Poche righe -ci provo davanti ai due fotomontati insieme dal Tempo– per segnalarvi il “vaffanculo!”, compreso l’esclamativo, di Marco Travaglio a Beppe Grillo nell’editoriale di commiato, diciamo così, pubblicato oggi sul Fatto Quotidiano in vista delle votazioni digitali che si ripeteranno sotto le 5 Stelle dal 5 all’8 dicembre. Votazioni chieste, anzi imposte dallo stesso Grillo per sotterrare le altre che lo hanno appena detronizzato, in un boato di plauso, da garante del movimento da lui fondato. E precipitato con Giuseppe Conte dal 30 per cento del 2018 al 9,9 di giugno scorso, ridottosi al 3,6 in Emilia Romagna assai di recente.
Parole e …musica di Marco Travaglio
Ma sotterrarle come? Con una votazione di risultato opposto, rovesciato, a favore di Grillo e contro Conte? No. Solo puntando alla mancanza del cosiddetto quorum di partecipazione alle urne: lo stesso che il medesimo Grillo definiva a suo tempo “un furto di democrazia per fottere il cittadino”.
Ce n’è abbastanza, in effetti, per capire il “vaffanculo” di Travaglio a Grillo, e anche per non sentire il “vaffanculo” di ritorno, cioè di Grillo a Travaglio. E’ musica di casa.
Una domanda semplice semplice a Maurizio Landini, Pierpaolo Bombardieri e, più in generale, ai promotori e sostenitori dello sciopero generale di ieri. O del “ritorno della piazza”, come ha titolato Il Secolo XIX. Che cosa rimarrà di più nel cosiddetto immaginario collettivo, magari di quelli che vanno ancora a votare resistendo alla tentazione astensionistica, se non la vogliamo chiamare diserzione elettorale? I disordini e le fiamme di Torino, comprese o a partire da quelle in cui sono state avvolte le foto della premier Giorgia Meloni e dei suoi ministri, o le solite bandiere rosse al vento di quella che il manifesto ancora orgogliosamente e dichiaratamente comunista ha definito “la rivolta buona”? E che il segretario generale della Cgil ha riproposto promettendo di “rovesciare l’Italia come un guanto”, variante del “calzino” evocato dai magistrati di Milano più di 30 anni fa nell’assalto alla politica, secondo loro, ridotta ad un’associazione a delinquere, ma in una piccola parte risparmiata alle manette e allo sputtanamento di quei tempi.
Dal Secolo XIX
Temo, ahimè per loro, cioè per i promotori, sostenitori, partecipi e quant’altri dello sciopero generale che rimarranno impresse nella memoria degli ancora elettori più le fiamme e i disordini di Torino che il resto. Sarà per la Meloni un altro affare. E non solo di consolazione per i problemi che le procurano i suoi due vice presidenti del Consiglio e, più in generale, gli alleati di governo bisticciando come in un cortile. O giocando a fare i “paraculetti”, come si è lasciato scappare un attore pur di seconda fila dello spettacolo di questi ultimi giorni.
Si chiede alla destra, dal suo stesso interno di recente, di rinunciare alla fiamma ereditata da Almirante e Michelini, se non direttamente da Mussolini, e la si avvolge in altro fuoco che, ad occhio e croce, potrebbe portarle, ripeto, ancora più giovamento.
Dal Corriere della Sera
Tutto sommato, sotto sotto, se n’è roso conto anche l’unico ex presidente del Consiglio del cosiddetto centrosinistra della seconda Repubblica riuscito a vincere qualche elezione, tra le foglie dell’Ulivo e le 300 pagine del programma dell’Unione, Romano Prodi. Che in una intervista al Corriere della Sera ha ricordato al Pd della “sua” Elly Schlein, emersa politicamente nel 2013 per difenderlo nella mancata elezione al Quirinale, ai suoi presunti o potenziali alleati più o meno “indipendenti”, per ripetere l’aggettivo che indossa come un abito l’ex o post-grillino Giuseppe Conte, che “non basta criticare il governo” per sopravvivere all’opposizione. Sulla strada della tanto agognata alternativa occorrono anche “proposte”, ma vere, non gli slogan che la Schlein dispensa fra piazze e convegni, interviste e discorsi.
All’opposizione, anzi alle opposizioni essendovene più d’una in Italia, va sicuramente riconosciuto il diritto di contrastare il governo e la sua maggioranza, coglierli in fallo, denunciarne errori e incidenti, sollecitarne persino la crisi, peraltro in un Paese come l’Italia. Dove, diversamente dalla Germania, si può cercare di promuovere la sfiducia in Parlamento senza l’obbligo di indicare una nuova maggioranza, solo affidandosi poi alle virtù maieutiche del volenteroso capo di Stato di turno quando non è convinto di dovere ricorrere allo scioglimento anticipato delle Camere. Cioè al loro funerale.
Giorgia Meloni
Ma c’è una misura, un limite a tutto. Anche allo spariglio nel gioco dello scopone applicato alla politica. Per quanto -ripeto- non obbligata, o non ancora pur dopo tante modifiche apportate alle Costituzione da quando è nata, a proporsi davvero in alternativa al governo rovesciandolo con uno schieramento in grado davvero di sostituirlo, l’opposizione generosamente al singolare non può sottrarsi alla decenza, largamente superata in questi giorni cavalcando quelle che la premier Giorgia Meloni ha definito “schermaglie”. Come le divisioni nella maggioranza verificatesi votando sul canone di abbonamento alla Rai. Il canone, ripeto, non il cannone.
L’opposizione, sempre generosamente al singolare, spara in Italia sul governo mentre nel Parlamento europeo, votando non su una direttiva, ma sulla nuova Commissione esecutiva di Ursula von der Leyen si è sparata addosso dividendosi fra le sue componenti e all’interno di esse.
Marco Tarquinio
Si è divisa, per carità, a Strasburgo anche la maggioranza politica italiana col voto contrario della Lega del vice presidente del Consiglio Matteo Salvini e favorevole, invece, degli eurodeputati riferibili ai partiti della Meloni e del vice presidente forzista del Consiglio Antonio Tajani. Ma nell’opposizione c’è stato di più e di peggio, con gli eurodeputati delle ancora 5 Stelle e della sinistra radicale da una parte e quelli del Pd dall’altra, salvo gli “indipendenti” Marco Tarquinio e Cecilia Strada, pur fortemente voluti a Strasburgo dalla segretaria Elly Schlein.
Tarquinio e Strada sono indipendenti, senza virgolette, nel Pd come Giuseppe Conte e amici, i “coriacei” lodati al Nazareno da Goffredo Bettini, si sono appena dichiarati solennemente, anche a costo di rompere con Beppe Grillo e di farsi definire “gesuiti”, nel “campo dei progressisti” in Italia. Cioè liberi di uscirne e rientrarvi in ogni momento e per qualsiasi ragione, fosse pure per un sopracciò visto e vissuto come un irrinunciabile elemento distintivo, identitario e simili.
Walter Veltroni
Il buon Walter Veltroni, prima di essere restituito felicemente da eventi, presunti compagni e amici di partito e quant’altro al giornalismo e alla cinofilia, riesumò per il Pd a “vocazione maggioritaria” appena fondato e affidato alla sua guida, nel 2007, il governo ombra dell’opposizione, all’inglese. Al Nazareno ora, dopo tanti passaggi di mano, c’è Elly Schlein: quella che si diverte ad arrivare, o si dichiara arrivata, sorprendendo tutti, distratti sprovvedutamente da altre figure o da altri sogni. Provo a immaginare un suo governo ombra e mi viene da ridere più di quanto non avessi sorriso a suo tempo di quello propostosi dal mio amico Walter. Che -ve lo confesso- nelle elezioni politiche del 2008, dopo la prematura fine del secondo governo di Romano Prodi, come del primo dieci anni indietro, avrei anche votato turandomi montanellianamente il naso, e qualcos’altro, se il Pd non avesse preferito apparentarsi con Antonio Di Pietro, con la sua Italia dei valori bollati, piuttosto che con Marco Pannella. Che non ho mai capito bene se più stanco o pentito di avere scommesso su Silvio Berlusconi agli esordi della cosiddetta seconda Repubblica.
Non ho avuto l’occasione di dirlo a Walter in questi 16 anni trascorsi da allora. Glielo scrivo adesso a distanza, da collega giornalista più che da elettore felicemente renitente alla leva di moda degli astensionisti, ormai partecipi del maggiore partito italiano.