Se un cronista politico ringiovanisce con l’elisir di Elly Schlein…

Dalla prima pagina del Foglio di ieri

E’ bello, anzi bellissimo ringiovanire senza una cura, e neppure un miracolo, ma semplicemente leggendo un articolo. Come quello sul Pd di Simone Canettieri  ieri sul Foglio. Che mi ha riportato indietro di 50 anni, quando scrivevo pezzi analoghi sulla Democrazia Cristiana alla cui guida era tornato da un anno Amintore Fanfani deponendo il suo ex delfino Arnaldo Forlani. Ne scrivevo sul Giornale elencando le correnti, sottocorrenti e simili. E facendo divertire un mondo Indro Montanelli, che- bontà sua- mi promosse, anche nella corrispondenza con i lettori, a specialista dello scudo crociato. “Eurologo”, mi chiamava. Dall’ Eur, dove c’era la sede nazionale della Dc, anche se i segretari e altri dirigenti preferivano continuare a lavorare in Piazza del Gesù, a mezza strada fra Piazza Venezia e Piazza Navona.

La mappa delle correnti democristiane variava continuamente. Bastavano soffi o postumi di crisi di governo, sempre dietro l’angolo delle cronache politiche, per determinare il passaggio di qualcuno da una corrente all’altra. O la creazione di nuove. E ogni segretario, anche il mitico Fanfani, di cui era leggendario il polso, doveva fare e aggiornare i conti.

La prima pagina del primo numero del Giornale

Proprio su uno di quei passaggi Montanelli in persona titolò la mia corrispondenza da Roma sul primo numero del Giornale: “Fanfani conta amici e nemici”. Egli aveva appena perso, poveretto, il referendum contro il divorzio, prudentemente evitato da Forlani nel 1972 con un rinvio propiziato da elezioni anticipate e affrontato invece da Fanfani nel 1974 con la solita baldanza. Il segretario democristiano non saltò subito come il tappo dalla famosa bottiglia di champagne  nella vignetta divorzista di Giorgio Forattini su Paese sera ma era destinato a durare ancora per poco. L’anno dopo sarebbe stato sostituito da Benigno Zaccagnini sotto la regia, la protezione e quant’altro di Aldo Moro: l’altro “cavallo di razza” del partito, oltre a Fanfani, nella storica definizione di Carlo Donat-Cattin.

Ma sono andato e rimasto troppo indietro negli anni. Torniamo ai giorni nostri. E al buon Canettieri, che ha contato nel Pd di Elly Schlein ben 11 correnti, o anime. O animelle. Fra le quali la segretaria deve muoversi guardandosene come i segretari di un tempo della Dc. Dei cui sopravvissuti il Pd ha raccolto una parte, credo minoritaria rispetto ai provenienti dal Pci.

Dal Foglio di ieri

Undici correnti sono tante. Chissà perché indicate nel titolo del Foglio in “quasi una squadra di calcio”. Non sono undici i componenti di una squadra, appunto, di calcio? Forse il titolista aspettava e aspetta l’arrivo delle riserve in panchina. Non sarà, credo, un’attesa lunga considerando le complicazioni che sta procurando alla segretaria del Pd l’inseguimento del cosiddetto “campo largo” dell’alternativa al governo di Giorgia Meloni. L’alternativa che “non c’è”, come ha recentemente ammesso, sconsolato, Romano Prodi pur sollecitando la Schlein a salire lo stesso sul “trattore” di un programma.  

Ciò che non sapete del generale dalla Chiesa, del figlio, di Andreotti e altro

Da Libero

  Nella polemica sulla vicenda, già sgradevole in sé per la sua arbitrarietà, del presunto favore che la mafia, anche secondo la figlia Rita, avrebbe voluto fare a Giulio Andreotti uccidendo il generale e prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa il 3 settembre 1982, mi ha sorpreso e infastidito l’eccesso di scrupolo nella pur doverosa difesa di Andreotti in cui sono incorsi familiari e amici.

Nando dalla Chiesa

         Per provare i buoni rapporti fra il generale e l’allora ex presidente del Consiglio, e smontare quindi il teorema di un loro conflitto nella lotta alla mafia per il coinvolgimento della corrente andreottiana in Sicilia -se non di Andreotti in persona-  in quella potente organizzazione criminale, si è detto e si è scritto, fra interviste televisive e rievocazioni giornalistiche, di uno sfogo di Carlo Alberto dalla Chiesa con l’autorevole esponente politico su simpatie, militanze politiche  e quant’altro del figlio Nando. Che allora aveva già più di 30 anni. Oggi ne ha 74, si gode la meritata pensione maturata come professore universitario e interviene con saggi e articoli sull’attualità politica e sociale da posizioni dichiaratamente e orgogliosamente di sinistra, conformemente anche alla sua esperienza parlamentare e di governo, essendo stato sottosegretario al Ministero dell’Università e della ricerca nel secondo governo di Romano Prodi, dal 2006 al 2008.

Il 3 settembre 1982 in via Carini, a Palermo

         A leggere e sentire certe rievocazioni delle preoccupazioni confidate dal generale dalla Chiesa ad Andreotti sul figlio si potrebbe essere indotti nell’errore di considerarle ancora presenti quando il padre fu vittima, con la seconda giovane moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo, dell’agguato mafioso a Palermo, in via Carini. Dove prima ancora della targa che ricorda ancora l’eccidio venne scritto su un cartello fortunatamente smentito dai fatti che “qui è morta la speranza dei palermitani onesti”.

Giulio Andreotti negli anni 80

         Il generale morì sicuramente fra molti crucci, anche per i suoi rapporti col governo allora presieduto non da Andreotti ma da Giovanni Spadolini. Dal quale il prefetto si aspettava i maggiori poteri che aveva chiesto. E che peraltro gli erano stati privatamente suggeriti proprio da Andreotti, pur dissentendo dal ruolo di prefetto che il generale aveva deciso di accettare su proposta dell’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni.

         Nell’estate del 1982, due mesi prima della sua tragica fine, intervistai il generale per la seconda rete televisiva della Rai sulla estensione alla lotta alla mafia degli incentivi sperimentati col pentimento nella lotta al terrorismo proprio dal generale, che l’aveva condotta con efficacia già allora leggendaria.

         Negli incontri confidenziali, tra la Prefettura e la sua abitazione palermitana, prima della registrazione dell’intervista il generale parlò anche a me del figlio Nando, ma per niente preoccupato. Sollevato, anzi, dalla scelta comunicatagli da Nando di rimanere sì a sinistra, dove da giovanissimo si era già orientato su posizioni più spinte, ma stabilizzandosi nel Pci. Di cui il giornale mi parlava come di “un partito d’ordine” per la prova ricevutane nella lotta al terrorismo. Che, pur rintracciabile nel famoso “album di famiglia” del comunismo evocato onestamente sul manifesto da Rosanna Rossanda leggendo i comunicati del sequestro di Aldo Moro, era diventato il nemico del Pci imborghesito, dicevano le brigate rosse, dal segretario Enrico Berlinguer, dal disegno del “compromesso storico” con la Dc e dalle sue varianti, qual era stata fra il 1976 e l’inizio del 1979, la “solidarietà nazionale”.

Sandro Pertini e Bettino Craxi

         In     quei colloqui confidenziali il generale mi parlò anche della volta in cui, chiusa la fase proprio della solidarietà nazionale, egli era arrivato ad un palmo dal governo. Mi confermò, in particolare, con qualche particolare in più, quel che già era trapelato dopo il conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio a Bettino Craxi da parte del presidente della Repubblica Sandro Pertini, all’indomani delle elezioni anticipate seguite al ritiro del Pci dalla maggioranza.

Il leader socialista, bloccato sulla soglia di Palazzo Chigi con un voto contrario della direzione democristiana contestato con l’astensione solo da Arnaldo Forlani, aveva anticipato al generale la proposta di ministro dell’Interno se gli fosse riuscito il tentativo di formare il governo. E gli aveva anche confidato di averne già parlato a Pertini trovandolo d’accordo.

Pubblicato su Libero

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