come lo stesso Musk ha confermato di ritenere quella che in Italia è entrata in collisione col governo nella gestione dell’immigrazione clandestina, sia avvenuto nello stesso giorno in cui i presidenti uscente ed entrante, o rientrante, degli Stati Uniti si sono incontrati alla Casa Banca. Ed hanno avviato, con cordialità sorprendente rispetto alla durezza della campagna elettorale svoltasi oltre Oceano, la lunga fase transitoria. Che negli Stati Uniti dura un paio di mesi, durante i quali chi esce continua a comandare e chi gli deve subentrare si allena costruendo le basi della nuova amministrazione.

Sergio Mattarella

         Purtroppo, per lui, il presidente Mattarella ha finito per aggravare la coincidenza fra la sua sortita contro Musk e l’incontro fra Biden e Trump alla Casa Bianca usando nella polemica, come per rafforzarla, la partecipazione dello stesso Musk allo staff presidenziale che guiderà gli Stati Uniti nei prossimi quattro anni. Mi sembra francamente difficile pensare che Trump non abbia condiviso e non condivida i giudizi del suo amico, consigliere, finanziatore sull’Italia e su ciò che vi accade nei rapporti fra governo e magistratura. Che sono sì affari interni, attinenti la nostra sovranità, cui Mattarella ha rivendicato la nostra capacità di badare da noi stessi, ma finiscono per avere incidenze anche all’esterno quando in gioco è l’azione di contrasto all’immigrazione clandestina.

Da Avvenire

         “Questioni di Stato” ha titolato Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, distinguendosi da tutti gli altri quotidiani che hanno ceduto a tentazioni scolastiche o muscolari: dalla “lezione di Mattarella” sbandierata dalla Stampa alla “sberla a Musk” stampata in rosso sul Foglio. Il segno della polemica temo che rimarrà nei rapporti fra persone che peraltro potrebbero anche incontrarsi personalmemte, come Musk, dopo avere parlato per telefono con la sua amica Giorgia Meloni, condividendone il dovuto “rispetto” a Mattarella, ha auspicato o indirettamente chiesto che avvenga. E, francamente, non credo per scusarsi, avendo egli tenuto a ribadire, sempre dopo la telefonata con la premier italiana, il diritto di avere e manifestare le proprie “opinioni”.

Dal Fatto Quotidiano

         Sotto questo profilo Il Fatto Quotidiano dell’ammiratore di Giuseppe Conte, cioè Marco Travaglio, non ha sbagliato a titolare in prima pagina che “Elon rilancia ancora”, dopo avere parlato con l’amica italiana e presidente del Consiglio. Dove sbaglia forse, per la solita ossessione politica interna, il titolo del Fatto è nel sostenere che “lo scontro” di Mattarella abbia “zittito” Musk ma sia avvenuto “con Meloni”, rimasta per troppe ore in silenzio di fronte ai giudizi dell’amico e obbligando quindi il capo dello Stato a intervenire lui.

Ripreso da http://www.startmag.it

La guerra immaginaria nel governo sul vertice dell’Arma dei Carabinieri. Perduta addirittura dalla premier

Il generale Teo Luzi, comandante uscente dell’Arma dei Carabinieri

         Sulla più naturale e logica delle proposte, quella del ministro della Difesa Guido Crosetto, il governo ha disposto, all’unanimità e senza un minuto di discussione, come precisato dallo stesso Crosetto, il più naturale e logico degli avvicendamenti al vertice dell’Arma dei Carabinieri per la più naturale e logica delle scadenze. Al posto dell’uscente generale Teo Luzi è stato nominato il suo vice, e generale di Corpo d’Armata, Salvatore Luongo.

         Eppure per qualche settimana si è svolta su alcuni giornali italiani, il più combattivo e ostinato quello di Carlo De Benedetti –Domani- con interventi dello stesso direttore Emiliano Fittipaldi, a colpi di retroscena e simili, una guerra all’interno del governo. Tutto svanito in Consiglio dei Ministri in un attimo.

Il titolo di Domani, a pagina 5

         La ritorsione, chiamiamola così, del giornale di De Benedetti è consistita nel declassamento, dalla prima a pagina 5, della notizia della guerra perduta addirittura dalla premier e dal suo principale sottosegretario Alfredo Mantovano. “Crosetto- dice il titolo di Domani– vince la sua battaglia. Luongo comandante dell’Arma”. E nel sommario, come si dice in gergo tecnico: “Il ministro della Difesa ha portato a casa la scelta del generale su cui aveva puntato da tempo. Mantovano esce sconfitto. Evitata la figuraccia di un lungo stallo che impensieriva il Quirinale”.

Il ministro della Difesa Guido Crosetto

         Tutto molto interessante, intrigante, pittoresco se fosse stato minimamente vero. Le migliori vittorie, potrebbe dire il ministro della Difesa, sono quelle che si conseguono senza avere avuto neppure il bisogno o la scomodità di combatterle.

         Al generale Luzi che lascia e al generale Luongo che gli succede anche i miei ringraziamenti e auguri, rispettivamente, di carattere umilmente personale: niente, sotto lo zero, rispetto a quelli delle Autorità, con la dovuta maiuscola, sia vincenti che perdenti secondo la rappresentazione immaginaria dell’ancor più immaginaria guerra appena conclusa a Palazzo Chigi e dintorni.

Ripreso da http://www.startmag.it

Elon Musk dagli Stati Uniti mette a soqquadro la politica in Italia

Elon Musk con Giorgia Meloni

L’ultimo italiano a dichiarare follemente guerra agli Stati Uniti per inseguire Hitler nella corsa all’Inferno fu Benito Mussolini. L’ultimo, ripeto. Non il penultimo, come un ingenuo potrebbe pensare leggendo le cronache politiche che riferiscono delle forti proteste levatesi dall’Italia, fra opposizioni, associazioni sindacali, organi istituzionali come il Consiglio Superiore della Magistratura, sia pure solo attraverso le dichiarazioni di un suo esponente, contro il miliardario americano e sostenitore di Donald Trump, che lo porterà nel nuovo governo, Elon Musk. Il quale ha anche l’inconveniente, dalle nostre parti, di essere diventato amico e ammiratore della premier Giorgia Meloni e del suo partito, ricambiato naturalmente di simpatia al punto che la presidente del Consiglio ha preferito farsi consegnare di recente proprio da lui negli Stati Uniti un premio conferitole dall’Atlantic Council. 

Elon Musk con Donald Trump

         Con questi precedenti, chiamiamoli così, un tweet di Musk contro i giudici italiani –“se ne devono andare”- che disapplicano o comunque contrastano le norme di legge e gli atti amministrativi di contrasto, a loro volta, dell’immigrazione clandestina ha provocato il finimondo dalle nostre parti. Un finimondo, con proteste contro la “sovranità” italiana violata o solo minacciata, anche per l’estensione delle critiche di Musk alle organizzazioni “criminali” che si dividono, diciamo così, fra soccorsi ai migranti in mare e  ai trafficanti che ci guadagnano sopra.

La vignetta del Corriere della Sera

         Il consigliere, collaboratore e quant’altro di Trump uscito vincitore della corsa alla Casa Bianca, tornandovi dal 20 gennaio, ha espresso i suoi giudizi non informandosi con le vignette dei giornali italiani -l’ultima è quella di oggi del  Corriere della Sera  sui migranti che vengono portati in Albania per il disbrigo delle loro pratiche e rimandati in Italia dai giudici di Roma- ma con le cronache vere. Che non solo a Musk ma alla maggioranza degli elettori americani appena espressasi nelle urne debbono sembrare incredibili, abituati come sono da quelle parti a vedere innalzare muri veri e propri, lungo le frontiere, per contrastare l’immigrazione clandestina.

Claudio Cerasa sul Foglio

         Il solito conformismo, un senso frainteso del politicamente corretto, ha indotto anche qualche analista solitamente critico di certa magistratura italiana a prendere le distanze da Musk. Sul Foglio, per esempio, il direttore Claudio Cerasa ha chiesto ad esponenti del governo e della maggioranza di “rimettere al suo posto” l’amico americano, pur ammettendo che la sinistra appoggia “ingerenze” straniere di segno opposto quando cercano di danneggiare la destra al governo.

Alessandro Barbano sul Dubbio

         Sul Dubbio il buon Alessandro Barbano ha servito il caffè ai lettori scrivendo che “sottrarsi all’assedio delle toghe per finire nelle grinfie di un triliardario, espressione di una tecnocrazia rapace, non è certamente l’augurio che può farsi alla politica italiana”.   

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