Assist di Mario Monti alla Meloni in Europa dopo la vittoria di Trump

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Pur preoccupato pure lui per la difficoltà di “governare il caos trumpiano”, come ha scritto oggi Il Foglio in un titolo che comunque egli non aveva ancora potuto leggere, il senatore a vita, ex presidente del Consiglio e due volte commissario europeo Mario Monti non si è stracciato abiti o strappato capelli in una intervista che ha voluto lasciarsi fare dal Corriere della Sera dopo le elezioni americane. Piuttosto, è sembrato condividere la speranza degli ottimisti di sapere e volere trarre il bene anche da un male. O semplicemente da un pericolo che si avverte in una certa situazione o in un certo evento.

Dal Corriere della Sera

         Piuttosto che strapparsi vestiti e capelli, ripeto, come penso che abbia evitato di fare anche il suo amico Mario Draghi, pure lui ex presidente del Consiglio, incontrando la segretaria del Pd Elly Schlein  dopo la vittoria di Trump; piuttosto che strapparsi vesti e capelli, dicevo, Monti ha scommesso sulla capacità di un’Europa “forte” di confrontarsi con Trump. E, scommessa nella scommessa, ha puntato soprattutto su due donne europee: la tedesca Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, e la premier italiana Giorgia Meloni. Che non deve quindi avere procurato a Monti quella specie di orticaria forse avvertita da altri vedendola nella solita cordialità a Budapest col presidente Viktor Orban per il primo vertice europeo dopo la vittoria di Trump nella corsa alla Casa Bianca.

Monti al Corriere

         “Von der Leyen -ha detto Monti-appartiene alla più solida famiglia politica dell’Unione Europea, il partito popolare, e inizia il suo secondo mandato con un nuovo presidente del Consiglio europeo cooperativo e, credo, rispettoso dei ruoli come (il portoghese) Antonio Costa Quella che potrebbe essere una debolezza- le difficoltà di Francia e Germania- può diventare la forza di Ursula von der Leyen. Si apre un’ampia finestra in cui lei e Costa saranno determinanti”.

Monti al Corriere

         “Giorgia Meloni -ha detto Monti in un altro passaggio dell’intervista- ha capito l’Europa e i suoi problemi. E’ il leader che può spiegare meglio questa realtà  a patrioti, sovranisti e riluttanti vari. I quali possono essere molto legati al diritto nazionale di veto, soprattutto in politica estera. Ma allora è come se firmassero una dichiarazione che dice: Sì, io sono un cavallo di Troja. La presidente del Consiglio può complementare von der Leyen e deideologizzare gli argomenti di un’Europa forte”.

Monti al Corriere

         Ancora sulla premier italiana, ma entrando sottilmente in una dialettica fra la competizione e il disturbo esistente nella maggioranza di centrodestra, Monti ha detto che la “operazione” di rafforzamento dell’Europa per confrontarsi meglio con Trump e collaborare “non la può fare Matteo Salvini, la può fare Antonio Tajani ma quella meglio posizionata è Meloni”. 

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Trump vissuto, dopo la Meloni, come un fantasma dalla sinistra italiana

Da Libero

La sinistra italiana post-comunista scioccata di fronte alla vittoria elettorale che riporterà Donald Trump alla Casa Bianca a gennaio mi ricorda un po’ la sinistra ancora dichiaratamente comunista scioccata 44 anni fa dalla vittoria di Ronald Reagan. Che, per quanto fosse già stato il governatore della California dal 1967 al 1975, era rimasto nell’immaginario delle allora Botteghe Oscure l’attore improvvisatosi politico e destinato solo a procurare guai alla democrazia tout court, e non solo quella americana.

         Fu un annuncio di morte “alquanto esagerato”, come nel 1897 il famoso, leggendario scrittore americano Mark Twain, mancato nel 1910, aveva definito quello che lo aveva riguardato personalmente con troppo anticipo.

         E’ impressionante come una certa sinistra, anche se non solo italiana, sia ciclicamente incapace di capire la società e la politica degli Stati Uniti, anche dopo averne scoperto, apprezzato, adottato, secondo i gusti, il modello quando le convenne cercando di riscattarsi dalla sudditanza al comunismo sovietico per aspirare al governo in un Paese come l’Italia, occidentale anche nella classificazione concordata a Yalta fra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale.

Ronald Reagan

         Reagan non solo rafforzò la democrazia ma sconfisse il comunismo senza sparare un colpo, solo accettandone la sfida sul piano della deterrenza, cioè recuperando lo svantaggio accumulato dalla Nato in Europa quando i sovietici avevano installato nelle basi del Patto di Varsavia i missili SS20. Un’operazione di recupero, e di definitivo sfiancamento dell’Urss, che quel politico improvvisato come era stato considerato Reagan seppe realizzare col consenso dei socialdemocratici tedeschi e dei socialisti italiani, mettendo peraltro al nudo la doppiezza berlingueriana dell’ombrello della Nato utile a proteggere anche il Pci, o il cosiddetto eurocomunismo, purchè rimanesse bucato.

Elly Schlein

         La segretaria del Pd Elly Schlein, 39 anni compiuti nello scorso mese di maggio, a quei tempi non era ancora nata. E chissà se ha mai avuto e avrà la voglia di studiarli, presa com’è dalla rappresentazione contemporanea e diabolica di Trump e dalle imitazioni italiane, come mi sembra che gli sia apparso in questi giorni persino il suo compagno di partito Vincenzo De Luca, Enzo per gli amici. Che si è messo in testa di disattendere il no del Nazareno al terzo mandato di governatore della Campania: disposto a riproporsi anche contro il Pd, ora che egli ha fatto approvare una legge regionale che gli consente di farlo, sia pure con la furbizia del vincolo differito, diciamo così, dei due mandati.

         Già catalogato dalla Schlein fra i “cacicchi” di cui liberarsi, e liberare il suo partito anche per renderlo più gradito, o meno sgradito, a quel rottamatore che è diventato Giuseppe Conte in concorrenza col pur odiato, anzi odiatissimo Matteo Renzi, il governatore della Campania deve essere diventato insopportabilmente trumpiano agli occhi e alle orecchie della segretaria del Pd per il suo stile, il suo linguaggio, la sua ostinazione.

Vincenzo De Luca

         A Giuseppe Conte, in verità, il nome e l’immagine di Trump non dovrebbe dispiacere dopo quel “Giuseppi” da lui rimediato come incoraggiamento mentre cercava in Italia, peraltro riuscendovi, di restare a Palazzo Chigi cambiando in corsa le ruote della sua maggioranza. Ma in Campania, dove si voterà fra un anno per il rinnovo dell’amministrazione regionale, l’ex presidente del Consiglio ha una sua partita da giocare, anticipata dai retroscenisti con l’ipotesi di fare accettare dalla Schlein la candidatura del pentastellato ex presidente della Camera Roberto Fico a governatore. E Dio solo sa quanto bisogno avrebbe Conte di rianimare il suo partito, o quel che ne rimarrà alla fine della vicina assemblea costituente e dello scontro con Beppe Grillo, dopo averlo ridotto in Liguria al 4 e rotti per cento.

         Sì, lo so. Col Trump vero, quello americano tutto da assaggiare come si deve fare col budino per provarlo anche nella sua seconda edizione, dopo la prima prodotta dalle elezioni americane del 2016, tutto questo discorso sul Pd e sui rapporti con le 5 Stelle c’entra poco o niente. Ma c’entra col trumpisno e l’antritrumpismo, entrambi farlocchi, dell’immaginario di certa sinistra. Che non riesce a vivere senza fantasmi.

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