Scholz si salva in Brandeburgo tenendosi lontano dalla campagna elettorale

I risultati delle elezioni in Brandeburgo

         “Riscatto” forse è una parola esagerata, pur usata dopo i primi exit poll nei riguardi del cancelliere tedesco Olaf Scholz. Il cui partito socialdemocratico dopo i cattivi risultati delle elezioni europee di giugno e delle successive regionali in Sassonia e Turingia è riuscito a conservare il primato nel Brandeburgo con più del 30 per cento dei voti. Resistenza, ha titolato il Corriere della Sera.

Dal Corriere della Sera

         L’estrema destra alternativa Afd è rimasta indietro di poco più di un punto, pur avendone guadagnati 6 rispetto alle elezioni precedenti. Ne ha guadagnati quasi 5 anche il partito socialdemocratico, mentre hanno perduto quasi 4 punti i democristiani della Cdu, scesi al 12 per cento, e si sono più che dimezzati verdi, scesi sotto il 5 per cento.

Da Repubblica

         A rovesciare gli ultimi sondaggi, che davano l’estrema destra in vantaggio, sia pure di poco, è stata la maggiore affluenza alle urne, salita di 12 punti rispetto al 61 per cento delle analoghe elezioni di cinque anni fa.  È stato evidentemente avvertito il carattere politicamente e mediaticamente decisivo di questo passaggio elettorale per il cancelliere, a rischio di sostituzione col più popolare, o meno impopolare, ministro della Difesa Boris Pistorius prima ancora delle elezioni generali e ordinarie dell’anno prossimo in Germania.

Il governatore Dietmar Woidke al voto

         Più che di un riscatto, si può forse parlare per Scholz, tenuto peraltro lontano dalla campagna elettorale dal governatore in carica da 11 anni, Dietmar Woidke, di un salvataggio per il rotto della cuffia. O per “un soffio”, come ha titolato Repubblica. La posizione sua personale e del partito socialdemocratico tedesco resta critica  -o “debole”, secondo La Stampa- per la forte avanzata di una destra che, diversamente da quella italiana conservatrice -guidata dalla premier Giorgia Meloni, per quanto accusata dalle opposizioni di non avere saputo o voluto rompere con le origini fasciste della fiamma ancora presente nel suo simbolo- è di un estremismo dichiarato e compiaciuto, nostalgica del nazismo.

Dalla Stampa

         Della crescita di questa estrema destra tedesca non si può tuttavia considerare responsabile solo il partito del cancelliere. Incapace di prevederne e prevenirne la crescita è stata anche la Dc tedesca, contrariamente a quanto seppe fare la Dc italiana ai suoi tempi, certamente diversi -assai diversi- da quelli di oggi in Germania e, più in generale in Europa. Una Germania la cui riunificazione non le ha risparmiato la rinascita e l’espansione di una destra, peraltro nella parte soprattutto orientale del Paese reduce dall’esperienza comunista.

Il piatto tiepido della vendetta servito da Sangiuliano alla Boccia

Dal Corriere della Sera

         Non so se più freddo, come da vecchia prescrizione proverbiale, o più tiepido, non essendo la sua vicenda chiusa, almeno sul piano giudiziario dopo le dimissioni presentate da ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano ha servito il suo piatto della vendetta a Maria Rosaria Boccia col materiale, diciamo così, allegato all’’esposto alla Procura della Repubblica di Roma. Un esposto che ha peraltro smentito i retroscena secondo i quali l’ex ministro avrebbe prima ritardato e poi rinunciato alla sua iniziativa per paura di esserne ulteriormente danneggiato per i possibili intrecci fra i suoi sviluppi e la legittima aspirazione che egli ha a riprendere davvero l’attività giornalistica alla Rai. E non solo lo stipendio, il telefonino e l’ufficio che gli sono stati assegnati dall’azienda pubblica radiotelevisiva al termine dell’aspettativa presasi due anni fa con la nomina a ministro.

         Fra il materiale, ripeto, di supporto all’esposto contro la mancata consigliera, nella cui abitazione la Procura ha già eseguito perquisizione e sequestri, ci sono i messaggini telefonici che smentiscono l’umiliazione inferta a Sangiuliano come amante dalla Boccia con la smentita -a suo tempo attribuitale e non smentita a sua volta, scusate la ripetizione delle parole- di avere avuto rapporti sessuali con l’allora ministro. Che pure aveva parlato pubblicamente, al Tg1 prima delle dimissioni irrevocabili, di una relazione “sentimentale” con lei scusandosene con la moglie.

Dalla Stampa

         No. I rapporti sessuali risultano dalle stesse reazioni telefoniche della Boccia, per niente sbigottite, alla domanda fattale da Sangiuliano se fosse incinta di lui. Riporto, tra virgolette, i messaggi fra i due pubblicati dalla Stampa. “Sono arrivato -scrive lui a lei- al punto di non farmi problemi se tu fossi incinta di me, anzi sarei stato felicissimo”. “Sarai libero -gli risponde pur non immediatamente lei- di viverti questa esperienza come vorrai nel rispetto di tuo figlio”.

Vittorio Feltri sul Giornale

         Insomma Sangiuliano non è stato uno spasimante respinto. Nel suo piccolo, diciamo così in senso lato, è stato un amante a tutti gli effetti, per niente platonico. “Un maschio -ha scritto di lui il collega ed amico Vittorio Feltri sul Giornale– vittima di violenza e di manipolazione da parte di una donna tutt’altro che sciocca e credulona, una donna adulta e vaccinata, di 41 anni, la quale risulta abbia già fatto uso della strategia della finta gravidanza in passato, una donna che aveva scopi e obiettivi precisi e chiari e che si è probabilmente finta innamorata e coinvolta per raggiungerli”.  Mancando tuttavia l’obbiettivo.

         Bentornato, Gennaro, fra le benemerite o sfortunate vittime delle infedeltà sessuali, secondo i gusti culturali e/o antropologici. Ma spero che tu non ceda a questo punto anche alla tentazione di rispondere ad una telefonata di solidarietà del generale ed europarlamentare Roberto Vannacci: quello che vuole folgorare il “mondo al contrario” che vede un po’ troppo dappertutto.   

Prodi ammette che l’alternativa alla Meloni non c’è e punzecchia la Schlein

Da Libero

Ospite di Lilli Gruber, il due volte ex presidente del Consiglio Romano Prodi, ed ex presidente della Commissione europea per una, non si è certamente sottratto alle critiche alla Meloni sollecitategli dai due giornalisti invitati all’incontro, spiazzandoli tuttavia col riconoscimento che la premier “ci sa fare”. E non vive quindi solo della rendita procuratale dalla mancanza, da lui sconsolatamente sottolineata più volte, di un’alternativa al suo governo e alla sua maggioranza, per quanti problemi possano avere l’uno e l’altra sia nelle dimensioni reali ma ancor più, direi, in quelle immaginate e raccontate dagli avversari letteralmente ossessionati dalla prospettiva di una legislatura dall’epilogo ordinario. Che è cominciata due anni fa e sembra destinata a durare sino al 2027: un’eternità per gli abituati alla instabilità e alle elezioni anticipate      fra prima, seconda, terza e quarta Repubblica, per fermarci ai conteggi delle trasmissioni televisive. Quarta, appunto, si chiama quella che ci racconta ogni settimana l’ottimo Nicola Porro da Retequattro.

         Nella consapevolezza, probabilmente, proprio di questa inedita stabilità Prodi è diventato impaziente parlando della segretaria Elly Schlein, che pure gli è simpatica non foss’altro per avere lei esordito politicamente con le occupazioni delle sedi del Pd predicate nel 2013 per protesta contro i parlamentari del partito allora guidato da Pier Luigi Bersani che fecero mancare l’elezione proprio di Prodi al Quirinale. Bastò una sola votazione per affondarlo, dopo il naufragio anche del primo candidato del Nazareno e allora presidente del Pd Franco Marini.

         Alla Schlein – già incoraggiata nei mesi scorsi dall’ex presidente del Consiglio a fare la “federatrice” di un’alleanza alternativa al centrodestra, o destra-centro, di Giorgia Meloni- il professore emiliano ha chiesto di invertire tempi e modalità del suo percorso. Piuttosto che allargare con i nomi e le sigle il campo dell’alternativa, la Schlein dovrebbe attrezzarsi di un “trattore”, ha detto Prodi parlando del “programma” di cui una coalizione ha bisogno per proporsi agli elettori in modo a dir poco normale, logico.

         Ciò ci porta al famoso discorso sull’uovo e la gallina. Chi viene prima? L’uovo, evidentemente, secondo Prodi. Che tuttavia ha un’esperienza personale che lo contraddice, e pure clamorosamente.

         Reduce da un’esperienza alla presidenza della Commissione europea procuratagli praticamente da Massimo D’Alema per rimediare al fatto di averlo sostituito nel 1998 alla guida del governo  con un’operazione tipica di palazzo, sostituendo la sinistra di Fausto Bertinotti con un centro improvvisato dal presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga arruolando parlamentari eletti nell’area del centrodestra; reduce, dicevo, da quell’esperienza a Bruxelles, Prodi si propose di tornare a Palazzo Chigi aprendo dappertutto in Italia “cantieri” -li chiamò proprio così- per costruire un programma col quale sconfiggere Silvio Berlusconi nelle elezioni ordinarie del 2006. Nacque non un documento ma un volume di più di trecento pagine assegnato come dote ad un’ambiziosissima Unione, estesa da Clemente Mastella al trotzkista Franco Turigliatto. Al quale non potevi parlare della Nato senza sentirti sputare in faccia, o quasi. 

Franco Turigliatto

         Il governo che ne derivò a guida prodiana, dopo un sostanziale pareggio elettorale tradottosi in vittoria dell’Unione fra proteste e denunce di brogli da parte del centrodestra e di Berlusconi in persona, durò esattamente dal 17 maggio 2006 al 24 gennaio 2008. Esso fu travolto un po’ da una grottesca vicenda giudiziaria del ministro della Giustizia Mastella e della famiglia, destinata a sgonfiarsi completamente nei soliti lunghi anni, e un po’ dall’anomalia chiamata Turigliatto. La complessa crisi che seguì alle dimissioni del secondo governo Prodi, con passaggi sia alla Camera sia al Senato, si risolse -dopo un inutile tentativo di soluzione affidato dall’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano all’allora presidente del Senato Franco Marini- nelle elezioni anticipate del 13 e 14 aprile 2008.  Che furono non vinte ma stravinte dal centrodestra con più del 47 per cento dei voti contro il 38 per cento capitalizzato dal Pd di Walter Veltroni alleatosi solo con Antonio Di Pietro.

Preistoria, direte pensando anche al ritorno di Veltroni al giornalismo e dintorni e di Di Pietro alla campagna e dintorni, pure lui, su un trattore vero, con tanto di fotografie sui giornali, non con quello metaforico proposto da Prodi alla Schlein. Ma da allora sono passati solo 16 anni. Preistoria, un corno.

Pubblicato su Libero

Se Romano Prodi deve arginare gli attacchi alla premier Giorgia Meloni

Il generale Figliuolo sul Fatto Quotidiano

         Invitato da Lilli Gruber a Otto e mezzo per parlare dell’Italia “al tempo di Meloni” sulle sollecitazioni critiche sue e degli altri due ospiti, Massimo Giannini e Lina Palmerini, l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi ha cercato di non deludere le attese. Egli ha contestato, per esempio, i troppo pochi venti milioni di euro appena stanziati per la nuova alluvione in Emilia Romagna e una “pregiudiziale” ostilità persino alla gente di quella regione- che è poi la sua, dello stesso Prodi- per essere stata a suo tempo affidata la gestione dell’emergenza ambientale non all’allora presidente Stefano Bonaccini, più adatto per la conoscenza del territorio, ma al generale Francesco Paolo Figliuolo. Che oggi Il Fatto Quotidiano nel fotomontaggio di copertina immerge nella melma.

Il salotto televisivo della Gruber ieri sera

         Prodi, premuto in particolare da Giannini, ha visto nel premierato perseguito dalla Meloni solo un disegno personale di potere,  volendo “durare di più”, anche se l’elezione diretta del presidente del Consiglio non potrebbe materialmente tradursi in un vantaggio scontato per la premier in carica, essendo destinata a scattare, se approvata anche nel prevedibile passaggio referendario, dalla prossima legislatura. Più utile alla stabilità di un governo, secondo Prodi, sarebbe una riforma elettorale interamente maggioritaria.

         Ad un certo punto, però, il gioco anti-meloniano nel salotto televisivo della Gruber è diventato così stretto e pesante che Prodi ha dovuto assumere la difesa della premier. Alla quale, per esempio, ha riconosciuto di “saperci fare” nella comunicazione.  Che non è cosa secondaria in politica, e per chi guida un governo.

Raffaele Fitto

         L’ex presidente del Consiglio ha riconosciuto alla Meloni anche di avere saputo indicare per la Commissione europea con Raffaele Fitto la persona “migliore”, cui lui darebbe il voto favorevole se fosse uno dei parlamentari europei chiamati a giudicarlo. E, pur lamentando i limiti delle competenze assegnate al rappresentante italiano, pari a quelle avute nella commissione precedente dal rappresentante portoghese, e persino irridendo alla carica di vice presidente, che farebbe “rima con niente”, agli ospiti che lo invitavano a dileggiare la soddisfazione espressa dalla Meloni ha risposto chiedendo loro realisticamente: “Ma che cosa pretendete?”. Dopo averle peraltro preconizzato -mi permetto di ricordare- l’”isolamento” e l’incapacità di avere una delle sei pur inutili- secondo Prodi, ripeto- vice presidenze esecutive della nuova Commissione.

Schlein e Prodi d’archivio

         Peggio della Meloni, tutto sommato, Prodi ha trattato la segretaria del Pd Elly Schlein parlandone in riferimento alla costruzione del cosiddetto campo largo di quell’alternativa al governo che semplicemente allo stato delle cose non esiste, ha ricordato l’ospite d’onore della Gruber. Prima e più del campo -ha sostenuto Prodi- occorre “il trattore”. Che sarebbe “il programma”, mancante evidentemente al di là dei titoli o delle genericità enunciate dalla prolissa e plurinazionale segretaria del Pd

Finisce sott’acqua in Emilia Romagna anche il campo largo di Elly Schlein

Da Repubblica

         Con l’”alluvione delle polemiche”, come l’ha definita Repubblica, sovrappostasi a quella naturale in Emilia Romagna, dove si voterà a novembre, rischia di finire sott’acqua, se non vi è già finto, anche il “campo largo” allestito soprattutto dal Pd di Elly Schlein, esteso da Renzi a Conte. Che già pregustava la vittoria per il dopo-Bonaccini, esportato nel Parlamento europeo.

Elly Schlein

         La Schlein, peraltro proveniente pure lei dall’esperienza amministrativa in quella regione, ha liquidato come “sciacallaggio” quello che avrebbe tentato o compiuto il ministro della protezione civile Nello Musumeci lamentando il cattivo o addirittura omesso uso locale dei cospicui finanziamenti per riparare ai danni delle precedenti alluvioni e prevenirne di nuove.

Da Libero

         Nella ”macchina del fango”, come l’ha chiamata Libero, vedendone  comunque più nelle reazioni della sinistra, al potere sul posto  e all’opposizione a Roma, è finito anche il generale Francesco Paolo Figliuolo, scelto a suo tempo come commissario straordinario per la gestione dell’emergenza.

         Chissà se anche queste polemiche, come altre della e nella politica, dalla vicenda Sangiuliano-Boccia alla scissione praticamente in corso nel MoVimento 5 Stelle, non finiranno con e nelle carte bollate, cioè nei tribunali.  Per non parlare del processo in corso a Palermo per sequestro di migranti contro Matteo Salvini: processo per fatti di cinque anni fa, senza vittime, avviato o permesso, come preferite, da un voto del Senato in qualche modo progenitore del “campo largo” di oggi.  

Il blocco di Tajani ad un ritorno di Toti alla politica nel centrodestra

Dal Dubbio

Già improbabile per le prime reazioni, di sorpresa prevalentemente critica, al patteggiamento con i pubblici ministeri di Genova, preferito al processo per corruzione, un ritorno politico dell’ex governatore della Liguria Giovanni Toti è diventato ancora più difficile dopo quello che ha detto di lui e del suo ciclo in veste di segretario di Forza Italia il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Che, intervistato nella redazione del genovese Secolo XIX, ha parlato di una “era Toti” ormai alle spalle, archiviata nella rappresentazione politica forse anche allo scopo di consentire al candidato del centrodestra alla presidenza della regione, il sindaco di Genova Marco Bucci, di fronteggiare meglio il cartello di sinistra capeggiato dall’ex ministro Andrea Orlando, del Partito Democratico, appesosi al patteggiamento di Toti come ad una stampella. Di ritorno sicuro dell’ex governatore della Liguria resta ormai solo quello alla professione giornalistica.

Dal Secolo XIX di ieri

         Interrogato sulla “solitudine” avvertita e lamentata più volte da Toti quasi a giustificazione della decisione di patteggiare, piuttosto che infilarsi in un lungo processo, Tajani ha seccamente risposto che “veramente è lui che ha lasciato soli noi”, almeno i forzisti, peraltro lasciati “fuori dalla giunta” regionale dell’uomo che pure era stato portato in politica da Forza Italia, e personalmente da Silvio Berlusconi. Di cui era stato presentato dai giornali per un certo tempo come  il nuovo delfino, dopo lo spiaggiamento di Angelino Alfano. Un delfino che il Cavaliere si era portato appresso anche nelle sue cure dimagranti, attento com’era alle immagini fisiche del politico. E lui, Toti, in effetti senza Berlusconi, e prima ancora che questi morisse, di peso fisico, appunto, è cresciuto di parecchio.

Tajani al Secolo XIX

          A Tajani, insomma, non è piaciuto per niente il Golgota evocato da Toti parlando della croce che pochi o nessuno lo avevano aiutato a portare nella salita inflittagli dai magistrati con una novantina di giorni di arresti domiciliari e una dovizia di accuse. “Non so con chi ce l’avesse, a noi non può dire niente”, ha reagito Tajani. E ancora sul patteggiamento ha insistito:  “E’ una scelta sua. Non eravamo in giunta, e di tutte le decisioni che sono state prese non ne sapevamo nulla. Non ci ha informato di questa scelta, non sapevamo nulla né abbiamo chiesto nulla. Abbiamo sempre avuto l’idea che dopo Toti bisognava andare su un civico, anche per dire ai liguri che inizia una nuova stagione”. Nuova, ripeto: non la continuazione della vecchia con un altro traino, o con po’ di lotite cronica addosso, magari pure aggravata.

         Volente o nolente, il vice presidente del Consiglio e leader forzista, pur facile più al sorriso che al ghigno, più alla battuta che alla parolaccia, con Toti ha tirato fuori gli artigli. E pensando agli scontri più o memo diretti avuti anche in passato, dopo l’autonomia presasi da Toti nei rapporti con Berlusconi, ha confermato che anche in politica, o soprattutto in politica, il piatto della vendetta si serve e si consuma freddo: né caldo, né tiepido.

Gelmini e Carfagna d’archivio con Calenda

         Stanno sperimentando questo aspetto di Tajani anche altri ex colleghi di partito usciti ai tempi di Berlusconi, scontrandosi prima col cerchio magico che lo contornava e poi col Cavaliere in persona, e pronti a rientrare per i cambiamenti intervenuti nelle aree politiche dove si erano rifugiati, se solo il segretario del partito azzurro lo volesse. A Letizia Moratti e ad Enrico Costa il rientro è riuscito, a Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, che hanno abbandonato anche il partito di Carlo Calenda, no. O non ancora. “Non ci sono contatti o trattative. Non ho parlato con loro di recente”, ha laconicamente risposto Tajani alla curiosità dei giornalisti del Secolo XIX. E infatti entrambe, già ministre con Berlusconi, hanno imboccato in Parlamento il sentiero  del gruppo misto. 

         Più che recuperare figlioli più o meno prodighi delle storie evangeliche, Tajani sembra cercare parlamentari dalle provenienze più lontane possibili dalle sue parti. Gli piacciono tanto, per esempio, i grillini spiazzati, a dir poco, dalla polvere alla quale stanno riducendo le cinque stelle, litigando fra di loro, il presidente e il fondatore. Che comunicano ormai solo per pec e carte più o meno bollate. E pensare che Grillo dava a Berlusconi dello psiconano, prima di invidiarne i voti che prende anche “da morto”.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 21 settembre

La Meloni in ripresa su vari fronti, le opposizioni invece in salita

Da Libero

         “Le penne rosse”, come le chiama su Libero il direttore Mario Sechi, già suo portavoce a Palazzo Chigi, stanno perdendo inchiostro in cui intingere per rappresentare la solita Giorgia Meloni “assediata”, “isolata”,”sfinita”, “impaurita” e prossima addirittura ad una crisi di nervi, o persino di governo.  

Meloni col presidente di Confindustria

         La premier si divide sulle prime pagine dei giornali tra il flirt politico con gli industriali, nella mattinata di ieri, e quello del pomeriggio con Mario Draghi, declassato a “disgelo” della solita Repubblica ma interpretato e indicato da altri all’”asse” pari solo a quello della premier col presidente della Confindustria Emanuele Orsini.  

Dal Foglio

         L’ossessione si è un po’ rovesciata: da quella attribuita alla Meloni circondata da nemici anche all’interno della maggioranza a quella delle opposizioni, di carta o parlamentari, che avvertono la premier ringalluzzita, per esempio, dal successo offertole dall’amica e presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen con la nomina di Raffaele Fitto a commissario della coesione e delle riforme e vice presidente esecutivo: non il solo, certo, essendovene altri cinque, ma con un portafogli di mille miliardi di euro e ben poche possibilità di essere trattato come un avversario e basta da tutte le opposizioni italiane rappresentate nel Parlamento europeo, a cominciare da quella pur numericamemte modesta, anzi modestissima, dei contiani. Così ormai bisognerebbe cominciare a chiamare i grillini dopo la rottura ormai consumatasi fra il presidente del MoVimento 5 Stelle e il suo fondatore, garante e consulente a contratto. Che si è appena procurato sul Fatto Quotidiano, abbastanza seguito da quelle parti, un editoriale di fuoco del direttore Marco Travaglio.  

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

         E’ curioso, divertente e quant’altro che quest’ultimo abbia concluso la sua requisitoria contro il comico che non ha mai scambiato Giuseppe Conte, come invece il direttore del Fatto, per il migliore presidente del Consiglio nella storia d’Italia dopo Camillo Benso di Cavour, sin forse a meritarsi già da vivo una statua in qualche piazza di Roma; e’ curioso, divertente e quant’altro, dicevo, che Travaglio abbia concluso l’attacco a Grillo chiedendosi: “Ma non è che ultimamente ha risentito Draghi?”. Dal quale già si sarebbe lasciato convincere nel 2021 a sostenerne il governo, facendovi entrare anche i grillini, in un percorso di morte politica ed elettorale. “Così almeno tutto ciò che è insensato acquisterebbe un senso”, ha scritto Travaglio pensando evidentemente anche al ritorno di Draghi a Palazzo Chigi per incontrare Meloni con una cordialità ostentata da entrambi davanti a fotografi e telecamere.

La vignetta di Giannelli sul Corriere della Sera

         Se davvero la Meloni, come le attribuisce Emilio Giannelli nella vignetta di prima pagina sul Corriere della Sera, ha chiesto a Draghi “una copia della sua agenda” da lei smarrita -un’agenda “in pelle umana”, come ne scrive abitualmente Travaglio- l’operazione può ritenersi già compiuta tra ieri sera e questa mattina. Consegna a domicilio.  

Ripreso da http://www.startmag.it

L’opposizione estende le sue ostilità alla nuova Commissione europea

Da Repubblica

         Con quell’”Italia più debole” stampata a caratteri di scatola sulla Repubblica di carta dopo e nonostante l’assegnazione di una delle vice presidenze esecutive e di un portafogli di mille miliardi di euro a Raffaele Fitto nella nuova Commissione europea di Ursula von der Leyen l’opposizione mediatica a Roma ha sorpassato quella politica. Che almeno ha qualche venatura di diversità, fra le sue componenti, o al loro interno, nella valutazione pur negativa, di opportunistica delusione. Opportunistica perché funzionale alla lotta al governo di Giorgia Meloni, che non potrebbe geneticamente uscire bene da nessuna prova secondo i suoi irriducibili avversari.  

Dal manifesto

         Sarà pure “più debole”, come ha titolato la Repubblica, e isolata come si continua a scrivere e a dire da quelle parti da quando gli europarlamentari del partito della Meloni votarono a Strasburgo contro una conferma di Ursula von der Leyen a Bruxelles concordata praticamente solo o soprattutto tra francesi e tedeschi, pur in difficoltà con i loro governi dopo le elezioni continentali di giugno; sarà pure “più debole” e ancora isolata, come dicevo, l’Italia della Meloni ma vorrà pur dire qualcosa che un giornale come il manifesto, sempre dall’opposizione, ha visto e indicato nella nuova Commissione, anche a causa di Fitto tra i vice presidenti, un cambio di marcia e di fronte. “Fianco destro”, ha titolato il quotidiano dichiaratamente e orgogliosamente comunista ancora a 35 anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino e del comunismo ch’esso in qualche modo doveva proteggere dall’Occidente.

Dal Foglio

         Il “fianco destro” evocato dal manifesto scrivendo di una Commissione “al bacio” invece secondo Il Foglio è addirittura guerrafondaio nella rappresentazione di Giuseppe Conte: il presidente del MoVimento ancora 5 Stelle, o delle 5 pec, come ironicamente già lo chiama il fondatore, garante e quant’altro Beppe Grillo per via della corrispondenza elettronica con la quale i due se ne stanno dando e dicendo di tutti i colori sulla strada in discesa dell’ultima scissione.  

Beppe Grillo e Giuseppe Conte

Conte ha parlato, in particolare, di “approccio bellicista” della nuova Commissione di Ursula von der Leyen        per il fermo proposito di continuare a sostenere l’Ucraina nella guerra scatenatale addosso più di due anni e mezzo fa dalla Russia di Putin con l’appoggio, la comprensione e quant’altro di quella Cina così notoriamente simpatica sia allo stesso Conte, che si intestò a Palazzo Chigi la cosiddetta via della seta, sia a Grillo. Che in occasione di quasi tutte le sue visite di controllo, di garanzia, di piacere a Roma trovava sempre il tempo di una capatina e spesso anche colazione all’ambasciata cinese: una frequenza o abitudine che ad un certo punto imbarazzò anche l’allora presidente del Consiglio, sottrattosi ad uno degli inviti esteso pure a lui.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Caselli reclama dai giudici “il coraggio” di condannare Salvini

Da Libero

In una intervista a caldo dopo la richiesta di sei anni di carcere a Matteo Salvini per il presunto sequestro di migranti, cinque anni fa, sulla nave Open Arms e la solidarietà espressa all’imputato dalla premier Gorgia Meloni, del cui governo il leader leghista è vice presidente del Consiglio e ministro questa volta delle Infrastrutture, anziché dell’Interno come nell’esecutivo di allora, Giancarlo Caselli si è richiamato, in una intervista al Fatto Quotidiano, al compianto e sicuramente autorevolissimo Alessandro Galante Garrone. Che disse: “In certe situazioni non basta per un giudice essere intellettualmente onesto e professionalmente preparato: per poter ricercare e affermare la verità bisogna anche essere combattivi e coraggiosi”.

L’intervista di Caselli al Fatto Quotidiano

         Morto poco meno di 21 anni fa, Alessandro Galante Garrone non poteva materialmente riferirsi a “circostanze” neppure lontanamente immaginabili e paragonabili a quelle in cui è maturato il processo in corso contro Matteo Salvini. Anche se ai suoi tempi si era già verificato quel forte squilibrio nei rapporti fra politica e giustizia lamentato nel 2010 dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrivendo pubblicamente delle “Mani pulite” del 1992 e anni successivi. Uno squilibrio aggravatosi con la sostanziale autorizzazione suicida della politica agli sconfinamenti del potere giudiziario mettendoli praticamente al servizio della lotta fra i partiti, a volte fra le loro stesse correnti, e fra le maggioranze e le opposizioni di turno.

Matteo Salvini

         Il processo a Salvini, autorizzato dal Senato con i voti determinanti dello stesso partito -quello delle 5 Stelle- che lo aveva difeso per un’analoga vicenda di nave bloccata con migranti, prima che il leader leghista decidesse di far cadere il primo governo di Giuseppe Conte per tentare le elezioni anticipate, è proprio uno degli atti suicidari della politica. Non è arbitraria, ma solo cronachistica, la “ritorsione” della quale il leader leghista parla quando si riferisce a Conte e al contributo dato in Parlamento ad un processo mancato invece per la vicenda, l’anno prima, della nave della Guardia Costiera Ubaldo Diciotti.

Caselli al Fatto Quotidiano

         Ma torniamo a Giancarlo Caselli e al suo richiamo ad Alessandro Galante Garrone, che lui ha voluto attualizzare al processo contro Salvini dicendo testualmente: “Se Meloni interviene a piedi giunti su un processo in corso bisogna essere qualcosa in più di un giudice intellettualmente onesto per fare il proprio lavoro, nell’unico Paese al mondo dove la politica non accetta di essere giudicata”.

         Già magistrato di alto livello e uomo dalle notoriamente forti e radicate opinioni, non credo che Caselli possa offendersi se gli riconosco un certo ascendente sulla categoria della quale ha fatto parte, a carriere non separate fra pubblici ministeri e giudici. Un ascendente al quale forse egli non ha pensato, nella foga del commento critico all’”intervento a piedi giunti” della presidente del Consiglio sulla richiesta di sei anni di carcere a Salvini, ma che può ben essere visto, intravisto, avvertito, come preferite, pensando ai giudici che a Palermo dovranno emettere la sentenza accettando o respingendo, o in difformità dalla pesante richiesta dell’accusa e dalle sue motivazioni. Ne avrebbero il pieno diritto, penso.

         E’ proprio a questi giudici che Caselli, volente o nolente, ha chiesto di dimostrare, ripeto, “qualcosa in più di intellettualmente onesto”. Ma che cosa? Per rimanere alla “combattività e coraggio” evocati da Alessandro Galante Garrone,  penso che giudici e pubblici ministeri ne abbiano dimostrato abbastanza morendo ammazzati nell’espletamento del loro lavoro da criminali di ogni risma e colore. Mi chiedo se lo debbano dimostrare in un processo come quello in corso a Salvini resistendo pregiudizialmente alla tentazione di un’assoluzione, magari pensando a quanto potrebbe rimanervi male chi si aspetta o reclama una condanna. E solo quella.

Se la Meloni è intervenuta a favore dell’imputato Salvini “a piedi giunti”, come è intervenuto Caselli con la sua intervista, peraltro avventuratasi poi su altri terreni, come la vicenda Toti che lascio fuori da questo commento? Per la risposta mi affido allo stesso Caselli, confidando nella stessa onestà intellettuale richiamata in via generale da Alessandro Galante Garrone.  

Pubblicato su Libero

Il giallo dei complotti contro il governo rilanciato dalla Meloni

Dal Dubbio

Su uno sfogo di pochissime parole raccolte direttamente dalla voce della premier Giorgia Meloni –“So quali sono i complotti eventuali e da dove vengono”- il Riformista ci ha costruito legittimamente, per carità, quasi una pagina. E titolo e foto di copertina. Legittimamente e anche giustamente sul piano professionale, cercando di risalire con ragionamenti e deduzioni da una serie di fatti e circostanze note a quella che potremmo definire una trama poco rassicurante per qualsiasi governo, e non solo per quello in carica. Una trama che incrocia più volte uomini e sigle dei servizi segreti.

Dal Riformista di ieri

         Non credo sia il caso di entrare nei dettagli del racconto ma credo, senza volere mancare di rispetto né personale, né politico né istituzionale per la presidente del Consiglio, che ha tutto il diritto di difendersi dai complotti, pur “eventuali”, che avverte attorno a lei e, più generalmente, attorno al governo e alla sua maggioranza; ma anche senza volere sostituirsi alle opposizioni, unite o disunite nel “campo largo” in cui sono volenterosamente immaginate da chi lo auspica; non credo, dicevo, che una libera stampa possa o debba sottrarsi alla curiosità di sapere qualcosa di più preciso, di meno “eventuale”, o allusivo, sullo scenario accreditato dalle parole della premier. E solo Giorgia Meloni può aiutare a soddisfare questa curiosità.

Meloni al Riformista

         Presumo che il Riformista per primo abbia cercato di saperne di più, raccogliendo quello sfogo, senza riuscirvi. E ha cercato di supplirvi non dico con la fantasia, che è notoriamente cosa molto diversa dal retroscena, ma con l’intelligenza, con l’intuizione, con la logica, mettendo insieme tasselli di un mosaico scomposto.      

         Se tra questi tasselli ci fossero davvero pezzi di servizi segreti, a qualsiasi sigla riferibili, non potrebbero che essere deviati, come noi cronisti o analisti meno giovani ci siamo abituati a considerarli e a chiamarli già nella cosiddetta prima Repubblica: in particolare, da quando nell’estate di 60 anni fa, cioè nel 1964, fu avvertito durante la crisi del primo governo di centro-sinistra di Aldo Moro il famoso “rumore di sciabole” attribuito ai diari del vice presidente del Consiglio socialista Pietro Nenni. Rumore che poi non fu trovato nel testo pubblicato. Ma la formula rimase ugualmente nel linguaggio e nell’immaginario politico collettivo, tanto da entrare -e neppure tanto di soppiatto- in una indagine che doveva essere parlamentare e che Moro trattenne, almeno sino a quando rimase a Palazzo Chigi, a livello amministrativo per il rispetto che sentiva di dover avere per l’aggettivo “segreti” applicato ai servizi di sicurezza dello Stato.

         Forse sono andato un po’ troppo lontano con gli anni e con gli uomini. Ma resta il problema, che ho sollevato all’inizio, di potere e doversi dire ad una libera stampa, ripeto, se non al Parlamento chiamato in causa dai loro stessi gruppi ed esponenti, qualcosa di più dello sfogo un po’ troppo ermetico concesso dalla Meloni al Riformista.  Non è solo una questione di governo, necessariamente di turno perché prodotto dalla democrazia con tutte le verifiche e i cambiamenti elettorali. E’ ancor più, e più stabilmente, una questione di Stato.

Pubblicato sul Dubbio

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