I sei anni “incredibili” di carcere -parola di Meloni- chiesti per Salvini

Da Repubblica

         Per quanto siano meno della metà dei 15 anni che lo stesso imputato si era ripetutamente vantato di rischiare solo per avere fatto il suo dovere governativo di “difendere i confini” nazionali minacciati dall’immigrazione clandestina, sembrano francamente un’enormità i sei anni di carcere – “incredibili”, ha commentato la premier Giorgia Meloni- chiesti dall’accusa contro Matteo Salvini nel processo noto come “Open Arms”. Che è il nome della nave del volontariato battente bandiera spagnola dalla quale nell’estate di cinque anni fa l’allora ministro dell’Interno ordinò di ritardare lo sbarco di 147 immigrati sequestrandoli -secondo l’accusa- in attesa che a livello europeo se ne concordasse la distribuzione.

La nave Open Arms

         Già indicato non a torto come il prodotto di una “ritorsione” politica dell’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte – il cui partito pentastellato aveva concorso alle scelte del ministro dell’Interno  prima che questi uscisse dalla maggioranza per tentare la strada delle elezioni anticipate sull’onda del successo conseguito nelle elezioni europee del 2019, arrivando addirittura al 34 per cento dei voti-  il processo autorizzato dalla maggioranza giallorossa contro Salvini per la vicenda dell’Open Arms è apparso in tutti i suoi limiti logici nella stessa requisitoria.  Che ha cercato di supplire con la fluviale lunghezza di sette ore alla scarsità di buon senso. Ancora una volta accantonato manzonianamente -come avrà forse pensato anche il capo dello Stato, cultore già in altre occasioni del grande scrittore e dei suoi Promessi sposi- per correre dietro al “senso comune”: quello di una certa impostazione del problema dell’immigrazione clandestina prevalente a sinistra. Dove è nato, prima ancora che negli uffici di una Procura, lo scambio di uno sbarco ritardato, e peraltro protetto da misure di sicurezza, per un sequestro di persone.

         Per sostenere questo scambio e smentire la rappresentazione di un processo alla politica perseguita legittimamente da un governo altrettanto legittimo, qual era quello di cui Matteo Salvini faceva parte come ministro dell’Interno, l’accusa ha distinto fra atto politico e atto amministrativo, negando il primo e attribuendo solo il secondo a Salvini.

         Non siamo ancora alla sentenza. E siamo ancora al primo grado di un processo che chissà di quanti anni avrà ancora bisogno per finire davvero, dopo i cinque trascorsi dai fatti. Che sono già  emblematici di un sistema giudiziario a dir poco anomalo. A dispetto del pessimismo gramsciano della ragione voglio esprimere l’ottimismo della volontà per un epilogo opposto a quello chiesto dall’accusa. 

         Anche un terrorista, certo, va salvato da un rischio di annegamento, ha ricordato a Salvini l’accusa. Come se qualche terrorista fosse annegato nel 2019 per soccorso negato dall’allora ministro dell’Interno. Ma di che cosa stiamo parlando in un’aula di Giustizia, con la maiuscola d’obbligo? Solo d’obbligo.

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