Poche righe -ci provo davanti ai due fotomontati insieme dal Tempo– per segnalarvi il “vaffanculo!”, compreso l’esclamativo, di Marco Travaglio a Beppe Grillo nell’editoriale di commiato, diciamo così, pubblicato oggi sul Fatto Quotidiano in vista delle votazioni digitali che si ripeteranno sotto le 5 Stelle dal 5 all’8 dicembre. Votazioni chieste, anzi imposte dallo stesso Grillo per sotterrare le altre che lo hanno appena detronizzato, in un boato di plauso, da garante del movimento da lui fondato. E precipitato con Giuseppe Conte dal 30 per cento del 2018 al 9,9 di giugno scorso, ridottosi al 3,6 in Emilia Romagna assai di recente.
Parole e …musica di Marco Travaglio
Ma sotterrarle come? Con una votazione di risultato opposto, rovesciato, a favore di Grillo e contro Conte? No. Solo puntando alla mancanza del cosiddetto quorum di partecipazione alle urne: lo stesso che il medesimo Grillo definiva a suo tempo “un furto di democrazia per fottere il cittadino”.
Ce n’è abbastanza, in effetti, per capire il “vaffanculo” di Travaglio a Grillo, e anche per non sentire il “vaffanculo” di ritorno, cioè di Grillo a Travaglio. E’ musica di casa.
Una domanda semplice semplice a Maurizio Landini, Pierpaolo Bombardieri e, più in generale, ai promotori e sostenitori dello sciopero generale di ieri. O del “ritorno della piazza”, come ha titolato Il Secolo XIX. Che cosa rimarrà di più nel cosiddetto immaginario collettivo, magari di quelli che vanno ancora a votare resistendo alla tentazione astensionistica, se non la vogliamo chiamare diserzione elettorale? I disordini e le fiamme di Torino, comprese o a partire da quelle in cui sono state avvolte le foto della premier Giorgia Meloni e dei suoi ministri, o le solite bandiere rosse al vento di quella che il manifesto ancora orgogliosamente e dichiaratamente comunista ha definito “la rivolta buona”? E che il segretario generale della Cgil ha riproposto promettendo di “rovesciare l’Italia come un guanto”, variante del “calzino” evocato dai magistrati di Milano più di 30 anni fa nell’assalto alla politica, secondo loro, ridotta ad un’associazione a delinquere, ma in una piccola parte risparmiata alle manette e allo sputtanamento di quei tempi.
Dal Secolo XIX
Temo, ahimè per loro, cioè per i promotori, sostenitori, partecipi e quant’altri dello sciopero generale che rimarranno impresse nella memoria degli ancora elettori più le fiamme e i disordini di Torino che il resto. Sarà per la Meloni un altro affare. E non solo di consolazione per i problemi che le procurano i suoi due vice presidenti del Consiglio e, più in generale, gli alleati di governo bisticciando come in un cortile. O giocando a fare i “paraculetti”, come si è lasciato scappare un attore pur di seconda fila dello spettacolo di questi ultimi giorni.
Si chiede alla destra, dal suo stesso interno di recente, di rinunciare alla fiamma ereditata da Almirante e Michelini, se non direttamente da Mussolini, e la si avvolge in altro fuoco che, ad occhio e croce, potrebbe portarle, ripeto, ancora più giovamento.
Dal Corriere della Sera
Tutto sommato, sotto sotto, se n’è roso conto anche l’unico ex presidente del Consiglio del cosiddetto centrosinistra della seconda Repubblica riuscito a vincere qualche elezione, tra le foglie dell’Ulivo e le 300 pagine del programma dell’Unione, Romano Prodi. Che in una intervista al Corriere della Sera ha ricordato al Pd della “sua” Elly Schlein, emersa politicamente nel 2013 per difenderlo nella mancata elezione al Quirinale, ai suoi presunti o potenziali alleati più o meno “indipendenti”, per ripetere l’aggettivo che indossa come un abito l’ex o post-grillino Giuseppe Conte, che “non basta criticare il governo” per sopravvivere all’opposizione. Sulla strada della tanto agognata alternativa occorrono anche “proposte”, ma vere, non gli slogan che la Schlein dispensa fra piazze e convegni, interviste e discorsi.
All’opposizione, anzi alle opposizioni essendovene più d’una in Italia, va sicuramente riconosciuto il diritto di contrastare il governo e la sua maggioranza, coglierli in fallo, denunciarne errori e incidenti, sollecitarne persino la crisi, peraltro in un Paese come l’Italia. Dove, diversamente dalla Germania, si può cercare di promuovere la sfiducia in Parlamento senza l’obbligo di indicare una nuova maggioranza, solo affidandosi poi alle virtù maieutiche del volenteroso capo di Stato di turno quando non è convinto di dovere ricorrere allo scioglimento anticipato delle Camere. Cioè al loro funerale.
Giorgia Meloni
Ma c’è una misura, un limite a tutto. Anche allo spariglio nel gioco dello scopone applicato alla politica. Per quanto -ripeto- non obbligata, o non ancora pur dopo tante modifiche apportate alle Costituzione da quando è nata, a proporsi davvero in alternativa al governo rovesciandolo con uno schieramento in grado davvero di sostituirlo, l’opposizione generosamente al singolare non può sottrarsi alla decenza, largamente superata in questi giorni cavalcando quelle che la premier Giorgia Meloni ha definito “schermaglie”. Come le divisioni nella maggioranza verificatesi votando sul canone di abbonamento alla Rai. Il canone, ripeto, non il cannone.
L’opposizione, sempre generosamente al singolare, spara in Italia sul governo mentre nel Parlamento europeo, votando non su una direttiva, ma sulla nuova Commissione esecutiva di Ursula von der Leyen si è sparata addosso dividendosi fra le sue componenti e all’interno di esse.
Marco Tarquinio
Si è divisa, per carità, a Strasburgo anche la maggioranza politica italiana col voto contrario della Lega del vice presidente del Consiglio Matteo Salvini e favorevole, invece, degli eurodeputati riferibili ai partiti della Meloni e del vice presidente forzista del Consiglio Antonio Tajani. Ma nell’opposizione c’è stato di più e di peggio, con gli eurodeputati delle ancora 5 Stelle e della sinistra radicale da una parte e quelli del Pd dall’altra, salvo gli “indipendenti” Marco Tarquinio e Cecilia Strada, pur fortemente voluti a Strasburgo dalla segretaria Elly Schlein.
Tarquinio e Strada sono indipendenti, senza virgolette, nel Pd come Giuseppe Conte e amici, i “coriacei” lodati al Nazareno da Goffredo Bettini, si sono appena dichiarati solennemente, anche a costo di rompere con Beppe Grillo e di farsi definire “gesuiti”, nel “campo dei progressisti” in Italia. Cioè liberi di uscirne e rientrarvi in ogni momento e per qualsiasi ragione, fosse pure per un sopracciò visto e vissuto come un irrinunciabile elemento distintivo, identitario e simili.
Walter Veltroni
Il buon Walter Veltroni, prima di essere restituito felicemente da eventi, presunti compagni e amici di partito e quant’altro al giornalismo e alla cinofilia, riesumò per il Pd a “vocazione maggioritaria” appena fondato e affidato alla sua guida, nel 2007, il governo ombra dell’opposizione, all’inglese. Al Nazareno ora, dopo tanti passaggi di mano, c’è Elly Schlein: quella che si diverte ad arrivare, o si dichiara arrivata, sorprendendo tutti, distratti sprovvedutamente da altre figure o da altri sogni. Provo a immaginare un suo governo ombra e mi viene da ridere più di quanto non avessi sorriso a suo tempo di quello propostosi dal mio amico Walter. Che -ve lo confesso- nelle elezioni politiche del 2008, dopo la prematura fine del secondo governo di Romano Prodi, come del primo dieci anni indietro, avrei anche votato turandomi montanellianamente il naso, e qualcos’altro, se il Pd non avesse preferito apparentarsi con Antonio Di Pietro, con la sua Italia dei valori bollati, piuttosto che con Marco Pannella. Che non ho mai capito bene se più stanco o pentito di avere scommesso su Silvio Berlusconi agli esordi della cosiddetta seconda Repubblica.
Non ho avuto l’occasione di dirlo a Walter in questi 16 anni trascorsi da allora. Glielo scrivo adesso a distanza, da collega giornalista più che da elettore felicemente renitente alla leva di moda degli astensionisti, ormai partecipi del maggiore partito italiano.
L’intervista del ministro degli Esteri al direttore di Libero
Appartiene evidentemente alla serie dell’amore è bello se non è litigarello anche quello fra i vice presidenti del Consiglio Matteo Salvini e Antonio Tajani, in ordine rigorosamente alfabetico, emerso anche dalla lunga intervista concessa dal secondo al direttore di Libero Mario Sechi. Che, amico ed estimatore di entrambi, ha offerto al ministro degli esteri e segretario di Forza Italia un’occasione distensiva, diciamo così. Almeno rispetto alle cronache e retroscena di una quasi crisi di governoavvertita persino al Quirinale tra posate, piatti e bicchieri .
Tajani a Libero
Ma che crisi d’Egitto e sua personale nei confronti di Salvini, ha detto Tajani pranzando -credo- con Sechi al Circolo Esteri che sta sulla sponda del Tevere opposta a quella dove svetta la Farnesina dopo il Foro Italico e lo Stadio Olimpico. Salvini -ha detto generosamente Tajani, difendendolo anche dagli attacchi che il collega di governo riceve per i ritardi dei treni e contorni- è “una grande risorsa per il centrodestra e fa benissimo il ministro dei Trasporti. Abbiano forse caratteri diversi. Lui è di Milano, io sono un po’ più terrone. Il centrodestra è variegato e questa è una forza”.
Sempre Tajani a Libero
Anche sulla concorrenza elettorale fra leghisti e forzisti per conquistare o mantenere, secondo gusti e casi, il secondo posto nella graduatoria dei partiti del centrodestra, o il terzo nella graduatoria generale, si starebbe esagerando nelle analisi e cronache giornalistiche. “Io -ha spiegato Tajani- voglio recuperare gli ex elettori democristiani e socialisti che, con il Pd di Schlein che si sposta sempre più a sinistra, sono senza casa. Vorrei dare loro una dimora”. Che evidentemente non può essere quella leghista per la direzione nella quale si muove Salvini, a destra, in concorrenza più con la Meloni che con Tajani e la famiglia Berlusconi incombente, secondo cronache e retroscena, sulla Forza Italia del compianto capostipite.
Renzi al Corriere della Sera del 24 novembre
Tutto bene, dunque? Sparecchiata la tavola o il tavolino al Circolo Esteri, il mio amico Sechi può essere tornato tranquillo alle sue fatiche direttoriali e di ospite dei salotti televisivi? E Tajani, dal canto suo, alle fatiche diplomatiche in tempi peraltro di guerre, e tregue più da sorvegliare che da godere? Chissà. Certo è che il fronte di politica interna indicato da Tajani parlando degli ex elettori democristiani e socialisti da recuperare, come aveva saputo fare nel 1994 Berlusconi vincendo a sorpresa, e a due cifre, le prime elezioni della cosiddetta seconda Repubblica, è presidiato anche da Matteo Renzi. Che non più tardi di cinque giorni fa ha detto a Maria Teresa Meli, del Corriere della Sera, che “ogni volta che Tajani apre la bocca, un ambasciatore si sente male”. Come sarebbe appena accadutoper avere Tajani detto, prima della tregua in Libano, che Herzbollah avrebbe dovuto imparare a “utilizzare meglio le armi”, sparando contro gli israeliani piuttosto che contro le postazioni delle Nazioni Unite a partecipazione italiana.
Sono fra quelli che videro con interesse e una certa simpatia l’arrivo di Matteo Renzi al vertice del Pd e subito dopo anche del governo. La sua voglia dichiarata di modernizzare la sinistra mi ricordava Bettino Craxi. Che aveva rovesciato la politica socialista condizionata dalla paura dei comunisti ai tempi della segreteria di Francesco De Martino. E sfidato il Pci sino a fargli perdere letteralmente la bussola, guadagnandosi del bandito, e simili, nelle note che Tonino Tatò redigeva per Enrico Berlinguer alle Botteghe Oscure. Ne sarebbe derivato poi un libro.
Per quel pochissimo, o niente che poteva contare, simile tuttavia anche a quello di Eugenio Scalfari su Repubblica, anche a costo di dividerla, votai a favore della riforma costituzionale di Renzi nel referendum che invece la sotterrò.
Bettino Craxi
Di un solo aspetto o particolare non mi convinceva il riformismo di Renzi: l’allineamento alla demonizzazione di Craxi, cui egli dichiarò una volta -credo ripetendolo poi- di preferire nel Pantheon della sua sinistra Enrico Berlinguer. La trovavo, e la trovo tuttora, una incomprensibile mancanza di coraggio, aggravata dalle spiacevoli esperienze fatta poi anche da Renzi nei rapporti con la magistratura gonfiatasi di potere negli anni di Tangentopoli. Le sue esondazioni sono state ammesse da uomini insospettabili della sinistra comunista e post-comunista come il compianto Giorgio Napolitano, scrivendone pubblicamente alla vedova di Craxi dal Quirinale, e l’ancora felicemente vivo Luciano Violante, partecipe del dibattito politico in corso senza reticenze.
Ho un po’ ritrovato qualche giorno fa il Renzi dell’irruzione al vertice del Pd e del governo nella sua millesima enews, a distanza di 24 anni dalla prima, arrivata come al solito nella mia posta elettronica. E ho voluto dargliene atto in un brevissimo messaggio con una domanda però impertinente, anzi provocatoria, cui mi aspettavo che non mi rispondesse. Invece mi ha riposto, chiamandomi per nome e includendo -spero non solo per cortesia- le opinioni diverse dalle sue sulle quali riflettere.
In particolare, gli ho chiesto se non gli convenga fare la sinistra vera della destra, come viene oggi liquidata quella al governo a partecipazione composita, piuttosto che la destra di una sinistra che io ritengo “sedicente” per le posizioni che ha in diversi campi, a cominciare da quello giudiziario.
La corrispondenza con Renzi
Trovo di buon senso quel pur rituale “Grazie, Francesco” ricevuto. E accomunato ripeto, ad altre osservazioni critiche che Renzi accetta senza inorridire. Non mi faccio tuttavia molte illusioni perché so bene da vecchio cronista e osservatore politico quanto rimanga attuale la confusione lamentata da Alessandro Manzoni, scrivendo della peste a Milano di cinque secoli fa, fra il buon senso e il senso comune, a vantaggio non del primo ma del secondo. Il buon senso, per esempio, avvertito anche da Walter Veltroni nel 2007 assegnando una “vocazione maggioritaria” al Pd di cui aveva appena assunto la prima e breve segreteria, in un clima di confronto costruttivo col centrodestra di Silvio Berlusconi. Ma poi preferendo nell’apparentamento elettorale del 2008, confortato dai consigli di Goffredo Bettini, l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro al partito radicale dell’ancor vivo Marco Pannella, che si era offerto in alternativa. Seguì un epilogo in due tempi: prima il rifiuto di Di Pietro di fare gruppo parlamentare unico col Pd, pur promesso prima delle elezioni, e poi la fine della segreteria Veltroni, l’anno dopo.
Ursula Gertrude Albrecht, più nota col cognome del marito von der Leyen, 66 anni compiuti in ottobre, 7 figli, più volte ministra, anche della Difesa, nei governi della ex inossidabile Angela Merkel, no. Non ha fatto alcuna dieta perché ha di suo un fisico che non la richiede. Ma la sua seconda commissione esecutiva dell’Unione Europea, tra Bruxelles e Strasburgo, una dieta ha dovuto farla. I 407 voti ottenuti dalla presidente a luglio nell’Europarlamento, dopo la sua designazione da parte del Consiglio Europeo all’indomani delle elezioni continentali, sono scesi ieri a 370 nella votazione sulla commissione, contro 282 no e 36 astensioni. “Parte con il peggior voto di sempre”, ha titolato il pur solitamente compassato e confindustriale Il Sole-24 Ore precisando la consistenza del 54 per cento.
La maggioranza parlamentare si è allargata ai conservatori, particolarmente a quelli italiani del partito della premier Giorgia Meloni, buona amica ormai di Ursula, ma i numeri si sono ristretti per i casini -se vogliamo deciderci a sdoganare anche questa parola- scoppiati a destra ma soprattutto a sinistra. Dove i conservatori fanno paura e vengono scambiati per fascisti. Se l’è sentito dare nell’audizione d’esame parlamentare anche il commissario italiano e uno dei vice presidenti esecutivi Raffaele Fitto. Che ha reagito nel più democristiano dei modi, fedele alla sua provenienza familiare, culturale e politica: unendo le mani, poi allargando le braccia e infine chiedendo, incredulo, a chi l’aveva apostrofato se davvero lo considerasse un fascista.
Raffaele Fitto
A dispetto dei numeri, come accade frequentemente in politica, la somma non fa il totale. Come non è detto che a dimagrire si stia peggio. A volte è esattamente il contrario. Le maggioranze di governo, come le minoranze di opposizione, possono ridursi di numeri e guadagnare in chiarezza, solidità e prospettiva. Credo che sia anche o soprattutto il caso della seconda commissione di Ursula von der Leyen in una Europa in congiuntura per niente ordinaria. Nella cui area intesa in senso lato si combatte una guerra come quella nell’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin più di due anni fa e se ne teme un’altra senza cannoni, missili, bombe, droni e altre diavolerie sanguinose, anzi sanguinarie, ma fatta di dazi annunciati o minacciati paradossalmente, a dir poco, dal principale alleato quale dovrebbero essere considerati gli Stati Uniti d’America. Si spera anche dopo il ritorno fisico di Donald Trump alla Casa Bianca, fra meno di due mesi.
La seconda Commissione europea di Ursula von Der Leyen al completo
I tanto odiati e temuti conservatori, a sinistra, potrebbero rivelarsi utili, diciamo anche preziosi all’Europa in questo curioso assalto da cui è minacciata ad opera di un presidente americano che pure appartiene alla famiglia mondiale dei conservatori.
Chi si sta strappando le vesti e altro ancora è pregato di contenersi, come diceva la buonanima di Silvio Berlusconi ai conduttori televisivi del cosiddetto servizio pubblico più incontinenti, appunto, nei suoi riguardi.
Tregua dunque in Libano. Forse a anche a Milano, nella periferia di Corvetto messa a fuoco come se fosse una banlieu parigina. Ma non sotto le 5 Stelle, con le maiuscole anagrafiche dell’omonimo movimento politico, contese tra il fondatore superstite Beppe Grillo e il presidente Giuseppe Conte, deciso ad esserlo anche di fatto e non solo di nome.
Giuseppe Conte ai cinque minuti di Bruno Vespa
Con la cravatta tornata al suo posto, come ai primi tempi della eleganza da cattedra universitaria, studio legale e Palazzo Chigi, nella successione di una carriera davvero imprevista, Conte ha deciso e annunciato di accettare e rilanciare la sfida lanciatagli da Grillo richiamando alle urne digitali i quasi 90 mila iscritti residui al movimento, dai 160 mila che erano ancora a giugno. Essi dovranno ribadire il no dei giorni scorsi alla figura del garante, annessi e connessi, rischiando questa volta di non raggiungere il cosiddetto quorum, cioè la partecipazione della maggioranza più uno degli aventi diritto al voto, perché a farlo mancare basterebbero i circa 15 mila che nell’altra votazione hanno votato a favore di Grillo. Il quale ora li vorrebbe assenti appunto per vanificare il voto, sconfiggere Conte e costringerlo alle dimissioni.
Il secondo turno elettorale, chiamiamolo così, fissato dal 5 all’8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione, è stato preteso da Grillo anche con la garanzia di una commissione di “osservatori”, per fortuna -almeno sino al momento in cui scrivo- solo nazionali e non ancora internazionali. Come si fa nei paesi dove si ritiene compromessa la democrazia e si cerca quindi di presidiare al meglio quello che ne resta.
Dal Corriere della Sera
Nel clima di guerra sotto le stelle si esercitano nel racconto, nel commento e nell’analisi anche giornalisti e storici adusi ad occuparsi di guerre ridondanti di fiamme, morti e feriti. Come il mio amico Paolo Mieli, che oggi ha dedicato il suo editoriale sul Corriere della Sera non al Medio Oriente, non all’Ucraina ma appunto a Grillo e a Conte impegnati nell’”ultima partita” del sinora unico loro movimento. Che è assai ridotto di voti, a livello nazionale e locale, ma non di liti interne e confusione anagrafica. Come quella di un “progressismo indipendente” dalla sinistra, dove pure esso è generalmente classificato.
dal blog di Beppe Grillo
Dei due, Conte è quello che parla di più, disposto a raggiungere tutti i salotti televisivi, e non, che lo invitano. Grillo invece emette le sue fatwa e si sottrae ad ogni intervista. O, peggio, pur nella comprensione che si deve ai genovesi notoriamente sensibili al guadagno, reclama di essere retribuito anche nel gioco delle domande e delle risposte, come nelle prestazioni da consulente della comunicazione nel movimento. Le tariffe delle interviste, doverosamente “scritte”, sono affisse, diciamo così, nello stesso blog dell’elevato: 2000 euro a domanda per un minimo di cinque, quante sono le stelle del firmamento del comico prestatosi forse per troppo tempo, e non senza danni, alla politica italiana.
Oltre all’ira di Giuseppe Conte, che ha parlato di “sabotaggio” senza però poterlo impedire, Beppe Grillo con la richiesta consentitagli dallo statuto delle 5 Stelle ancora in vigore di ripetere le votazioni che lo hanno detronizzato ha scatenato la fantasia dei titolisti e dei vignettisti. Il più brillante dei quali mi è sembrato Stefano Rolli, che sulla prima pagina del Secolo XIX ha paragonato il bis digitale reclamato dal garante sostanzialmente deposto a quello che nessuno più gli chiede ormai come comico negli spettacoli. Compreso, direi, quello più autobiografico da lui stesso intitolato “Io sono il peggiore”.
Dal Fatto Quotidiano
Il “Vaffa-bis”, come lo ha chiamato l’insospettabile Fatto Quotidiano inseguendolo sulla strada della comicità e del sarcasmo, temo che non faccia di Beppe Grillo il “garante vietcong” su cui ha scherzato generosamente anche Il Foglio dopo gli applausi di Giuliano Ferrara agli iscritti che hanno votato contro di lui nel quasi congresso digitale del movimento appena concluso. Ma più semplicemente e per lui drammaticamente anche un comico ormai esaurito, spento, tramontato e quant’altro. Un comico che ormai non fa ridere neppure lo spettatore più ingenuo o sprovveduto o, all’opposto, cinico. Anche fra quelli che ancora aprono e consultano il blog personale di Grillo e si vedono riproporre cose come quella forse sfuggita più di due anni fa, esattamente il 20 aprile 2022, quando fu lanciata in rete la prima volta.
Dal blog di Beppe Grillo
“Il Re dei ratti” è il titolo di quella originale e originaria ricerca proposta da Grillo sopra una foto orribile, su sfondo rosso, di topi con le loro code intrecciate, scrivendo dei tanti modi che esistono, o possono esistere, per resistere “in apnea”. Dove -con la richiesta di ripetere votazioni sospettate di irregolarità, a parte il gusto riconosciutogli o concessogli dallo statuto di avanzarla e ottenerla- penso che Grillo si trovi ormai senza maschera e respiratore nel movimento che fondò nel 2006 con Gianroberto Casaleggio. Alla cui morte lui pensò di esserne rimasto l’unico ed eterno proprietario. Un movimento ormai liquido, appunto, che Giuseppe Conte rischia peraltro di fare diventare ora gassoso collocandosi coriacemente -come gli riconosce il piddino Goffredo Bettini- nel campo dei progressisti ma “indipendente”. Cioè distinto e distante dalla sinistra, direbbe il compianto Francesco Cossiga ripetendo la formulazione che diede della sua stessa posizione rispetto alla coalizione dell’Ulivo quando da presidente emerito della Repubblica promosse la formazione della maggioranza del primo dei due brevi governi di Massimo D’Alema, nel lontano 1998.
Dall’Unità
Un esperto e ancora orgogliosamente partecipe della sinistra come il mio amico Piero Sansonetti, pur in dissenso dal giustizialismo dei compagni del suo ex Pci, ha così titolato oggi sulla sua rinata Unità la posizione politica del presidente delle 5 Stelle: “Non sono di sinistra”. Vince il progressismo (qualunquista) di Conte”. Quasi un epitaffio, sia pure politico.
Anche nella sconfitta politica e umana inflittagli dal quasi congresso digitale del MoVimento 5 Stelle, che lo ha detronizzato da garante, elevato e quant’altro, e contestato il limite per lui irrinunciabile dei due mandati per gli aspiranti alle elezioni, Beppe Grillo non ha voluto rinunciare al suo ruolo di comico, del resto professionale. E ha finito per superare se stesso con un intreccio, a dir poco, di paradossi che forse gli avrebbe risparmiato Gianroberto Casaleggio se fosse ancora vivo.
In particolare, Grillo ha riesumato nella sua polemica con Giuseppe Conte e seguaci la figura negativa del gesuita contrapponendola a quella positiva del francescano: tanto astuto, attaccato al potere, falso il primo quanto generoso e aperto l’altro, sino a sconfinare nella ingenuità.
Eppure è felicemente regnante un Papa eccezionalmente gesuita che ha voluto assumere, sul trono di Pietro, il nome di Francesco: il primo nella storia della Chiesa, anche dopo la morte e la santificazione del frate di Assisi. Ci sarà rimasto male il povero Papa, con tutti i guai peraltro che ha, a vedersi trattato sia pure metaforicamente, o cripticamente, come si dice di solito delle sortite di Grillo, in un modo così irrispettoso, a dir poco, dal garante pur residuo di un movimento politico italiano.
Il Conte “gesuita” strapazzato da Grillo insieme con tutti quelli che lo hanno preferito e preferiscono a lui è lo stesso noto per la sua devozione al francescanissimo e santo Padre Pio, nonché nipote di un frate francescano, se non ricordo male, con i gradi. Al cui affetto e ai cui consigli ricorse il professore e avvocato pugliese quando gli capitò di diventare presidente del Consiglio. Il che avvenne fra la sorpresa dello stesso Grillo al massimo del suo potere, lasciatosi convincere al sì dalla più paradossale delle ragioni da lui stesso raccontata: non riusciva a comprendere discorsi e ragionamenti di Conte, trovandoli perciò adattissimi alla politica, pure sotto le stelle.
Persino il Papa, il più autorevole e famoso gesuita vivente, è finito in qualche modo coinvolto nello scontro con Giuseppe Conte costato a Beppe Grillo la cancellazione, il licenziamento ed altro, secondo i titoli dei giornali, da garante. La cui figura non sopravviverà né a vita, come aveva voluto aggiudicarsela il fondatore del MoVimento 5 Stelle, né a termine. All’annuncio del risultato di questa votazione digitale fra gli iscritti si è levato dall’assemblea costituente non un applauso ma un boato. Non ne è rimasto infastidito l’ex presidente del Consiglio, ma l’ex presidente della Camera Roberto Fico sì, sino a biasimarlo pubblicamente, come per prendere le distanze dal clima in cui si è consumato il parricidio, come molti avevano già definito nelle scorse settimane il declassamento programmato del fondatore.
Papa Francesco, Bergoglio all’anagrafe
Che c’entra il Papa? mi chiederete. Ce l’ha fatto entrare metaforicamente proprio Grillo reagendo a distanza alla sua sconfitta con la contrapposizione, in suo messaggio elettronico, tra i “francescani” da lui onorati facendo nascere il movimento un 4 ottobre, festa appunto di San Francesco d’Assisi, e i “gesuiti” che sarebbero quelli riconosciutisi di più in Conte. Che pure è notoriamente nipote di un frate francescano e devoto del francescano più famoso e venerato dopo San Francesco, che è Padre Pio.
Giuseppe Conte all’assemblea Nova delle 5 Stelle
Lo stesso Papa Bergoglio, il gesuita massimo, ha voluto peraltro chiamarsi Francesco salendo sul trono di Pietro. E come francescano d’adozione si potrebbe sentire a disagio in compagnia pur virtuale degli esagitati di un movimento politico. Per quanto il gesuita d’adozione Conte gli abbia assegnato il compito di “cambiare la società” francescanamente, diciamo così, anche a costo di “sporcarsi le mani” -ha detto- alleandosi con partiti a dir poco difficili, se non indigesti, come il Pd di Elly Schlein. Dal quale il presidente delle 5 Stelle ha voluto distinguersi definendo “indipendenti”, come aveva consigliato Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, “i progressisti” nel cui campo ha voluto collocarsi da “coriaceo”. Così gli ha riconosciuto dall’interno proprio del Pd Goffredo Bettini: il grande suggeritore e orgoglioso “funzionario di partito”, alla voce “professione” delle sue schede biografiche.
Il parricidio nel fotomontaggio del Fatto Quotidiano
Fu proprio Bettini nel 2020, con l’allora segretario del Nazareno Nicola Zingaretti, a promuovere l’ancora presidente del Consiglio Conte al “punto di riferimento più alto dei progressisti”, non potendone prevedere il punto più basso nel quale il MoVimento 5 Stelle sarebbe caduto elettoralmente solo quattro anni dopo: 9,9 per cento dei voti nelle elezioni europee del giugno scorso e 3,6 una settimana fa nelle elezioni regionali di Emilia-Romagna. Dove il Pd è salito al 43 per cento riducendo – volente o nolente- a cespugli, tra le loro preoccupazioni, i pentastellati pur non gravati più dal limite grillinissimo dei due mandati elettivi, anch’esso caduto nelle urne costituenti.