L’amore bello perchè litigarello fra Salvini e Tajani, o viceversa

L’intervista del ministro degli Esteri al direttore di Libero

         Appartiene evidentemente alla serie dell’amore è bello se non è litigarello anche quello fra i vice presidenti del Consiglio Matteo Salvini e Antonio Tajani, in ordine rigorosamente alfabetico, emerso anche dalla lunga intervista concessa dal secondo al direttore di Libero Mario Sechi. Che, amico ed estimatore di entrambi, ha offerto al ministro degli esteri e segretario di Forza Italia un’occasione distensiva, diciamo così. Almeno rispetto alle cronache e retroscena di una quasi crisi di governo avvertita persino al Quirinale tra posate, piatti e bicchieri .

Tajani a Libero

         Ma che crisi d’Egitto e sua personale nei confronti di Salvini, ha detto Tajani pranzando -credo- con Sechi al Circolo Esteri che sta sulla sponda del Tevere opposta a quella dove svetta la Farnesina dopo il Foro Italico e lo Stadio Olimpico. Salvini -ha detto generosamente Tajani, difendendolo anche dagli attacchi che il collega di governo riceve per i ritardi dei treni e contorni- è “una grande risorsa per il centrodestra e fa benissimo il ministro dei Trasporti. Abbiano forse caratteri diversi. Lui è di Milano, io sono un po’ più terrone. Il centrodestra è variegato e questa è una forza”.

Sempre Tajani a Libero

         Anche sulla concorrenza elettorale fra leghisti e forzisti per conquistare o mantenere, secondo gusti e casi, il secondo posto nella graduatoria dei partiti del centrodestra, o il terzo nella graduatoria generale, si starebbe esagerando nelle analisi e cronache giornalistiche. “Io -ha spiegato Tajani- voglio recuperare gli ex elettori democristiani e socialisti che, con il Pd di Schlein che si sposta sempre più a sinistra, sono senza casa. Vorrei dare loro una dimora”. Che evidentemente non può essere quella leghista per la direzione nella quale si muove Salvini, a destra, in concorrenza più con la Meloni che con Tajani e la famiglia Berlusconi incombente, secondo cronache e retroscena, sulla Forza Italia del compianto capostipite.

Renzi al Corriere della Sera del 24 novembre

         Tutto bene, dunque? Sparecchiata la tavola o il tavolino al Circolo Esteri, il mio amico Sechi può essere tornato tranquillo alle sue fatiche direttoriali e di ospite dei salotti televisivi? E Tajani, dal canto suo, alle fatiche diplomatiche in tempi peraltro di guerre, e tregue più da sorvegliare che da godere? Chissà. Certo è che il fronte di politica interna indicato da Tajani parlando degli ex elettori democristiani e socialisti da recuperare, come aveva saputo fare nel 1994 Berlusconi vincendo a sorpresa, e a due cifre, le prime elezioni della cosiddetta seconda Repubblica, è presidiato anche da Matteo Renzi. Che non più tardi di cinque giorni fa ha detto a Maria Teresa Meli, del Corriere della Sera, che “ogni volta che Tajani apre la bocca, un ambasciatore si sente male”. Come sarebbe appena accaduto per avere Tajani detto, prima della tregua in Libano, che Herzbollah avrebbe dovuto imparare a “utilizzare meglio le armi”, sparando contro gli israeliani piuttosto che contro le postazioni delle Nazioni Unite a partecipazione italiana.

Ripreso da http://www.startmag.it

Se Matteo Renzi si decidesse a fare la sinistra della destra….

Dal Dubbio

Sono fra quelli che videro con interesse e una certa simpatia l’arrivo di Matteo Renzi al vertice del Pd e subito dopo anche del governo. La sua voglia dichiarata di modernizzare la sinistra mi ricordava Bettino Craxi. Che aveva rovesciato la politica socialista condizionata dalla paura dei comunisti ai tempi della segreteria di Francesco De Martino. E sfidato il Pci sino a fargli perdere letteralmente la bussola, guadagnandosi del bandito, e simili, nelle note che Tonino Tatò redigeva per Enrico Berlinguer alle Botteghe Oscure. Ne sarebbe derivato poi un libro.

         Per quel pochissimo, o niente che poteva contare, simile tuttavia anche a quello di Eugenio Scalfari su Repubblica, anche a costo di dividerla, votai a favore della riforma costituzionale di Renzi nel referendum che invece la sotterrò.

Bettino Craxi

         Di un solo aspetto o particolare non mi convinceva il riformismo di Renzi: l’allineamento alla demonizzazione di Craxi, cui egli dichiarò una volta -credo ripetendolo poi- di preferire nel Pantheon della sua sinistra Enrico Berlinguer. La trovavo, e la trovo tuttora, una incomprensibile mancanza di coraggio, aggravata dalle spiacevoli esperienze fatta poi anche da Renzi nei rapporti con la magistratura gonfiatasi di potere negli anni di Tangentopoli. Le sue esondazioni sono state ammesse da uomini insospettabili della sinistra comunista e post-comunista come il compianto Giorgio Napolitano, scrivendone pubblicamente alla vedova di Craxi dal Quirinale, e l’ancora felicemente vivo Luciano Violante, partecipe del dibattito politico in corso senza reticenze.

         Ho un po’ ritrovato qualche giorno fa il Renzi dell’irruzione al vertice del Pd e del governo nella sua millesima enews, a distanza di 24 anni dalla prima, arrivata come al solito nella mia posta elettronica. E ho voluto dargliene atto in un brevissimo messaggio con una domanda però impertinente, anzi provocatoria, cui mi aspettavo che non mi rispondesse. Invece mi ha riposto, chiamandomi per nome e includendo -spero non solo per cortesia- le opinioni diverse dalle sue sulle quali riflettere.

         In particolare, gli ho chiesto se non gli convenga fare la sinistra vera della destra, come viene oggi liquidata quella al governo a partecipazione composita, piuttosto che la destra di una sinistra che io ritengo “sedicente” per le posizioni che ha in diversi campi, a cominciare da quello giudiziario.

La corrispondenza con Renzi

         Trovo di buon senso quel pur rituale “Grazie, Francesco” ricevuto. E accomunato ripeto, ad altre osservazioni critiche che Renzi accetta senza inorridire. Non mi faccio tuttavia molte illusioni perché so bene da vecchio cronista e osservatore  politico quanto rimanga attuale la confusione lamentata da Alessandro Manzoni, scrivendo della peste a Milano di cinque secoli fa, fra il buon senso e il senso comune, a vantaggio non del primo ma del secondo. Il buon senso, per esempio, avvertito anche da Walter Veltroni nel 2007 assegnando una “vocazione maggioritaria” al Pd di cui aveva appena assunto la prima e breve segreteria, in un clima di confronto costruttivo col centrodestra di Silvio Berlusconi. Ma poi preferendo nell’apparentamento elettorale del 2008, confortato dai consigli di Goffredo Bettini, l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro al partito radicale dell’ancor vivo Marco Pannella, che si era offerto in alternativa.  Seguì un epilogo in due tempi: prima il rifiuto di Di Pietro di fare gruppo parlamentare unico col Pd, pur promesso prima delle elezioni, e poi la fine della segreteria Veltroni, l’anno dopo.

Pubblicato su Dubbio

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