La corsa americana vista col binocolo della politica italiana

         Siamo tutti naturalmente in attesa di sapere, capire e quant’altro già domani sera chi e come avrà vinto la corsa alla Casa Banca fra la vice presidente uscente Kamala Harris e l’ex presidente Donald Trump. O si sarà più avvicinata ad una vittoria che sarà sicuramente controversa se non risulterà quella di Trump: si vedrà se controversa solo a parole o anche con i fatti, come quando il tycoon la mancò quattro anni fa e incitò i suoi all’assalto al Congresso.

  In pochi hanno resistito anche in Italia alla tentazione di schierarsi, vedendo tutto il bene da una parte e tutto il male dall’altra. Ne sono risultati divisi al loro interno i due schieramenti opposti del governo e delle opposizioni.

Giorgia Meloni

         Nel centrodestra il tifoso più visibile, e persino orgoglioso di Trump è il vice presidente del Consiglio e leader leghista Matteo Salvini. Il tifoso più visibile della Harris è l’altro vice presidente del Consiglio e leader forzista, nonché ministro degli Esteri Antonio Tajani. Che, se avesse avuto ancora qualche dubbio, ha dovuto farselo passare qualche giorno fa di fronte alla preferenza espressa per l’antagonista di Trump da Marina Berlusconi. Della quale il segretario di Forza Italia ha già raccolto le indicazioni sul terreno dei cosiddetti diritti civili in Italia. Giorgia Meloni si è semplicemente messa alla finestra, o alle finestre di Palazzo Chigi, non dico indifferente ma quasi all’esito della partita americana, sapendo di dovere e potere interloquire con chiunque dovesse arrivare o tornare alla Casa Bianca da presidente dopo i quattro anni di Joe Biden.

         Il centrodestra italiano, per quanto diviso, è insomma impermeabile al voto d’oltre Oceano. Le opposizioni no, non lo sono perché una parte di esse, costituita da Giuseppe Conte e dalla sinistra radicale, intende sfruttare una vittoria di Trump per tradurla nel perseguimento ulteriore di un indebolimento della tradizionale politica atlantica dell’Italia e in un allontanamento dell’Europa dagli Stati Uniti. Il tutto traducibile nell’immediato, salvo clamorose sorprese di Trump, in una chiusura della partita ucraina a favore della Russia di Putin, dopo due anni e mezzo di una guerra congegnata al Cremlino come un’operazione speciale di polizia da concludere in una quindicina di giorni. 

Conte con Trump

         Per Conte poi, scaricato ormai anche da Beppe Grillo e dai due terzi del suo elettorato, una vittoria di Trump si tradurrebbe in un tonico. Sono sin troppo note le ambizioni o illusioni personali dell’ex premier, che si consola e al tempo stesso si carica sfogliando l’album fotografico degli incontri con il già allora presidente americano quando lui era a Palazzo Chigi, passando disinvoltamente da una maggioranza all’atro, plurale come il nome Giuseppi storpiatogli dal capo della Casa Bianca.  “Tu chiamale, se vuoi, emozioni”, cantava Lucio Battisti.

Bettini cala Conte dalla cima su un ramo dell’albero della sinistra

Da Libero

Pur con l’aria di volerlo difendere dalla “lotta furibonda di troppi opinionisti” secondo lui “liberali e democratici” solo tra virgolette, cioè né liberali né democratici, ma forse “miserabbili” con la doppia b del compianto Ugo La Malfa quando parlava di quanti incorrevano nelle sue sfuriate, Goffredo Bettini si è deciso a fare scendere Giuseppe Conte dalla sommità dove lo aveva piazzato nella sua seconda esperienza di presidente del Consiglio, a maggioranza giallorossa e non più gialloverde. In particolare, dal “punto di riferimento più alto dei progressisti” in Italia, come lo definì Bettini nel 2020, purtroppo “indebolito” dai summenzionati opinionisti,  Conte è diventato “uno dei rami fondamentali dell’albero progressista” in una intervista appena concessa dallo stesso Bettini alla Stampa.

Goffredo Bettini alla Stampa

         Esperto più di cinema che altro, o filosofo autodidatta com’è scambiato da molti che ne hanno letto e persino scritto come di un maestro d’idee della sinistra, nelle sue varie edizioni di partito o di coalizione, Bettini ha un po’ esagerato come agronomo parlando di alberi. Un ramo è un ramo. Fondamentale è solo un ossimoro. Esso può seccare senza compromettere il tronco, quale il Pci prima e poi le altre edizioni seguite al crollo del comunismo si sono considerati rispetto alla sinistra.

Giuseppe Conte

         E’ un tronco, quello del Pd, che Elly Schlein pensa forse di avere rafforzato con quel 28 per cento dei voti preso in Liguria, pur perdendo le elezioni regionali per colpa di Conte ma riducendo quest’ultimo, sotto il 5 per cento, alle dimensioni di un cespuglio. Ma se lo pensa davvero, la segretaria del Pd sbaglia secondo l’impietoso Bettini. Che le ha ricordato l’esperienza di Walter Veltroni al Nazareno, dove lo stesso Bettini peraltro lo aiutò come coordinatore, cioè come principale collaboratore.

Goffredo Bettini alla Stampa

         “Veltroni- ha ammonito il suo ex braccio destro parlandone sempre alla Stampa- conquistò il 34% nel 2008 e qualche mese dopo si dovette dimettere, perché non gli diedero il tempo di allargare e rendere vincente la sua proposta politica”. Non gli diedero il tempo o se l’era negato lo stesso Veltroni nelle elezioni di quel 2008, con l’aiuto, i consigli e quant’altro -ripeto- di Bettini, rifiutando l’apparentamento con i radicali di Marco Pannella e concedendolo invece all’Italia dei valori di Antonio Di Pietro? Che ricambiò rifiutando nelle nuove Camere i gruppi unici col Pd concordati prima del voto, mettendosi o tornando quindi in proprio sulle allora solite posizioni giustizialiste destinate, esse sì, a mettere in difficoltà Veltroni. Che aveva condotto la campagna elettorale cercando di ridurre al minimo la conflittualità col centrodestra, sino a parlare di Silvio Berlusconi senza mai nominarlo, dovendo bastare e avanzare definirlo “il principale esponente del campo avverso”. Col quale egli sperava di avviare persino una fase costituente, di riforma costituzionale. Chissà se Bettini se lo ricorda. O se lo ricorda almeno Gianfranco Fini, che nel centrodestra si mise di traverso rivendicando e ottenendo dal Cavaliere la presidenza della Camera, di solito destinata in una fase costituente  all’opposizione. Occasioni mancate, che in politica difficilmente si ripresentano, come nella vita più in generale.

Alessandro Onorato

         Fra le occasioni mancate c’è ora non solo o non tanto il “campo largo” prospettato per primo da Bettini, prima che glielo riducesse Conte con veti e simili, quanto “il tavolo a tre gambe” che lo stesso Bettini ha rivendicato o proposto nell’intervista alla Stampa indicandole nel Pd, nelle 5 Stelle e in un centro tutto da costruire, sulla falsariga della scomparsa Margherita di Francesco Rutelli. Ma la gamba di Conte è stata fratturata, a dir poco, da Grillo. E quella di centro neppure Bettini sa dove applicarla come una protesi: se a Rutelli che non ne vuole sapere, al sindaco di Milano Beppe Sala, che si è offerto, o all’ultima scoperta dello stesso Bettini. Che sembra essere il giovane assessore capitolino Alessandro Onorato, “capo della lista civica- ha detto Bettini come per vantarne il curriculum politico- che ha contribuito alla vittoria di Gualtieri” nelle ultime elezioni comunali a Roma. Con tutto ciò che ne è seguito nella Capitale, forse all’insaputa di Bettini. Che domani, 5 novembre, festeggerà comunque i suoi 72 anni compiuti. Auguri, naturalmente.

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