Ora occhio anche al Colle, per favore, sul caso Sangiuliano-Boccia

Il Torrino del Quirinale

         In questa vicenda sconcertante, a dir poco, del ministro della Cultura e della sua ex o mancata assistente, consulente, consigliera e quant’altro Maria Rosaria Boccia, entrata in “conflitto d’interesse” affettivo con lui, il Quirinale si è trovato coinvolto per qualche minuto nei giorni scorsi, quando si  sono diffuse voci su una telefonata a Palazzo Chigi per chiedere informazioni. Voci smentite ufficialmente dal Colle.

La vignetta del Fatto Quotidiano

         Ma dopo quella smentita sono accadute altre cose strane che potrebbero avere fatto cambiare non dico opinione, ma almeno umore al Quirinale. Sono subentrate, fra l’altro, dimissioni del ministro della Cultura che la presidente del Consiglio ha immediatamente respinto, lasciando al suo posto Gennaro Sangiuliano. Poco importa a questo punto se volentieri o no, per convinzione o solo per paura di affrontare i problemi della sostituzione del ministro, delle ambizioni personali e partitiche alla successione e delle possibili complicazioni nel percorso dell’avvicendamento.

La vignetta del Secolo XIX

         L’articolo 92 della Costituzione stabilisce nel suo secondo comma, come si dice in gergo tecnico e giuridico,         che “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Anche Sangiuliano, quindi, fu nominato meno di due anni fa ministro da Sergio Mattarella su proposta di Giorgia Meloni. Non credo allora che sia arbitrario chiedersi, almeno sul piano del buon senso e della buona educazione, se non su quello addirittura costituzionale, se sia stato corretto tenere estraneo il Capo dello Stato a questa vicenda, se vi è stato davvero estromesso. O anche se egli stesso abbia fatto bene a rimanerne estraneo, se davvero ciò fosse avvenuto anche dopo la smentita già accennata alle prime voci diffusesi su un suo interessamento.

Il ministro Sangiuliano intervistato dal Tg 1

         Queste considerazioni valgono ancor di più considerando anche i riflessi ormai anche internazionali d’immagine dell’Italia e del suo governo a ridosso di un G7 della Cultura, con relative manifestazioni, a presidenza italiana, appunto. E con ancora Gennaro Sangiuliano ministro della Cultura, costretto da sgradevoli circostanze anche a mescolare pubblico e privato, famiglia e ufficio in una lacrimosa intervista televisiva al Tg1, quello di Stato. Non scrivo altro più per imbarazzo che per convinzione.

Ripreso da http://www.startmag.it

La fortuna della destra italiana rispetto a quella della Germania

Da Libero

Il quasi settantenne Marco Follini è un democristiano doc che ha saputo rimanere coerentemente e dignitosamente al centro, anche a costo di rompere prima con l’amico Pier Ferdinando Casini, quando gli sembrò troppo condizionato da Silvio Berlusconi, e poi col Pd. Dove ad un certo punto si era rifugiato, e dove invece è finito e rimasto come ospite lo stesso Casini dopo la rottura col centrodestra. Egli ha appena scritto sulla Stampa del “dilemma” della Dc tedesca alle prese con la forte avanzata della destra estrema, nibelungica. Ed ha augurato agli eredi di Konrad Adenauer e di Helmut Kohl di saperle resistere come fece la Dc di Alcide De Gasperi e di Aldo Moro con la destra italiana.

  De Gasperi si scontrò addirittura con Pio XII, che gli rifiutò un’udienza familiare non perdonandogli il rifiuto di un’alleanza elettorale con la destra romana per evitare il pericolo avvertito in Vaticano che il Campidoglio finisse nelle mani della sinistra egemonizzata dal Pci.

Marco Follini

         Anche la Dc tedesca -la Cdu- dovrebbe resistere ad ogni tentazione con la destra, “magari -ha osservato alla fine Follini- con un risultato più felice di quello che da ultimo si ebbe dalle nostre parti”. Dove altre volte, anche di recente, lo stesso Follini si è doluto di una destra risultata vincente nelle urne, con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, quasi tre volte più forte elettoralmente sia di Forza Italia sia della Lega, nate e cresciute a loro tempo pescando voti anche o soprattutto in quello che era stato il mare della Dc.   

         Ma ciò è potuto accadere dalle “nostre parti”, appunto, senza compromettere la democrazia, come rischia invece di accadere in Germania e come solo una sinistra esasperata, anzi ossessionata, grida in Italia sentendosi addirittura all”’anno II dell’era Meloni” – è stato scritto in questi giorni con l’evocazione del fascismo- grazie alla moderazione impersonata dalla premier. Che non è fascista, non foss’altro per ragioni anagrafiche, ma semplicemente e orgogliosamente conservatrice. Come lo era, elettoralmente e parlamentarmente, buona parte della Dc vissuta anche da Follini.

Giorgia Meloni e Gianfranco Rotondi

         Non a caso, scomparsa la Dc, nelle liste elettorali della Meloni e dei suoi fratelli d’Italia sono finiti democristiani ancora orgogliosi della loro provenienza come Gianfranco Rotondi. Che pure in una manifestazione commemorativa della buonanima di Fiorentino Sullo, presente anche Ciriaco De Mita, una quindicina d’anni aveva scambiato per un quasi post-democristiano addirittura Giuseppe Conte, passato da un’alleanza di governo con la Lega ad una col Pd. E’ passato evidentemente abbastanza tempo, e Conte ne ha fatte abbastanza, per consentire a Rotondi di chiarirsi le idee.

         Più che di un certo elettorato, è di una certa nomenclatura democristiana, particolarmente di sinistra, che è fatto il Pd della segretaria Elly Schlein dopo avere peraltro perduto per strada uomini come l’ex ministro Giuseppe Fioroni o allarmato -a dir poco- uomini come Pierluigi Castagnetti. Che per decidere se rimanere ancora nel Pd o andarsene pure lui aspetta forse di vedere se sulle tessere del 2025 la Schlein deciderà davvero di stampare gli occhi di Alcide De Gasperi o di Aldo Moro, dopo avervi stampato su quelle di quest’anno gli occhi di Enrico Berlinguer in previsione del quarantesimo anniversario della sua morte.

De Gasperi morì invece 70 anni fa, appena celebrati col consenso anche dei reduci del Pci che nel 1948 ne aveva auspicato la cacciata dal governo “a calci in culo”, gridati testualmente nelle piazze dal segretario comunista Palmiro Togliatti.

Moro invece morì 46 anni fa ucciso dai terroristi rossi dopo una prigionia di 55 giorni  cominciata col sequestro in via Fani, a Roma, e costata la vita a tutta la scorta del presidente della Dc come in una “macelleria”, secondo un’immagine usata poi da una esponente delle stesse brigate rosse.

Moro, a dire la verità, è già in un monumento nella sua Maglie, commissionato dalla Dc, con una copia non del Popolo, il giornale democristiano, ma dell’Unità in tasca. Non è detto tuttavia che ciò potrà bastare alla Schlein per riprodurne gli occhi sulle tessere piddine dell’anno prossimo.

Pubblicato su Libero

Ripreso da http://www.startmag.it il 7 settembre

La pentola Sangiuliano creata dal diavolo senza coperchio e manici

Dal Dubbio

Si sa che il diavolo fa le pentole senza i coperchi, con tutti gli inconvenienti che ne derivano.  Questa volta, con la pentola di Giorgia Meloni alle prese con l’affare sempre meno culturale del pur ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e della sua ex o mancata consigliera Maria Rosaria Boccia, il diavolo ha dimenticato anche i manici. Per cui la premier ha difficoltà pure a sollevarla dal fuoco delle opposizioni sempre più tentate dal ricorso alla mozione parlamentare di sfiducia. Che potrebbe anche essere respinta per la disciplina che vorrà o potrà imporre la premier alla maggioranza, ma non credo senza altri danni all’immagine del governo.

         Con questa storia della pentola senza i manici, il diavolo ma un po’ anche il ministro Sangiuliano hanno rovinato la festa alla Meloni appena raggiunta felicemente da notizie provenienti addirittura da Berlino, dove si pensava che ci fossero le maggiori difficoltà, sull’avvicinamento di Raffaele Fitto, appena designato dall’Italia per l’organismo esecutivo dell’Unione Europea, alla carica anche di vice presidente della Commissione di Bruxelles. Una carica mancata all’Italia nella commissione uscente pur essendo il rappresentante italiano, Paolo Gentiloni, un ex presidente del Consiglio.

Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni

         Il passo avanti di Fitto verso la vice presidenza o una delle vice presidenze della Commissione è stato possibile grazie ai rapporti personali che la Meloni ha evidentemente conservato con la presidente Ursula von der Leyen, pur avendole fatto mancare i voti dei suoi europarlamentari per la conferma, e all’indebolimento politico dei poco o per niente convinti Emanuel Macron e Olaf Scholz. Il primo è ancora alle prese in Francia, due mesi dopo il secondo e conclusivo turno di elezioni anticipate da lui stesso volute, col problema della formazione di un nuovo governo, almeno nel momento in cui scrivo. Il secondo è stato umiliato sia dalle elezioni europee di giugno sia dalle elezioni regionali appena svoltesi in Turingia e Sassonia. Dove la destra estrema -non quella conservatrice della Meloni in Italia- ha lasciato in braghe di tela il cancelliere tedesco, forse non più in grado neppure di arrivare l’anno prossimo alla fine ordinaria della legislatura. Sarebbe sempre più pronto a sostituirlo il più popolare, o meno impopolare a sinistra Boris Pistorius, ministro attuale della Difesa.

         Fra gli inconvenienti della pentola senza manici del caso Sangiuliano-Boccia c’è il tentativo, quanto meno, delle opposizioni di estenderne i confini, diciamo così, attribuendo al ministro la responsabilità di avere messo al corrente della sua ex o mancata consigliera affari di sicurezza internazionale nella preparazione del G7 della Cultura, o di alcune delle sue manifestazioni. Un inconveniente, dicevo, che la Meloni, per quanto rassicurata dal suo ministro in un lungo incontro a Palazzo Chigi, dal quale Sangiuliano è uscito ancora e regolarmente in carica, spera comprensibilmente non destinato a creare difficoltà all’aspirazione dell’Italia alla o -ripeto- a una delle vice presidenze della Commissione di Bruxelles. Sarebbe un vero peccato: la ciliegina intossicata su una torta già con seri problemi di commestibilità.

Raffaele Fitto

         Per tornare nei confini di una questione nazionale, un altro inconveniente della pentola senza manici del caso Sangiuliano-Boccia è la difficoltà che la Meloni avrebbe di sostituire il ministro della Cultura evidentemente costretto alle dimissioni dagli sviluppi della sua ultima vicenda o gaffe. Oltre a Fitto ormai in trasferimento a Bruxelles e alla pericolante Daniela Santanchè al Turismo per le sue vicende giudiziarie.

Quello che una volta si chiamava “rimpasto”, cui i governi di turno ricorrevano per sostituire uno o più ministri, è notoriamente avvertito dalla premier, secondo cronache e retroscena unanimi, come un passaggio di forte rischio per la sua maggioranza. Dove non mancano tensioni che l’ultimo vertice, quello della ripresa dopo le vacanze d’agosto, non ha certamente dissipato, per quanti sforzi compia comprensibilmente la premier di negarli o minimizzarli.  La stabilità di un governo, nella cosiddetta e lontana prima Repubblica ma anche nelle edizioni successive, si giudica pure dalla sua capacità di tenuta in caso di cambiamenti imposti dalle circostanze.

Pubblicato sul Dubbio

Blog su WordPress.com.

Su ↑