Continua il revival berlusconiano. Appena rimpianto, sia pure come “meno pericoloso” di Giorgia Meloni, dai magistrati entrati in collisione anche col governo di centrodestra in carica, la buonanima di Silvio Berlusconi si è tolta la soddisfazione di vedersi difendere nella memoria dal tribunale amministrativo della Lombardia. Che ha bocciato l’istanza sospensiva presentata dal Comune di Milano e da altri tre del Varesotto contro l’intestazione dell’aeroporto di Malpensa all’ex presidente del Consiglio fortemente voluta dal vice presidente leghista del Consiglio e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. Voluta, peraltro, in tempi tali da avere sorpreso persino i figli di Berlusconi, infastiditi dalle polemiche seguite all’annuncio delle procedure che potranno pertanto proseguire rendendo concreto quello che è stato sinora solo un fotomontaggio dell’”Aeroporto Silvio Berlusconi”.
Dal Dubbio
La notizia, con tutto quello che accade nel mondo e anche in Italia, è minore. Finita solo su poche delle prime pagine dei giornali. Ma è pur sempre indicativa di un trend, di un clima. Rientra fra i segni della crisi di una sinistra vissuta in Italia per una trentina d’anni solo o soprattutto di antiberlusconismo, sino a perdere la propria coscienza, già compromessa col giustizialismo cavalcato nei primi anni Novanta per liberarsi di un altro avversario, Bettino Craxi, che pure non proveniva da destra essendo un socialista orgogliosamente dichiarato. Ma autonomista, non subordinato cioè ad un partito comunista che riteneva di avere l’esclusiva o comunque il primato di una sinistra al di fuori della quale potevano vivere solo dei “pidocchi”, come “il Migliore”, con la maiuscola, Palmiro Togliatti liquidava dissidenti e critici di quel campo.
Da Libero
Fu proprio la rinuncia della sinistra alla sua stessa originaria natura, che in occidente è stata riformistica, o socialdemocratica, a lasciare a Berlusconi e alla sua area politica nel 1994 e anni successivi una parte consistente di quello che era stato il campo socialista rinvigorito da Craxi dopo il rifiuto del predecessore Francesco De Martino di governare senza l’appoggio dei comunisti.
L’intestazione dell’aeroporto di Malpensa a Berlusconi significa il riconoscimento anche di questa realtà da lui rappresentata in vita e lasciata in eredità, a causa dei perduranti errori della sinistra, al centrodestra ora a trazione meloniana.
Storditi, distratti e quant’altro dai grandi numeri degli Stati Uniti, anche come popolazione ed elettori complessivi, che scompaiono sostanzialmente nei conteggi dei soli “grandi elettori” chiamati a scegliere formalmente il presidente mandandolo in gennaio alla Casa Bianca, forse non ci siamo accorti delle vere dimensioni della sconfitta dei democratici. Che quel diavolo di Massimo D’Alema, con la mania che ha per la precisione, ha rivelato “in alte parole”, cioè nel salotto televisivo di Massimo Gramellini, sulla 7, parlando appunto delle elezioni svoltesi oltre Oceano. E sorprendendo, penso, anche l’illustre e abituale ospite a distanza Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale.
Massimo D’Alema nello studio televisivo di “altre parole”
In particolare, l’ex presidente del Consiglio -l’unico ex o post comunista riuscito ad affacciarsi a Palazzo Chigi rimanendovi con due governi, ma per meno di due anni- ha cercato di ridurre il successo di Donald Trump dicendo che in fondo è riuscito a conservare l’elettorato del suo schieramento di quattro anni fa, costatogli allora una sconfitta mai accettata, tanto da sottrarsi allo scambio delle consegne col successore Joe Biden, dopo avere provocato, volente o nolente, un assalto eversivo al Campidoglio.
La sconfitta Kamala Harris
Al tempo stesso tuttavia D’Alema ha impietosamente ammesso, anzi rimproverato agli amici o compagni del Partito Democratico americano di avere perduto in quattro anni la bellezza di dieci milioni di voti. Che sono tanti in effetti, pur nella vastità dell’elettorato americano che purtroppo è difficile conoscere o trovare con una certa precisione navigando in internet, dove l’’indicazione è tutta riservata, ripeto, ai 538 “grandi elettori”, non di più, prodotti dai vari Stati per la scelta finale del titolare della Casa Bianca.
Il vincente Donald Trump
Col tempo che ha a disposizione -ha osservato sarcasticamente lui stesso nelle condizioni di rottamato in cui si trova, per me immeritatamente, nel Pd e più in generale nella sinistra- D’Alema si è proposto di studiare i dati elettorali americani per capire bene dove e come si sono spostati gli elettori verso destra. Ma così mi ha ispirato una domanda come spettatore televisivo. Mi sono chiesto se egli avrà anche il tempo e la voglia di meditare sullo spostamento pure degli elettori italiani a destra, che hanno mandato a Palazzo Chigi due anni fa Giorgia Meloni. La quale vi rimarrà per tutta la legislatura, magari confermata nel 2027 con l’elezione diretta a presidente del Consiglio, visto che l’alternativa alla quale lavora la segretaria del Pd Elly Schlein è come l’Araba Fenice. Che ci sia tutti lo dicono, ma dove nessuno lo sa, peraltro in un campo che appena mostra di potersi allargare trova il solito Giuseppe Conte, ma anche altri con lui, pronto a restringerlo, umido di veti e autoreti.
La segretaria del Pd Elly Schlein
So bene che la Schlein si è consolata, anzi inorgoglita, nella sconfitta elettorale della sinistra nelle recenti elezioni regionali in Liguria vantando i quasi cinque punti guadagnati dal Pd rispetto all’analogo voto precedente di quattro anni fa, salendo ad un 28,5 per cento rispetto al quale il MoVimento 5 Stelle presieduto da Conte, fra i pentimenti e le proteste di Beppe Grillo, è quasi un cespuglio col suo 4,5 per cento. Ma il successo del Pd della Schlein è dovuto a soli 160 mila voti in realtà pari o inferiori a quelli precedenti, gonfiati d’aria col quasi 10 per cento in meno degli elettori recatisi alle urne.
Giuseppe Conte
In realtà, quindi, la sinistra in Liguria, come in tutta Italia, è messa alquanto male, prigioniera della rottura ch’essa stessa ha consumato col suo tradizionale elettorato mangiando quello che la Schlein non ha voluto sentirsi rimproverare di recente dalla Meloni: il caviale. Cioè diventando autoreferenziale, parlando con se stessa in dimensioni sempre minori, piacendo più alle elite che alla povera gente, presente più nei centri ricchi delle città, a traffico limitato, che nelle periferie. Gliel’ha appena ricordato e rinfacciato anche una sua elettrice nota come Sabrina Ferilli parlandone al Fatto Quotidiano e mandandone in sollucchero il direttore, convinto che a sinistra, fra i cosiddetti progressisti, l’unico a salvarsi sia il suo Giuseppe Conte: l’uomo politico “più sottovalutato nel mondo”, pur essendo stato -pensate un po’, sempre secondo Marco Travaglio- il migliore presidente del Consiglio in Italia dopo Camillo Benso conte, al minuscolo, di Cavour. Ed essendosi guadagnato il raddoppio del nome -da Giuseppe a Giuseppi- oltre Oceano ai tempi della prima presidenza di Donald Trump. Che però, tutto sommato, lo aveva conosciuto più nella versione gialloverde, con Matteo Salvini vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno, che in quella giallorossa successiva, spalancantagli in Italia da un Matteo Renzi inedito. E rapidamente pentitosene.
Altro che il “breve libello” proposto dall’autrice nell’introduzione con modestia forse scaramantica. Breve, sì, se sembrano poche le 175 pagine distribuite in 11 capitoli e stampate con eleganza dalla Piemme, cioè da Mondadori, ma quello che Stefana Craxi ha scritto sul padre, Bettino, e sulla propria, prima esperienza di vita vissuta “all’ombra della storia”, raccontandosi “tra politica e affetti”, come si dice nei titoli, è un signor Libro. Che racconta come meglio mi era capitato di leggere prima, ciò che lui è stato, ha rappresentato ed è rimasto in chi lo ha apprezzato, nonostante la dannatio memoriae praticata dai suoi avversari, armati di bugie, di livore, di invidia e di sentenze giudiziarie.
Di queste ultime, peraltro, Stefania Craxi ha giustamente sottolineato l’aspetto “beffardo”: sia della prima sia delle ultime. Della prima, di condanna, in cui si diede atto al padre che “in questo processo non è risultato né che abbia sollecitato contributi al suo partito né che li abbia ricevuti a sue mani, ma questa circostanza -che forse potrebbe avere un valore da un punto di vista per così dire estetico- nulla significa ai fini delle responsabilità penali”.
Bettino Craxi alla Camera il 3 luglio 1992
Le ultime sentenze furono quelle “di condanna -ha ricordato sempre Stefania- che la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva emesso nei confronti dei processi di Craxi”, tradotte tuttavia in “risarcimenti di poche migliaia di euro”. Incredibile ma dannatamente vero, come tutto il resto che si legge nel libro della “falsa rivoluzione” condotta dalle presunte “mani pulite” della magistratura improvvisamente accortasi negli anni Novanta della vecchia, diffusa, generalizzata pratica del finanziamento irregolare dei partiti e, più generalmente, della politica. Una pratica ammessa, spiegata, raccontata dallo stesso Craxi, prima ancora di essere formalmente coinvolto nelle indagini, parlando alla Camera dei Deputati in un silenzio d’aula tanto vasto quanto imbarazzato e confermativo di una classe politica che aveva scelto “l’abdicazione” alla magistratura, offrendole come capro espiatorio un leader socialista troppo scomodo per tutti nella sua autonomia: sia per gli alleati di governo sia per gli avversari. Fra i quali, se si potesse dare l’oscar della franchezza, esplicativa di tutto quello che avvenne fra tribunali, giornali, piazze e anfratti, esso spetterebbe a Massimo D’Alema.
L’allora capo vero, al di là degli incarichi formali, della sinistra post-comunista travolta dal crollo del muro di Berlino, raccontò con le parole riprodotte da Stefania Craxi nel libro a pagina 122: “Eravamo come una grande Nazione indiana chiusa fra le montagne con una sola via di uscita, un canyon. E lì c’era Craxi, con la sua proposta di unità socialista, che aveva un indubbio vantaggio su di noi: era il capo dei socialisti in un Paese europeo occidentale. Quindi era lui che rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che poi aveva lo svantaggio di essere Craxi. L’unità socialista era una grande idea, ma senza Craxi. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il Partito socialista in Italia”, peraltro senza avere neppure il coraggio di assumerne il nome, ma riuscendo a strappare l’ammissione all’Internazionale Socialista allo stesso Craxi. Che disponeva di un veto per una operazione del genere e che evidentemente non era poi quel prepotente dell’immaginario comunista dalla trippa da vendere e consumare nelle mense alle feste dell’Unità.
Con Reagan alla Casa Bianca
In una situazione politica così impietosamente raccontata, ripeto, da D’Alema come poteva Craxi scampare alla fine raccontata dalla figlia Stefania -dopo tanti passaggi anche festosi e divertenti della sua testimonianza adolescenziale degli anni felici- con uno strazio che non può non fare venire un nodo alla gola a un lettore provvisto di un minimo senso dell’umanità? La sua eliminazione era segnata, dopo tutte le emozioni e le speranze da lui accese in una cavalcata politica semplicemente straordinaria, seguita con l’affetto e l’ammirazione di una Stefania decisa spesso anche a “imbucarsi” nella sua prima vita di “testimone”. Che cessò per essere seguita da quella politica – sfociata per ora nella presidenza della Commissione Esteri e Difesa del Senato- il giorno stesso della morte del padre, di cui ricorrerà il 19 gennaio prossimo il 25.mo anniversario. E di cui lei ha raccolto l’eredità abbandonata o tradita da troppi “arrivisti e arrembanti” degli anni dell’incipiente o maggiore potere.
Raggiunta al telefono ad Hammamet dall’allora sottosegretario di D’Alema a Palazzo Chigi Marco Minniti per essere informata dei funerali di Stato spettanti al padre, Stefania rifiutò con comprensibile e condivisibile orgoglio dopo tutte le infamie riservategli. “Fu il primo atto politico della mia seconda vita”, ha raccontato in un libro tutto da leggere, quasi d’un fiato.