Che cosa non darei per parlare con qualche responsabile di Facebook e sapere come e perché ne abbia violato sensibilità, algoritmi e quant’altro, sino alla rimozione del mio post, scrivendo delle dimissioni di Gennaro Sangiuliano da ministro della Cultura e della sua sostituzione immediata con Alessandro Giuli come di un intervento di Giorgia Meloni al novantesimo minuto di una partita politica. Un intervento peraltro da me condiviso, non foss’altro per il merito di avere ripristinato il primato della politica in una vicenda avviatasi verso la solita deviazione giudiziaria. Cui è prontamente ricorsa l’opposizione con un esposto del deputato Angelo Bonelli alla Procura della Repubblica di Roma e lo stesso ormai ex ministro per difendersi dall’accusa di “ricattabilità” lanciatagli da Maria Rosaria Boccia in una delle sue tante reazioni pubbliche alla mancata nomina a consigliera per i grandi eventi dell’allora titolare del dicastero del Collegio Romano.
Che cosa non darei, ripeto, visto che in occasione di analoghe rimozioni di articoli nei mesi scorsi su altri temi, non sono riuscito a ottenere risposte alle richieste di chiarimenti e simili consentite per via telematica.
Meglio tardi che mai. Incoraggiata forse dietro le quinte da un presidente della Repubblica sfinito anche lui dalle cronache imbarazzanti dalle quali aveva cercato di tenersi fuori con qualche prevedibile fatica, la premier Giorgia Meloni ha tagliato il nodo del suo ancora ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano chiedendogli le dimissioni “irrevocabili”, dopo quelle che aveva respinto, ottenendole all’istante e sostituendolo con un altro comune amico e giornalista: Alessandro Giuli. Che, nominato a suo tempo proprio da Sangiuliano alla presidenza del Maxxi, l’acronimo del museo nazionale delle arti del ventunesimo secolo, si era già affacciato qualche sera fa al Ministero del Collegio Romano in visita non si sa se più di cortesia, di solidarietà, di esplorazione.
Maria Rosaria Boccia
Meglio tardi che mai, dicevo. Meloni ha segnato al classico novantesimo minuto il gol di questa partitaccia dalla quale non poteva uscire né con una sconfitta né con un pareggio. Ne è uscita con una soluzione politica, prima che sulla vicenda potessero prevalere le cronache giudiziarie innescate dalle opposizioni e dallo stesso Sangiuliano annunciando esposti e denunce contro quella che lui stesso aveva confessato ex amante, Maria Rosaria Boccia. Ma che era diventata -dopo la predisposta e poi mancata nomina a consigliera per i grandi eventi- una spietata accusatrice di debolezze, bugie, ricattabilità.
Da Repubblica
E’ una donna, questa Maria Rosaria Boccia, fisicamente immobile nelle sue interviste ma mobilissima negli argomenti e nelle sorprese, nelle rivelazioni e nelle allusioni. Sulle quali le opposizioni mostrano di volere ancora scommettere per tenere aperto un caso che invece la Meloni ha voluto o quanto meno cercato di chiudere. “Il caso non è chiuso”, ha titolato perentoriamente Repubblica, la nave ammiraglia della flotta di carta antigovernativa.
Dal Corriere della Sera
Sangiuliano ha lasciato il Ministero della Cultura portandosi via sulle spalle le sue gaffe, come lo ha immaginato o sorpreso sulla prima pagina del Corriere della Sera il vignettista Emilio Giannelli. Che però potrebbe rimpiangerlo come ha già fatto sulla Gazzetta del Mezzogiorno il suo collega Nico Pillinini. Che, temendo di perdere una buona fonte di ispirazione, ha disperatamente esortato l’ormai ex ministro a ripensarci.
Dal Riformista
Non sono solo i vignettisti in angoscia. Lo sono anche i titolisti. Che giocando sulla sequenza dei nomi avevano già anticipato la Meloni che “Boccia Sangiuliano”. Un cognome, quest’ultimo, che contiene, giocando con le minuscole e le maiuscole, come ha fatto il Riformista, anche quello dell’amico e successore dell’ex ministro.
Con la sua uscita dal governo Sangiuliano ha voluto restituirsi alla moglie, come ha scritto nella lettera di dimissioni seguendo il filo di una sua intervista al Tg1 commossa e pentita dei dispiaceri procurati anche a lei. Ma lo aspetta anche qualche nuovo incarico professionale alla Rai, dove aveva lasciato la direzione del Tg2 per andare a fare il ministro.
La cosa che mi fa più rabbia, a dir poco, della vicenda che porta i nomi di Gennaro Sangiuliano e di Maria Rosaria Boccia, ed è esplosa alla fine di un’estate tanto calda quanto pazza, è che ancora una volta la politica italiana debba finire appesa ad una specie di cappio giudiziario.
Sì, lo so. La memoria, anche diretta per i meno giovani, vi riporta a una trentina d’anni fa, cioè alle “Mani pulite” del 1992 e seguenti. Quando dopo una banale udienza di separazione fra l’allora presidente del Pio Istituto Trivulzio di Milano, Mario Chiesa, e la moglie che protestava per il denaro che il coniuge le lesinava nonostante tutti i ricchissimi conti bancari all’estero, scattò nella Procura della Repubblica di Milano, e si diffuse ad altre in Italia, la vicenda di Tangentopoli. Costata la vita alla cosiddetta prima Repubblica.
Eppure vi sbagliate, e di grosso. Questa maledizione della cronaca politica che incrocia quella giudiziaria e ne viene inghiottita, sopra e ancor più dietro le quinte, risale ad ancor prima: a più di 70 anni fa, quanti ne sono appena trascorsi -celebrati da tutti, anche da quelli che ne furono i più accaniti avversari- dalla morte di Alcide De Gasperi.
Alcide De Gasperi
Nel 1953, dopo il suo ultimo governo dimessosi il 28 luglio, lo statista democristiano già seguiva con tristezza e apprensione la lotta nella Dc alla sua vera, non formale o provvisoria successione, che andò meno di un mese dopo a Giuseppe Pella su iniziativa personale dell’allora presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Al quale Attilio Piccioni, da molto tempo considerato l’esponente democristiano più affine a De Gasperi, aveva dovuto quasi misteriosamente rimettere l’incarico di presidente del Consiglio che aveva ricevuto.
Tre mesi prima di quella rinuncia, esattamente il 9 aprile 1953, era stata trovata morta sulla spiaggia romana di Tor Vajanica, Wilma Montesi. Ed erano scattate indagini su feste, frequentazioni e altro avessero potuto avere a che fare con la sua tragica fine. Si diffusero voci di Polizia e dintorni sulla partecipazione di un figlio di Piccioni, il musicista Piero, a quel giro. Figlio che venne arrestato il 21 settembre 1954 e assolto nel 1957.
Attilio Piccioni
Attilio Piccioni ne sarebbe rimasto ugualmente segnato, per quanto fosse tornato ad avere incarichi di governo: vice presidente del Consiglio e per un po’ anche ministro degli Esteri fra il 1960 e il 1963 con Amintore Fanfani e Giovanni Leone presidenti. Mi onoro di essere stato, giovanissimo cronista parlamentare, fra i suoi ultimi, abituali frequentatori nei corridoi e sui divani di Montecitorio, dove lui andava quasi ogni giorno e, masticando qualcuna delle caramelle acquistata alla buvette, si lasciava di rado strappare qualche monosillabo alle domande sulle vicende del suo partito e del governo di turno.
Erano, ripeto, non più di monosillabi. Dei quali tuttavia egli presto si pentiva e preoccupava al tempo stesso, sino a inseguire l’interlocutore appena allontanatosi per precisargli di non avergli detto “nulla”, ma proprio nulla. E l’interlocutore non aveva difficoltà a garantirgli la massima discrezione.
Giorgia Meloni e Carlo Nordio
I tempi sono cambiati, gli uomini e le donne pure, persino le Repubbliche, essendovene una quarta almeno nel titolo di una trasmissione televisiva di un certo e meritato successo, nessuno dei cui ospiti ne ha mai contestato il nome. Ma questa maledizione, ripeto, della cronaca politica che incontra o produce la cronaca giudiziaria e ne viene travolta non è finita. E non so neppure, non riesco a immaginare se e quando finirà, per quanto meno di due anni fa sia nato un governo, per la prima volta a guida femminile, lodevolmente propostosi di restituire alla politica il primato assegnatole dalla Costituzione. E con un ministro della Giustizia come Carlo Nordio, che pur provenendo dalla magistratura, o forse proprio per questo, con l’esperienza fattasi con la pubblica accusa, è ben convinto del proposito e del programma datosi dal governo di cui fu parte.
Forza ministro, forza signora presidente del Consiglio, datevi da fare e non deludeteci, per quanti problemi o contrattempi possiate incontrare sul vostro percorso. E per quanti insulti possiate rimediare dai vostri avversari, largo o stretto, arido o limaccioso possa essere il loro campo. E complimenti, signora premier, per avere sciolto alla fine il nodo Sangiuliano prima che si aggrovigliasse ancora di più.
Fra gli aspetti più paradossali, e tristi, di questa benedetta -si fa per dire- vicenda dell’ormai ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano c’è la necessità in cu egli ha finito di trovarsi di imboccare la strada giudiziaria per difendersi dalla “ricattabilità” contestagli dalla sua ex di tante cose Maria Rosaria Boccia.
L’ex ministro cioè è stato praticamente costretto a seguire lo stesso percorso imboccato contro di lui dal deputato dell’opposizione Angelo Bonelli. Che ha depositato nel posto di Polizia della Camera un esposto alla Procura della Repubblica di Roma con undici allegati per presunto peculato e violazione del segreto d’ufficio in cui Sangiuliano sarebbe incorso intrattenendo rapporti con la Boccia.
Così i magistrati -o “il Soviet delle toghe rosse” sarcasticamente evocato da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano– non hanno dovuto alzare neppure un sopracciglio. La politica è finita spontaneamente fra i loro piedi e le loro mani. E temo che vi rimarrà a lungo anche in o per questa vicenda esplosa come un gossip e sviluppatasi come un dramma che non si sa, francamente, se più umano che persino istituzionale, dato che prima o dopo essa dovrà finire -temo anche questo- sulla scrivania del presidente della Repubblica, che ha cercato sinora di tenersene fuori. O ne è stato tenuto fuori da chi forse avrebbe potuto e dovuto chiedergli quanto meno qualche consiglio, risalendo la nomina di San Giuliano a ministro a un decreto del Capo dello Stato adottato a suo tempo “su proposta del presidente del Consiglio”, come dice l’articolo 92 della Costituzione.
Giorgio Napolitano
Insomma, per farla corta e breve, ancora una volta il “primato della politica” -vi dice nulla questa espressione?- è stato piegato da quello della giustizia, secondo il “forte squilibrio” fra i poteri creatosi a favore della seconda una trentina d’anni fa e denunciato con nettezza dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrivendone pubblicamente alla vedova Craxi nel decimo anniversario della morte del marito Bettino. Che aveva ricevuto nelle sue vicende giudiziarie per il diffuso finanziamento illegale dei partiti, e più in generale della politica, un trattamento di una “severità senza uguali”. Trattato cioè come un capro espiatorio, e costretto ad andarsene a morire, con la malattia che aveva, in terra straniera per non rischiare di morire in un carcere italiano. O in una stanza d’ospedale piantonato da Carabinieri, come si era predisposto a disporre l’allora capo della Procura di Milano quando gli si profilò l’ipotesi di un rientro dell’ex presidente del Consiglio per farsi operare di tumore al rene in condizioni di migliore sicurezza sanitaria che a Tunisi.
Il “primato della politica”, dicevo. Condiviso e sbandierato anche dalla destra ex o post-giustizialista dopo il suo arrivo al governo e ancor più alla guida di esso. Ne scrisse la premier in persona firmando il registro delle presenze dopo avere visitato a Testaccio una mostra in memoria di Enrico Berlinguer. Ma quale primato della politica “che è tutto”, come scrisse appunto la Meloni, e dove scorrendo le cronache della vicenda Sangiuliano nelle pieghe che hanno preso negli ultimi giorni?
Beppe Grillo
Verso un percorso giudiziario- non importa se solo civile e non penale, sempre giudiziario è- si avvia ormai anche la vicenda del MoVimento 5 Stelle per lo scontro in corso fra il fondatore e garante Beppe Grillo e il presidente Giuseppe Conte, deciso a discutere in una Costituente autunnale anche l’indiscutibile costituito secondo Grillo dal nome, dal simbolo e dal limite dei due mandati elettivi.
Dal blog di Beppe Grillo
Se finirà tutto in una causa, Conte da avvocato e professore di diritto è sicuro di vincerla. Altrettanto però Grillo e i suoi avvocati. Che nell’ultima sortita sul blog personale, sotto il titolo latino “Repetita iuvant”, per niente trattenuto dalle sue funzioni anche di consulente praticamente di Conte a contratto per la comunicazione, ha rivelato tutta la natura profondamente politica dello scontro. Egli ha scritto, in particolare, contro gli “abbracci mortali” del suo MoVimento col Pd e gli altri aspiranti al cosiddetto “campo largo” -o solo “giusto”, come Conte preferisce chiamarlo- dell’alternativa al governo Meloni. Del quale non vorrei che alla fine, per dispetto, Grillo dovesse comicamente prendere le difese proprio nel momento in cui esso appare più indebolito.