Conte il Magnanimo concede il diritto al dissenso nel “novo” MoVimento 5 Stelle

Dal Corriere della Sera

Senza cravatta al collo, che continuano invece ad applicargli i vignettisti rimasti indietro negli anni, ma con la pochette nel taschino della giacca blu e le scarpe di pelle di nuovo ai piedi, al posto di quelle da ginnastica adottate ogni tanto con spirito sportivo, Giuseppe Conte ha finalmente liberato il suo “popolo” dalle catene del fondatore, del garante, del consulente Beppe Grillo. Dal quale, quando il MoVimento 5 Stelle era davvero tutto suo, si poteva dissentire solo facendosi cacciare o precedendo l’espulsione con l’uscita spontanea.

Dal discorso di Conte all’assemblea Nova

         Ai giovani contestatori in maglietta raffigurante proprio Grillo che gli chiedevano dimissioni e trasparenza, evidentemente mancata secondo loro nella preparazione digitale dell’assemblea costituente, di rifondazione e quant’altro del movimento già primo partito d’Italia, Conte ha concesso -bontà sua- il diritto al dissenso. “Siamo aperti anche al dissenso”, ha detto testualmente senza accorgersi dell’umorismo su cui stava scivolando nella veste dantescamente “nova” -come è stata chiamata l’assemblea- che egli ha voluto confezionare al movimento non si sa per quanto ancora a destinato a portare il nome e il simbolo di cinque stelle. Per adesso dimagrito, e parecchio, di voti e di iscritti.

L’annuncio del quorum nelle votazioni digitali

         Di questi ultimi, ridotti in cinque mesi da 160 mila a 89 mila con una epurazione travestita, secondo i dissidenti, da verifica della loro operatività, Conte è riuscito a portare alle urne digitali propedeutiche all’assemblea la metà più uno forse utile ad evitare o quanto meno contrastare le contestazioni statutarie di Grillo. “Abbiamo il quorum”, ha annunciato personalmente l’ex premier- sempre lui- ad un’assemblea esplosa in un applauso liberatorio.

Contestatori di Conte all’assemblea costituente

         Il tutto si è svolto, e si conclude oggi, in un palazzo romano frequentato dai vecchi cronisti politici per seguire i congressi degli ancor più vecchi partiti di quella che è passata alla storia come “Prima Repubblica”, ghigliottinata dalla magistratura o suicidatasi -come preferiscono dire quelli che non la rimpiangono- con la pratica obiettivamente balorda dei finanziamenti irregolari. Anzi illegali rispetto a leggi, appunto, approvate più con ipocrisia che con giudizio, destinando ai partiti un finanziamento pubblico pari a meno della metà, forse un decimo, di quanto fosse loro davvero necessario per fare il mestiere non abusivo o criminale ma garantito dalla Costituzione nell’articolo 49. Rimasto purtroppo in vigore nella sua ingenua genericità, senza una legge di applicazione inutilmente auspicata dai più avveduti.

         “Tutti i cittadini -dice testualmente quell’articolo- hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Il metodo democratico che solo ora Conte -con involontaria comicità, non quella professionale di Grillo- ha “concesso” riconoscendo il diritto al dissenso senza essere cacciati, ripeto, o costretti ad andarsene di propria, ilare volontà.

La corona di Goffredo Bettini sul capo del “coriaceo” Giuseppe Conte

Da Libero

Goffredo Maria Bettini, 72 anni compiuti una ventina di giorni fa e festeggiati a Roma con quella che lui chiama affettuosamente la famiglia o comunità “asiatica”, della sua amata Thailandia, è uomo abbondante anche di pensieri e consigli. Che dispensa generosamente a tutti, e non solo ai suoi compagni del vecchio, scomparso Pci e di tutte le formazioni politiche che ne sono derivate dopo il crollo del muro di Berlino. E gli aggiornamenti anagrafici e simbolici cominciati con la quercia adottata come simbolo da Achille Occhetto deponendo ai suoi piedi la falce e il martello di memoria storica.

Bettini con Walter Veltrni

         Non tutti i consigli di Bettini, in verità, sono risultati utili ai suoi destinatari, almeno per gli effetti prodotti, o per l’uso fattone dagli interessati. Il più sfortunato dei quali è stato forse Walter Veltroni, durato meno di un anno e quattro mesi come segretario del Pd da lui stesso fondato nel 2007 con esponenti provenienti dal già menzionato Pci e dall’estinta, anch’essa, Democrazia Cristiana. Ma le disavventure o delusioni non hanno mai scoraggiato più di tanto come consigliere o allenatore il simpatico Bettini, tornato in quelle vesti sempre alla carica come “funzionario di partito”, quale si è dichiarato alla voce “professione” in tutte le biografie parlamentari e ora internettiane. Orgogliosamente funzionario di partito, ripeto, con diploma di liceo scientifico. E passione culturale e cinematografica, oltre che politica.

Bettini con Nicola Zingaretti

         Da scopritore di talenti Bettini seppe conquistarsi e a sua volta conquistare l’attenzione e l’amicizia di Giuseppe Conte nella sua seconda esperienza a Palazzo Chigi, consentitagli dopo la rottura con i leghisti dal Pd guidato da Nicola Zingaretti. E stimolato a sorpresa, in quel passaggio, dall’allora ancora iscritto ed ex segretario Matteo Renzi.

Bettini e Conte

         Liberatosi della compagnia, alleanza e simili con la Lega che lo aveva reso inviso alla sinistra, peraltro già scottata nel 2013, al loro esordio parlamentare, dai grillini che avevano rifiutato l’appoggio esterno ad un governo di “minoranza e di combattimento” proposto loro dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani; liberatosi, dicevo, della compagnia leghista Conte si guadagnò proprio da Bettini i gradi, diciamo così, del “punto di riferimento più alto dei progressisti”.

Bettini con Massimo D’Alema

         Adesso forse l’ormai ex presidente del Consiglio, e presidente di un Movimento 5 Stelle giù di tono elettorale, appare meno alto anche a Bettini. Che tuttavia, ribadendo posizioni già assunte nelle scorse settimane. in una intervista al Quotidiano Nazionale composto dal Giorno, Resto del Carlino e Nazione, in ordine rigorosamente geografico di stampa e diffusione, ha voluto riconoscere e sottolineare l’appartenenza dell’amico al campo progressista proclamata anche nello scontro scoppiato con Beppe Grillo, fondatore, garante, consulente, elevato e quant’altro del movimento. Proclamata a tal punto da dichiararsi ponto alle dimissioni se dovesse risultare in minoranza in quella specie di congresso, chiamato assemblea costituente, in corso.

         Nella sua generosità, e voglia anche di protezione di Conte, e di quel che dovesse rimanergli del movimento, dal rischio avvertito sotto le 5 stelle di una fagocitazione da parte di un Pd in ascesa elettorale, con o senza l’aiuto del forte calo dell’affluenza alle urne, Bettini si è spinto oltre la siepe dei numeri.

Bettini ed Elly Schlein

         In particolare, egli ha detto che, per quanto il movimento pentastellato abbia “subito un colpo alle ultime Regionali”, in Emilia-Romagna e in Umbria, “da mesi continua a collocarsi attorno all’11% nei sondaggi politici nazionali”. “E poi Conte -ha insistito- è un coriaceo combattente”. Ma i sondaggi hanno un valore ancora più virtuale del solito dopo l’ultima verifica elettorale a livello nazionale, risalente al voto europeo di giugno, in cui il movimento ormai ex grillino è andato sotto il 10 per cento.

Per un punto Martin perse la cappa dice, sia pure per un altro verso, un vecchio proverbio. Ma i punti sono ben più di uno, anche se il coriaceo, pure lui, Bettini li liquida a livello “regionale”. In Emilia-Romagna il 43 per cento del Pd è ben più di dieci volte superiore al 3,6 del movimento di Conte. Che è in natura, direi, un cespuglio.

Pubblicato su Libero

Cronache minori dei partiti italiani in un mondo sottosopra

La vignetta del Corriere della Sera su Netanyau

In un mondo dove la Corte Internazionale dell’Aja, a costo di ridursi a un cortile, spicca un mandato di cattura contro il presidente israeliano Netanyau equiparandolo come criminale a chi ne vuole cancellare lo Stato e sterminare gli ebrei riprendendo l’operazione di Hitler interrotta dalla sua sconfitta; in un’Europa dove alla paura di Putin da più di mille giorni in guerra contro l’Ucraina si è aggiunta paradossalmente la paura di Trump per ciò che vorrà fare davvero dopo il ritorno alla Casa Bianca, oltre alla già annunciata guerra dei dazi agli alleati degli Stati Uniti; in un’Italia chiamata alla “rivolta sociale”, come ad una scampagnata, dal segretario del maggiore sindacato; fra tutti questi guai, può sembrare -e un po’ lo è in effetti- miserevole occuparsi delle vicende interne dei partiti di casa nostra. Ma tocca farlo, magari turandosi il naso come la buonanima di Indro Montanelli raccomandava agli elettori spingendoli a votare  Dc per evitarne il sorpasso da parte del Pci.

Il ministro Luca Ciriani

         I fratelli d’Italia di Giorgia Meloni stanno spendendo un po’ di energie discutendo della proposta del loro ministro Luca Ciriani, e non più dei soli avversari o critici, di togliere la fiamma di tradizioni ed eredità missine dal simbolo del partito.

Roberto Vannacci

         I leghisti di Matteo Salvini, già alle prese con i problemi di un costante arretramento elettorale, debbono guardarsi dalla trasformazione del “comitato culturale” del generale ed eurodeputato Roberto Vannacci in “comitato politico” contro il “mondo al contrario”.

         Quelli che dal 2013, dal loro arrivo in Parlamento per aprirlo coma “una scatola di tonno”, ci eravamo abituati a chiamare grillini dal nome del fondatore del loro MoVimento 5 Stelle stanno decidendo con le solite procedure digitali come chiamarsi nel loro ormai crollo elettorale sotto la guida di un Giuseppe Conte che sogna di essere ancora “il punto di riferimento più alto dei progressisti”. Cui lo aveva imprudentemente  promosso a suo tempo il Pd di Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

         Nel tentativo digitale, ripeto, di rifondazione pentastellare si è appena introdotto Marco Travaglio proponendo a Conte e amici di chiamarsi sì progressisti, se proprio ci tengono, ma “indipendenti”. E ciò perché -ha spiegato il direttore del Fatto Quotidiano in un editoriale di virtuale partecipazione al congresso digitale del movimento- la “sinistra” dove generalmente vengono collocati i progressisti “è un nobile concetto tradito e violentato da troppi abusivi per significare qualcosa”. Abusivi come quelli del Pd anche sotto la guida di Elly Schlein, succeduta ad Enrico Letta.

Gad Lerner sul Fatto Quotidiano

         Eppure nello stesso numero del Fatto Quotidiano Gad Lerner ha assicurato il direttore ed amico Travaglio che quello votante per il Pd, appena risultato una decina di volte superiore all’elettorato delle 5 Stelle in Emilia-Romagna, “non è popolo bue che si piega alle elite”. Grande è la confusione sotto le stelle, diceva già Mao.

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Il fantasma di Giulio Andreotti fra Strasburgo e Bruxelles

Dal Dubbio

Fra Strasburgo e Bruxelles, fra il Parlamento europeo e gli uffici della Commissione esecutiva dell’omonima Unione, più che la premier Giorgia Meloni di persona, quando ci va, o a viva voce, quando parla da remoto con le ormai amiche personali e presidenti, rispettivamente, Roberta Metsola e Ursula von der Leyen, maltese una e tedesca l’altra, si aggira il fantasma di Giulio Andreotti. Che in Italia visse politicamente di maggioranze variabili, guidando sette governi e altrettante maggioranze estese, secondo i casi, fra la destra e la sinistra, dai liberali -per non parlare dei missini in talune circostanze non illuminate dai riflettori- sino ai comunisti.

Bettino Craxi e Giulio Andreotti

 Bettino Craxi parlava di lui come di “una volpe” destinata, come tutte le volpi, a finire prima o poi “in pellicceria”, non risparmiandosi tuttavia di collaborarvi, per quattro anni tenendoselo come ministro degli Esteri in due governi e accettandolo poi come presidente del Consiglio. Cioè contribuendo a quella che lo stesso Andreotti, ingobbandosi più del solito, definiva la politica o la pratica dei “due forni”. Cui la sua Dc doveva potersi rifornire secondo i bisogni, le opportunità e quant’altro: i forni, appunto, della sinistra e della destra, cui secondo lui arrivavano ogni tanto nelle urne voti democristiani “in libera uscita”, e altrettanto libero rientro.

Da morto, come fantasma, Andreotti è riuscito a propiziare in qualche modo a livello europeo questa politica o pratica dei due forni,  realizzabile tuttavia non con più governi in diverse legislature ma con un solo governo -la seconda Commissione di Ursula von der Leyen- in una sola legislatura. Che è quella uscita dalle elezioni europee di giugno.

Grazie a questa politica dei due forni, ripeto, dopo una tempesta di qualche giorno a livello mediatico e parlamentare, salvo sorprese improbabili nella votazione conclusiva del 27 novembre nell’Europarlamento, il commissario italiano con deleghe importanti Raffaele Fitto potrà essere anche uno dei sei vice presidenti vicari della Commissione. Per la cui presidente, nei momenti della designazione e della conferma parlamentare, la Meloni personalmente e poi il suo partito si astennero dissociandosi quanto meno dal metodo con cui i vertici dell’Unione, ma soprattutto il francese Emmanuel Macron e il tedesco Olaf Scholz, pur entrambi indeboliti dalle elezioni continentali di giugno,  l’avevano voluta replicare. 

Romano Prodi

Si è detto e scritto, anche da parte di un esperto della materia come Romano Prodi, fra i predecessori di Ursula von der Leyen, che la nuova Commissione europea parte “indebolita”, con vice presidenti che non meriterebbero tutta l’attenzione che si sono procurata, sempre secondo Prodi. Che a distanza di quasi 25 anni dalla sua avventura bruxelliana non ricorda neppure più se, quanti e come si chiamassero i suoi vice presidenti.

Dal Riformista

Eppure c’è qualcosa in questa valutazione di Prodi e di altri a sinistra  che personalmente non mi convince, senza con questo volere condividere a scatola chiusa la soddisfazione entusiastica della premier Meloni, condivisa invece dal Riformista con una foto e un titolo di copertina che la propone come una riproduzione bambolesca di Evita Peron, affacciata alla Casa Rosada d’Argentina dove è appena andata in missione.

Non mi convince, in particolare, l’equazione fra l’ampiezza della pur variabile maggioranza della von der Leyen -o von der Meloni, come ho letto in una vignetta- e la sua debolezza in un momento cruciale dell’Europa, fra la guerra dei dazi annunciata da Donald Trump dagli Stati Uniti e quella che continua in Ucraina, pur nella promessa dello stesso Trump di farla cessare quasi d’incanto. E’ tempo per e in Europa di larghe solidarietà, non di maggioranze delimitate come fortini. Siamo comunque appena all’inizio, anzi agli allenamenti di una lunga partita. Tutto può essere o rivelarsi esagerato come la famosa morte di Mark Twain annunciata nel 1897, ma avvenuta nel 1910. 

Pubblicato sul Dubbio 

L’epurazione silenziosa degli iscritti chiamati al congresso digitale dei 5 Stelle

Da Repubblica

L’ex sindaca di Torino Chiara Appendino ha davvero archiviato la posa confidenziale di quella foto che la sorprese in uno studio televisivo mentre sistemava la pochette nel taschino della giacca al presidente del suo partito Giuseppe Conte. Cui ha invece segnalato adesso, pur con qualche tentativo poi di ridurne la portata, il rischio che il MoVimento ancora nominalmente delle 5 Stelle venga fagocitato dal Pd, essendone diventato un cespuglio elettorale con quel 3,6 per cento rimediato in Emilia-Romagna, e superato col 3,7 dai renziani, rispetto al 43 del Nazareno. “Un socio di minoranza”, ha detto l’Appendino sorvolando sulla distinzione che Conte fa tra un’alleanza “organica” col Pd, come si disse di quella fra i democristiani e i socialisti realizzata da Aldo Moro con i suoi primi tre governi di coalizione e poi dai successori, e un’alleanza invece episodica, trattata di volta in volta in sede locale, attorno a un programma o a un candidato a sindaco di città o a presidente di regione. Una “direzione obbligata”, ha titolato oggi una compiacente Repubblica.

Dal Fatto Quotidiano

         Il guaio però per i pentastellati, come è diventato ormai doveroso definirli non avendo più senso chiamarli grillini con Beppe Grillo che non si scomoda neppure a votarli quando viene chiamato alle urne; il guaio, dicevo, per i pentastellati è che si sono fagocitati da soli con una epurazione di iscritti avvenuta tra la disattenzione generale nei preparativi del quasi congresso digitale in corso. Che Il Fatto Quotidiano ha intestato con un fotomontaggio al Rischiatutto del compianto Mike Bongiorno.    

Beppe Grillo a colori

Una fonte solitamente su quel campo, proprio Il Fatto Quotidiano, ci ha comunicato in un articolo firmato da Luca de Carolis che i 160 mila iscritti risultanti a giugno, prima delle elezioni europee, sono scesi a 89 mila dopo una verifica della loro operatività, diciamo così.  Verifica disposta da Conte anche per cautelarsi dal potere che ha ancora come garante il fondatore Beppe Grillo di fare ripetere le votazioni dai risultati sgraditi per reclamarli a maggioranza qualificata.

Marco Pannella in bianco e nero

         La riduzione degli iscritti, tutto sommato, è stata sostanzialmente pari, nei soli cinque mesi trascorsi dal rinnovo del Parlamento europeo, a quella degli elettori. Che hanno contribuito a fare degli astensionisti ancora di più il primo partito d’Italia, sia pure virtuale, senza nome, senza simbolo, senza una sede, senza un leader. A meno che Beppe Grillo in qualche teatro o piazza non voglia impadronirsene, come a suo tempo cercò di fare la buonanima di Marco Pannella in bianco e nero con gli astensionisti della cosiddetta prima Repubblica. Che erano una minoranza relativamente misera, ma pur sempre superiore alle dimensioni elettorali del partito dichiaratamente e orgogliosamente radicale.

Ripreso da http://www.startmag.it       

Il manifesto “progressista” di Giuseppe Conte affidato a Repubblica

Da Repubblica

Giuseppe Conte ha scelto la Repubblica, quella di carta naturalmente, per confermare agli iscritti al MoVimento 5 Stelle, impegnati da oggi in quello che potremo definire un congresso digitale, la sua scelta di campo con i progressisti, per nulla timoroso -ha assicurato- di finire fagocitato da un Pd gonfio di voti e ancor più, adesso, di ambizioni.

Giuseppe Conte a Repubblica

         “Non ho mai parlato -ha cercato Conte di rassicurare i dissidenti, a cominciare dal più famoso che è certamente Beppe Grillo, rimproverato di parlare “dal divano” e di non andare più neppure a votare- di alleanza organica o strutturata col Pd. Non sarebbe compatibile col dna del M5S. Ho sempre ragionato di un dialogo da coltivare con le forze del campo progressista per valutare intese, stando sempre attento a difendere la nostra identità e le nostre battaglie”.

Dal Corriere della Sera

         Mentre Conte si lasciava intervistare da Repubblica, quasi informatone- Pier Luigi Bersani lo applaudiva e incoraggiava parlando al Corriere della Sera di una “movida a sinistra” e aspettando la trasformazione del movimento ormai ex grillino in “un partito di nuovo conio”, che “il Pd -assicurava o suggeriva, raccomandava alla segretaria Elly Schlein- “non fagociterà”. Ci penserà evidentemente lo stesso Pier Luigi, e non solo con  parabole o metafore, a impedirlo. Magari andandosene un’altra volta dal Pd per tornarvi dopo un altro cambiamento di segreteria e di linea.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

         Informato forse anche lui dell’intervista di Conte a Repubblica e non al suo Fatto Quotidiano, che pure lo considera -o considerava, vedremo- “il migliore presidente del Consiglio d’Italia dopo Cavour” e insieme “l’uomo politico più incompreso del mondo”, Marco Travaglio ha dedicato l’editoriale di giornata al Pd per contestargli la pratica del “dire tutto e il contrario di tutto o -più semplicemente- non dire niente”, perché ciò “assicura messi di voti da pacifisti e guerrafondai, atlantisti e multipolari, filorenziani e antirenziani, filogrillini e antigrillini, centristi e progressisti, filoisraeliani e antipalestinesi, innovatori e conservatori, green e anti-green ecc:”. “Ma la supercazzola schleniana con scappellamento a sinistra e contemporaneamente al centro non può essere un programma o una strategia: solo una tattica di poco respiro”, ha previsto o sanzionato Travaglio pensando a quell’ingenuo o disinvolto di Conte caduto evidentemente nella trappola.

Dal Fatto Quotidiano

         Ad aggravare la situazione avvertita dal direttore del Fatto Quotidiano sono arrivate le notizie da Bruxelles su un accordo per la conferma di Raffaele Fitto a vice presidente della Commissione europea. “Il Pd cala le braghe”, ha titolato Travaglio, sollevato almeno in questo dal passaggio dell’intervista di Conte a Repubblica in cui il no dei suoi a Fitto nel Parlamento europeo rimane fermo.

Goffredo Bettini

         Anche Goffredo Bettini, un altro estimatore di Conte, ha avvertito dall’Unità il suo Pd che votare Fitto “è un rischio”, significando un pericoloso “passaggio a destra”, ha spiegato il manifesto.

Come il Pd ha potuto stravincere in Emilia-Romagna perdendo 110 mila voti

Da Libero

Solo a ”urne mezze vuote” -come ha titolato l’insospettabile Fatto Quotidiano per darsi una ragione del crollo elettorale di Giuseppe Conte, “il migliore presidente del Consiglio” italiano dopo Camillo Benso di Cavour o, più recentemente, “il politico più incompreso nel mondo”- può accadere ciò che si è visto in Emilia-Romagna, e in misura minore anche in Umbria. Una specie di replica blasfema del miracolo di Cana, dove Gesù trasformò l’acqua in vino, o di quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci.  Quandolo stesso Gesù fece saziare con 5 pesci e 2 pani all’uopo moltiplicati, appunto, cinquemila persone che alla fine  lasciarono 12 cesti pieni di avanzi.

         Nella sempre rossa Emilia-Romagna, più ancora -ripeto- che nell’Umbria tornata a sinistra, il Pd ha raggiunto un quasi autosufficiente 43 per cento, pur avendo perduto 110 mila voti rispetto alle precedenti elezioni regionali, in cui aveva preso il 34,7 per cento. Per non parlare del 28,1 per cento preso nelle elezioni politiche generali di poco più di due anni fa, quando si ebbe un’affluenza nazionale alle urne di quasi il 64 per cento, contro il 46,4 regionale di lunedì scorso. 

         Con tutti questi numeri più o meno da capogiro non voglio contraddire, per carità, il mio amico Stefano Folli che su Repubblica ha scritto che in entrambe le ultime prove elettorali di quest’anno “senza dubbio ha vinto il Pd uscendo dalla malinconia che sembrava un destino ineluttabile” dopo il voto ligure del mese scorso. Che tuttavia aveva gratificato il Nazareno, pur nella sconfitta del campo della sinistra dal quale Conte, sempre lui, aveva reclamato e ottenuto l’espulsione dei rappresentanti pur senza simbolo del partito dell’odiatissimo Matteo Renzi. Prudentemente tollerato poi sia in Emilia- Romagna sia in Umbria.

Francesco Bei su Repubblica

         Voglio solo relativizzare, diciamo così, l’entusiasmo di Francesco Bei. Che sempre su Repubblica, sventolando metaforicamente le braccia come Elly Schlein fra Bologna e Perugia, ha scritto dei voti del Pd che “ricordano la veltroniana vocazione maggioritaria” delle origini, “persino troppo alti -ha scritto sempre Bei- per un partito che vuole essere testardamente unitario, come dice Schlein, e che finisce per fagocitare i suoi alleati, ridotti a cespugli”.

         Cespugli tuttavia festosi, visto il buon viso una volta tanto opposto al cattivo gioco dall’ex presidente del Consiglio ancora pentastellato. Che non è corso a raggiungere la Schlein a Perugia, rimanendo a Roma, non per evitare di abbracciarla e baciarla ma solo per restare inchiodato alla croce, o quasi, dei preparativi dell’assemblea costituente o ricostituente del suo movimento, che ormai non viene più votato neppure dal fondatore, garante e quant’altro Beppe Grillo quando gli viene offerta l’occasione di andare alle urne, come il mese scorso nella sua Liguria.

         Ora, festa a parte e a distanza proclamata a mezzo stampa per la vittoria di Stefania Proietti nella corsa alla presidenza dell’Umbria, per Conte sarà forse più difficile del previsto fronteggiare il dissenso, a dir poco, di Grillo e fedeli superstiti da un rapporto di alleanza pur non sistemico o organico col Pd. In cui l’ex primo partito italiano delle elezioni del 2018, da cui scaturirono due governi di Conte di segno o colore opposto, gialloverde prima e giallorosso poi, assomiglia un po’ a qualcuno, appunto, dei cespugli cresciuti alla fine della cosiddetta prima Repubblica attorno alla Quercia di Achille Occhetto.

         Ad avere problemi comunque dopo le elezioni in Emilia-Romagna e in Umbria, e in vista delle altre regionali e amministrative dell’anno prossimo, non è soltanto il malmesso Conte. E’ anche la Schlein, che specie dopo avere detto al Corriere della Sera di avere “un profilo chiaro e forte”, oltre che il solito “spirito unitario”, non ha più la possibilità di giustificare fra le mura del Nazareno, ma anche fuori, sino al Quirinale, il carattere radicale della sua opposizione perché assediata, incalzata e quant’altro da un concorrente insidioso e pericoloso come Conte. Per niente rassegnato all’idea di un’alternativa pur improbabile ancora al centrodestra trainata da lui come candidato a Palazzo Chigi. Una opposizione, quella della Schlein, che ha appena strizzato l’occhio, a dir poco, all’ostracismo contro una delle vice presidenze esecutive della nuova Commissione Europea perché assegnata da Ursula von der Leyen al ministro del centrodestra italiano Raffaele Fitto. Inviato e salito giorni fa al già ricordato Quirinale per raccogliere la stima e l’incoraggiamento del presidente della Repubblica. 

Pubblicato su Libero

Quel sassolino di Matteo Renzi nella scarpa che si chiama Giuseppe Conte

         Cinquant’anni da compiere a gennaio, pur essendoseli già tutti assegnati nella millesima lettera elettronica agli amici -enews- spedita ieri nel 24.mo anniversario della prima, Matteo Renzi ama togliersi i sassolini dalla scarpa, anzi dalle scarpe senza mai riuscire a svuotarle del tutto. Se  ne trova sempre di nuove, o di vecchie rigenerate, nella sua frenetica e sempre sorprendente azione politica. Cosa che produce nemici come un albero di ciliegie, anche fuori stagione.

         Nella millesima lettera il sassolino più grosso e recente che si è tolto è quello di Giuseppe Conte. Che anche a costo di fare perdere il mese scorso alla sinistra, registrandone il campo, le elezioni regionali in Liguria, impose alla remissiva segretaria del Pd l’espulsione dei renziani dalle liste di sostegno al candidato Andrea Orlando al governatorato. Eppure gli amici di Renzi si erano infilati nella coalizione di cosiddetto centrosinistra senza insegne, quasi alla chetichella.

         Visto anche il risultato della Liguria, e i tempi quasi scaduti per aprire contenziosi dello stesso tipo, Conte non ha potuto ripetere l’operazione discriminatoria in Emilia-Romagna e in Umbria. Dove non dico grazie a Renzi, ma grazie anche a lui, pur nella quasi autosufficienza del Pd nella regione più rossa d’Italia, il cartello di sinistra ha vinto. E nella vittoria emiliano-romagnola se vi è stato un partito marginale questo è stato il MoVimento 5 Stelle, letteralmente precipitato al 3,6 per cento dei voti dal 7,2 delle elezioni europee di giugno, dal 9,9 delle elezioni politiche del 2022 e dal 4,7 delle precedenti regionali, nel 2020.

Dalla enews di Matteo Renzi

         Ad aggravare la figuraccia politica, ma un po’ anche personale di Conte, sempre in Emilia Romagna, è stato il sorpasso compiuto sul suo partito proprio da Renzi, che se n’è vantato beffardamente nella millesima lettera agli amici. “Ma comi fa -ha chiesto Renzi- a metterci veti chi in Emilia-Romagna prende meno voti do noi?”. “Se pensate -ha infierito l’ex premier- che mi stia riferendo al Movimento Cinque Stelle, beh, pensate bene”. E a seguire il solito ammonimento da quando, passando una palla alla Schlein in una partita “del cuore” all’Aquila, Renzi rivolge “agli amici del centrosinistra: senza un centro forte, riformista, serio non si vince. Lo dice la matematica, lo dice la politica e dopo la Liguria/Umbria lo dice anche il karma”.

         In Emilia-Romagna, per una beffa riservata dal destino “cinico e baro” di memoria saragattiana, il miserrimo 3.6 per cento di Conte è stato superato dal pur misero 3,7 della lista “Civici con de Pascale” assegnatasi da Renzi. Al quale tuttavia, da uno dei tantissimi destinatari della sua lettera mi sono permesso di chiedere se non gli convenga essere la sinistra vera di un centrodestra, piuttosto che la destra di una sedicente sinistra mista di caviale, come non vuole sentirsi dire la Schlein dalla Meloni, e di giustizialismo. Non attendo naturalmente risposta.

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Cosa si aspetta adesso la premier dalla Schlein rinfrancata dalle urne

Dal Dubbio

Non credo che sia stata soltanto la cortesia, per quanto apprezzabile naturalmente anche o soprattutto in politica in una stagione come questa, contrassegnata da tante polemiche troppo spesso sopra le righe, a spingere la premier Giorgia Meloni dal lontano Brasile a trovare il tempo e la voglia di fare arrivare i suoi complimenti ai vincitori pur avversari delle elezioni regionali svoltesi in Emilia-Romagna e inUmbria. In Emilia-Romagna scontatamente, in Umbria meno, anzi a sorpresa, almeno per chi aveva pensato che la governatrice leghista uscente Donatella Tesei potesse farcela con l’aiuto dell’”alternativa popolare” dell’imprevedibile sindaco di Terni Stefano Bandecchi.

Dal Foglio di ieri

         La “doppietta del centrosinistra” annunciata dal Messaggero, la “rivincita” della Schlein preferita della Stampa, i “due bei colpetti al campo Trump” indicati dal Foglio e altro ancora non sono necessariamente riconducibili solo ad una sconfitta, che pure c’è stata, del centrodestra.  Peraltro diluita in un calo notevole dell’affluenza alle urne – dai 20 ai 12 punti fra Emilia-Romagna e Umbria considerando le analoghe e precedenti elezioni- che riduce di per sé dimensioni e significato della vittoria del campo stavolta davvero largo.

Giuseppe Conte

         In quest’ultimo la parte del leone l’ha fatta il Pd. E quella della preda, col dimezzamento dei voti, o quasi, rispetto a quelli non lontani dello scorso mese di giugno per il rinnovo dell’Europarlamento, l’ha fatta il MoVimento 5 Stelle dell’alleato-concorrente Giuseppe Conte. La cui volatizzazione si deve, più ancora dell’azione della pur soddisfattissima Eddy Schlein, alla crisi interna latente da tempo ma letteralmente esplosa con la rivolta del garante a vita, fondatore, elevato, consulente a contratto e altro ancora Beppe Grillo. Che è ormai in fase eccitante di connessione -sul suo stesso blog, in fotomontaggio- con Elon Musk, l’amico, consigliere, finanziatore e quasi ministro dell’ex presidente americano Donald Trump cui mancano meno di due mesi al ritorno per altri quattro anni, gli ultimi, alla Casa Bianca. Dove l’uscente Joe Biden lo ha fatto riaffacciare con una certa cordialità dopo la vittoria elettorale, archiviando davvero una campagna mai condotta con tanta virulenza da entrambe le parti in competizione.

Elly Schlein in festa a Bologna

         Ora dall’alto del quasi autosufficiente 42,9 per cento dei voti conquistato in Emilia-Romagna e del 30,2 in Umbria contro, rispettivamente, il 3,6 e il 4,7 del movimento ancora nominalmente pentastellato l’armocromatica Elly Schlein potrà sempre più difficilmente spiegare ai critici che ha al Nazareno il suo radicalismo oppositorio, motivato sino all’altro ieri con la necessità di difendersi dalla concorrenza di un pericoloso Conte incautamente promosso non da lei ma dai suoi predecessori al “punto più alto di riferimento dei progressisti in Italia”. Così, in particolare, lo avevano definito proprio al Nazareno e dintorni l’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti e il consigliere Goffredo Bettini.

         Nei rapporti di forza ormai consolidati con i risultati dell’Emilia-Romagna e dell’Umbria, dopo quelli analoghi in Liguria il mese scorso, Giorgia Meloni può bene aspettarsi e reclamare dal Pd della Schlein un rapporto oppositorio sì, ma più costruttivo, più responsabile. Ed è forse proprio questo, più ancora della cortesia personale verso i nuovi governatori regionali, che ha spinto la Meloni a formulare, ripeto, auguri e quant’altro dal lontano Brasile, dove si trovava l’altro ieri ancora in missione per il G20 climatico.

Raffaele Fitto

         Già tallonata in Italia dal presidente della Repubblica in persona, Sergio Mattarella, ricevendo al Quirinale per solidarietà e incoraggiamento il ministro uscente Raffaele Fitto in attesa di insediamento come esponente e vice presidente della nuova Commissione europea di Ursula von der Leyen, si vedrà a breve se e come la segretaria del Pd vorrà e saprà muoversi contro quella parte della sua “delegazione” a Strasburgo tentata dal no. Ma è solo la prima, più immediata prova che attende la segretaria piddina all’appuntamento con la responsabilità cui non può sottrarsi un’opposizione davvero democratica, e non sfasciatutto. Un altro terreno è quello della “rivolta sociale” che continua a propugnare il promotore principale dello sciopero generale del 29 novembre Maurizio Landini, al vertice della Cgil guidata a suo tempo, e di dimensioni ben più grandi, da Luciano Lama, per non andare ancora più indietro negli anni.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 23 novembre

Successo di sinistra in Emilia-Romagna e Umbria macchiato dall’astensionismo

Dal Messaggero

         Per la segretaria del Pd Elly Schlein è obiettivamente qualcosa di più del “festino di consolazione” riconosciutole da Libero   la vittoria del cosiddetto centrosinistra in entrambe le regioni di quest’ultimo turno elettorale del 2024. Scontata in Emilia-Romagna meno in Umbria, “la doppietta del centrosinistra” scolpita dal Messaggero giova alla Schlein sia per le dimensioni cui è arrivato il Pd -in Emilia-Romagna al 42 per cento- sia per quelle cui è ridotto all’interno del campo stavolta largo davvero il concorrente MoVimento 5 Stelle del presidente Giuseppe Conte. Esso è poco più di un cespuglio col 3,5 per cento  in Emilia-Romagna e il 4,2 in Umbria, sotto il 4,7 già frustrante della Liguria il mese scorso.

Giuseppe Conte nella vignetta di ItaliaOggi

         Ora l’ex presidente del Consiglio dovrà peraltro faticare ancora più di quanto non avesse messo nel conto della partita interna in corso nel suo movimento per far passare, nella sua immaginaria rifondazione, l’idea contestata da Grillo di un’alleanza quasi organica, sistemica col tanto più forte partito della Schlein in nome di una comune appartenenza al campo dei progressisti. Dove Conte si era collocato prendendosi sul serio nella veste del “punto di riferimento più alto” confezionatagli, quando era ancora presidente del Consiglio, dal segretario pro-tempore del Pd Nicola Zingaretti e dall’ancora più generoso consigliere Goffredo Bettini. Che vorrebbe consigliare pure alla Schlein comprensione e riguardo per l’ex premier ma in condizioni obiettivamente più deboli considerando la caduta elettorale ormai libera delle cinque stelle, e il loro dissesto interno.

Il nuovo governatore dell’Emilia-Romagna Michele De Pascale

         C’è tuttavia qualcosa che ha guastato la festa della Schlein per i guadagni elettorali del suo partito e per la riconquista dell’Umbria dopo la fase del centrodestra. Ed è qualcosa di rilevante, riguardando l’affluenza alle urne impietosamente sottolineata da Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina del Corriere della Sera. in Emilia-Romagna rispetto alle analoghe elezioni precedenti essa è calata di quasi 20 punti, più dei 16 e rotti che hanno distanziato il vincitore della corsa alla presidenza, il sindaco di Ravenna Michele De Pascale, dalla sfidante del centrodestra Elena Ugolini. In Umbria l’affluenza è calata di 12 punti, meno che in Emilia-Romagna di certo ma di pur 9 punti e rotti rispetto ai 5 di distanza fra: la vincente Stefania Proietti, sindaco di Assisi, e la governatrice leghista uscente Donatella Tesei. Ciò obiettivamente riduce la portata di entrambe le vittorie. In qualche modo le dimezza nelle “urne mezze vuote” sottolineate pure dal Fatto Quotidiano nel tentativo però di giustificare i crolli pentastellari.   

La nuova governatrice dell’Umbria Stefania Proietti

E pensare che poco più di due anni fa la sinistra cercò di ridimensionare la vittoria del centrodestra nelle elezioni politiche generali per una riduzione dell’affluenza alle urne di nove punti: dal quasi 73 per cento del 2018 al pur sempre notevole 63,9 del 2022. Altro che il 52 per cento dell’Umbria e il 46 dell’Emilia-Romagna di ieri.    

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