L’opposizione estende le sue ostilità alla nuova Commissione europea

Da Repubblica

         Con quell’”Italia più debole” stampata a caratteri di scatola sulla Repubblica di carta dopo e nonostante l’assegnazione di una delle vice presidenze esecutive e di un portafogli di mille miliardi di euro a Raffaele Fitto nella nuova Commissione europea di Ursula von der Leyen l’opposizione mediatica a Roma ha sorpassato quella politica. Che almeno ha qualche venatura di diversità, fra le sue componenti, o al loro interno, nella valutazione pur negativa, di opportunistica delusione. Opportunistica perché funzionale alla lotta al governo di Giorgia Meloni, che non potrebbe geneticamente uscire bene da nessuna prova secondo i suoi irriducibili avversari.  

Dal manifesto

         Sarà pure “più debole”, come ha titolato la Repubblica, e isolata come si continua a scrivere e a dire da quelle parti da quando gli europarlamentari del partito della Meloni votarono a Strasburgo contro una conferma di Ursula von der Leyen a Bruxelles concordata praticamente solo o soprattutto tra francesi e tedeschi, pur in difficoltà con i loro governi dopo le elezioni continentali di giugno; sarà pure “più debole” e ancora isolata, come dicevo, l’Italia della Meloni ma vorrà pur dire qualcosa che un giornale come il manifesto, sempre dall’opposizione, ha visto e indicato nella nuova Commissione, anche a causa di Fitto tra i vice presidenti, un cambio di marcia e di fronte. “Fianco destro”, ha titolato il quotidiano dichiaratamente e orgogliosamente comunista ancora a 35 anni di distanza dalla caduta del muro di Berlino e del comunismo ch’esso in qualche modo doveva proteggere dall’Occidente.

Dal Foglio

         Il “fianco destro” evocato dal manifesto scrivendo di una Commissione “al bacio” invece secondo Il Foglio è addirittura guerrafondaio nella rappresentazione di Giuseppe Conte: il presidente del MoVimento ancora 5 Stelle, o delle 5 pec, come ironicamente già lo chiama il fondatore, garante e quant’altro Beppe Grillo per via della corrispondenza elettronica con la quale i due se ne stanno dando e dicendo di tutti i colori sulla strada in discesa dell’ultima scissione.  

Beppe Grillo e Giuseppe Conte

Conte ha parlato, in particolare, di “approccio bellicista” della nuova Commissione di Ursula von der Leyen        per il fermo proposito di continuare a sostenere l’Ucraina nella guerra scatenatale addosso più di due anni e mezzo fa dalla Russia di Putin con l’appoggio, la comprensione e quant’altro di quella Cina così notoriamente simpatica sia allo stesso Conte, che si intestò a Palazzo Chigi la cosiddetta via della seta, sia a Grillo. Che in occasione di quasi tutte le sue visite di controllo, di garanzia, di piacere a Roma trovava sempre il tempo di una capatina e spesso anche colazione all’ambasciata cinese: una frequenza o abitudine che ad un certo punto imbarazzò anche l’allora presidente del Consiglio, sottrattosi ad uno degli inviti esteso pure a lui.  

Ripreso da http://www.startmag.it

Caselli reclama dai giudici “il coraggio” di condannare Salvini

Da Libero

In una intervista a caldo dopo la richiesta di sei anni di carcere a Matteo Salvini per il presunto sequestro di migranti, cinque anni fa, sulla nave Open Arms e la solidarietà espressa all’imputato dalla premier Gorgia Meloni, del cui governo il leader leghista è vice presidente del Consiglio e ministro questa volta delle Infrastrutture, anziché dell’Interno come nell’esecutivo di allora, Giancarlo Caselli si è richiamato, in una intervista al Fatto Quotidiano, al compianto e sicuramente autorevolissimo Alessandro Galante Garrone. Che disse: “In certe situazioni non basta per un giudice essere intellettualmente onesto e professionalmente preparato: per poter ricercare e affermare la verità bisogna anche essere combattivi e coraggiosi”.

L’intervista di Caselli al Fatto Quotidiano

         Morto poco meno di 21 anni fa, Alessandro Galante Garrone non poteva materialmente riferirsi a “circostanze” neppure lontanamente immaginabili e paragonabili a quelle in cui è maturato il processo in corso contro Matteo Salvini. Anche se ai suoi tempi si era già verificato quel forte squilibrio nei rapporti fra politica e giustizia lamentato nel 2010 dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrivendo pubblicamente delle “Mani pulite” del 1992 e anni successivi. Uno squilibrio aggravatosi con la sostanziale autorizzazione suicida della politica agli sconfinamenti del potere giudiziario mettendoli praticamente al servizio della lotta fra i partiti, a volte fra le loro stesse correnti, e fra le maggioranze e le opposizioni di turno.

Matteo Salvini

         Il processo a Salvini, autorizzato dal Senato con i voti determinanti dello stesso partito -quello delle 5 Stelle- che lo aveva difeso per un’analoga vicenda di nave bloccata con migranti, prima che il leader leghista decidesse di far cadere il primo governo di Giuseppe Conte per tentare le elezioni anticipate, è proprio uno degli atti suicidari della politica. Non è arbitraria, ma solo cronachistica, la “ritorsione” della quale il leader leghista parla quando si riferisce a Conte e al contributo dato in Parlamento ad un processo mancato invece per la vicenda, l’anno prima, della nave della Guardia Costiera Ubaldo Diciotti.

Caselli al Fatto Quotidiano

         Ma torniamo a Giancarlo Caselli e al suo richiamo ad Alessandro Galante Garrone, che lui ha voluto attualizzare al processo contro Salvini dicendo testualmente: “Se Meloni interviene a piedi giunti su un processo in corso bisogna essere qualcosa in più di un giudice intellettualmente onesto per fare il proprio lavoro, nell’unico Paese al mondo dove la politica non accetta di essere giudicata”.

         Già magistrato di alto livello e uomo dalle notoriamente forti e radicate opinioni, non credo che Caselli possa offendersi se gli riconosco un certo ascendente sulla categoria della quale ha fatto parte, a carriere non separate fra pubblici ministeri e giudici. Un ascendente al quale forse egli non ha pensato, nella foga del commento critico all’”intervento a piedi giunti” della presidente del Consiglio sulla richiesta di sei anni di carcere a Salvini, ma che può ben essere visto, intravisto, avvertito, come preferite, pensando ai giudici che a Palermo dovranno emettere la sentenza accettando o respingendo, o in difformità dalla pesante richiesta dell’accusa e dalle sue motivazioni. Ne avrebbero il pieno diritto, penso.

         E’ proprio a questi giudici che Caselli, volente o nolente, ha chiesto di dimostrare, ripeto, “qualcosa in più di intellettualmente onesto”. Ma che cosa? Per rimanere alla “combattività e coraggio” evocati da Alessandro Galante Garrone,  penso che giudici e pubblici ministeri ne abbiano dimostrato abbastanza morendo ammazzati nell’espletamento del loro lavoro da criminali di ogni risma e colore. Mi chiedo se lo debbano dimostrare in un processo come quello in corso a Salvini resistendo pregiudizialmente alla tentazione di un’assoluzione, magari pensando a quanto potrebbe rimanervi male chi si aspetta o reclama una condanna. E solo quella.

Se la Meloni è intervenuta a favore dell’imputato Salvini “a piedi giunti”, come è intervenuto Caselli con la sua intervista, peraltro avventuratasi poi su altri terreni, come la vicenda Toti che lascio fuori da questo commento? Per la risposta mi affido allo stesso Caselli, confidando nella stessa onestà intellettuale richiamata in via generale da Alessandro Galante Garrone.  

Pubblicato su Libero

Il giallo dei complotti contro il governo rilanciato dalla Meloni

Dal Dubbio

Su uno sfogo di pochissime parole raccolte direttamente dalla voce della premier Giorgia Meloni –“So quali sono i complotti eventuali e da dove vengono”- il Riformista ci ha costruito legittimamente, per carità, quasi una pagina. E titolo e foto di copertina. Legittimamente e anche giustamente sul piano professionale, cercando di risalire con ragionamenti e deduzioni da una serie di fatti e circostanze note a quella che potremmo definire una trama poco rassicurante per qualsiasi governo, e non solo per quello in carica. Una trama che incrocia più volte uomini e sigle dei servizi segreti.

Dal Riformista di ieri

         Non credo sia il caso di entrare nei dettagli del racconto ma credo, senza volere mancare di rispetto né personale, né politico né istituzionale per la presidente del Consiglio, che ha tutto il diritto di difendersi dai complotti, pur “eventuali”, che avverte attorno a lei e, più generalmente, attorno al governo e alla sua maggioranza; ma anche senza volere sostituirsi alle opposizioni, unite o disunite nel “campo largo” in cui sono volenterosamente immaginate da chi lo auspica; non credo, dicevo, che una libera stampa possa o debba sottrarsi alla curiosità di sapere qualcosa di più preciso, di meno “eventuale”, o allusivo, sullo scenario accreditato dalle parole della premier. E solo Giorgia Meloni può aiutare a soddisfare questa curiosità.

Meloni al Riformista

         Presumo che il Riformista per primo abbia cercato di saperne di più, raccogliendo quello sfogo, senza riuscirvi. E ha cercato di supplirvi non dico con la fantasia, che è notoriamente cosa molto diversa dal retroscena, ma con l’intelligenza, con l’intuizione, con la logica, mettendo insieme tasselli di un mosaico scomposto.      

         Se tra questi tasselli ci fossero davvero pezzi di servizi segreti, a qualsiasi sigla riferibili, non potrebbero che essere deviati, come noi cronisti o analisti meno giovani ci siamo abituati a considerarli e a chiamarli già nella cosiddetta prima Repubblica: in particolare, da quando nell’estate di 60 anni fa, cioè nel 1964, fu avvertito durante la crisi del primo governo di centro-sinistra di Aldo Moro il famoso “rumore di sciabole” attribuito ai diari del vice presidente del Consiglio socialista Pietro Nenni. Rumore che poi non fu trovato nel testo pubblicato. Ma la formula rimase ugualmente nel linguaggio e nell’immaginario politico collettivo, tanto da entrare -e neppure tanto di soppiatto- in una indagine che doveva essere parlamentare e che Moro trattenne, almeno sino a quando rimase a Palazzo Chigi, a livello amministrativo per il rispetto che sentiva di dover avere per l’aggettivo “segreti” applicato ai servizi di sicurezza dello Stato.

         Forse sono andato un po’ troppo lontano con gli anni e con gli uomini. Ma resta il problema, che ho sollevato all’inizio, di potere e doversi dire ad una libera stampa, ripeto, se non al Parlamento chiamato in causa dai loro stessi gruppi ed esponenti, qualcosa di più dello sfogo un po’ troppo ermetico concesso dalla Meloni al Riformista.  Non è solo una questione di governo, necessariamente di turno perché prodotto dalla democrazia con tutte le verifiche e i cambiamenti elettorali. E’ ancor più, e più stabilmente, una questione di Stato.

Pubblicato sul Dubbio

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