La coppia di ferro Bettini-Conte rimette in sicurezza la premier

Dal Corriere della Sera

Ancora una volta, come accade ormai dal 2019, Goffredo Bettini chiama dal Pd e Giuseppe Conte risponde dal MoVimento 5 Stelle. Il primo ha scritto sul Fatto Quotidiano di ieri a proposito del penultimo Matteo Renzi offertosi al cosiddetto campo largo dell’alternativa al governo Meloni e del “quadro” che si è delineato con la disponibilità della segretaria del Pd Elly Schlein: “Da inopportuno si si sta trasformando in un letale errore politico. Giusto far cadere i veti, stravagante dare le chiavi dell’allargamento del centrosinistra a Renzi. L’ex premier ha esaurito un ciclo. Ha lasciato detriti che non vanno scaricati sul futuro”. Conte ha raccolto e rilanciato dichiarando all’Ansa che “resuscitare Renzi è un harakiri”, cioè un suicidio, per il campo largo. Di cui peraltro al presidente pentastellato non piace neppure il nome, cioè l’aggettivo, volendolo semplicemente “giusto”. E con Renzi, dopo tutto quello che gli ha fatto prima salvandolo a Palazzo Chigi e poi rovesciandolo per farlo sostituire da Mario Draghi, giusto non gli sembra per niente. E il Corriere della Sera ne ha fatto “la spalla” di prima pagina, come si dice in gergo tecnico.

Dalla prima pagina di Domani

Stefano Patuanelli, capogruppo pentastellato al Senato, ha rincarato in una intervista a Domani così titolata fra virgolette: “Il M5s mai con Renzi. Se il Pd insiste salta il centrosinistra”.

Elly Schlein

Elly Schlein, collegata da Procida con la trasmissione in onda sulla 7, per quanto infornata dalla stessa autrice dell’intervista di Domani a Patuanelli, si è rovesciata addosso un’infinità di parole e di gesti per lasciare lo stesso le porte aperte a Renzi. Ancora grata, evidentemente, di quel passaggio di palla da lui ottenuto in una partita di beneficienza che le consentì sul campo dell’Aquila di segnare un gol, peraltro beffardamente inutile perché in fuori gioco.

Nella situazione in cui si trovano i suoi avversari, che ne prevedono o annunciano la crisi un giorno sì e l’altro pure, Giorgia Meloni potrebbe godere e ringraziare.  A godere forse ha già provveduto. A ringraziare non ancora perché anche dopo il vertice della maggioranza voluto per annunciare un “nuovo patto di alleanza” e raccomandare, anzi reclamare “unità”, la premier continua ad avere problemi con i suoi due vice presidenti del Consiglio, e i partiti che sono alle loro spalle.  

Bettini e Conte d’archivio

La coppia che funziona sembra essere solo quella di Bettini e Conte, basata sulla convinzione espressa dallo stesso Bettini all’amico in una festa di compleanno: “In politica conta l’amicizia e l’alchimia, come tra me e Giuseppe”, cioè l’ex premier convinto di essere ancora “il punto di riferimento più alto dei progressisti in Italia”, cui proprio Bettini lo promosse nel già ricordato 2019.

Ripreso da http://www.startmag.it

Sogni e spinte alla crisi di governo come ai tempi di Craxi a Palazzo Chigi

Da Libero

Da vecchio cronista -molto vecchio, lo riconosco, ma ancora vivo e con una buona memoria, ringraziando Dio- sto rivivendo di fronte al governo di Giorgia Meloni, pur in circostanze tanto diverse, per carità, la stessa esperienza emotiva e politica di una quarantina d’anni fa di fronte al governo di Bettino Craxi. Che non aveva vinto le elezioni del 1983, come Meloni invece quelle del 2022, ma era riuscito lo stesso a strappare Palazzo Chigi alla Dc guidata da Ciriaco De Mita. Che si era paradossalmente proposto al vertice dello scudo crociato, succedendo a Flaminio Piccoli, proprio per evitare che l’ingombrante alleato socialista rivendicasse quel palazzo mancatogli nel 1979, quando a spingerlo era stato l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Quest’ultimo aveva voluto dare alla Dc il massimo di garanzia nella ripresa dell’alleanza col Psi dopo il disimpegno di Francesco De Martino e la conseguente parentesi della “solidarietà nazionale”, realizzatasi con due monocolori democristiani di Giulio Andreotti appoggiati esternamente dal Pci di Enrico Berlinguer.

All’inattesa iniziativa di Pertini, conferendo a Craxi l’incarico di presidente del Consiglio, la Dc aveva reagito tuttavia chiudendosi a riccio. Solo Arnaldo Forlani, astenendosi in una decisiva riunione della direzione del partito, aveva apprezzato astenendosi sul no opposto da tutti gli altri.

Quattro anni dopo Craxi arrivò lo stesso a Palazzo Chigi, nonostante- ripeto- nel frattempo fosse diventato segretario dello scudocrociato il suo avversario più dichiarato e ostinato, ma penalizzato nelle urne perdendo sei punti percentuali in un colpo solo.

Bettino Craxi nel 1983

Dall’approdo del leader socialista alla guida del governo non vi fu praticamente giorno senza che la Repubblica -quella di carta diretta ancora dal fondatore Eugenio Scalfari- ne annunciasse la crisi imminente scommettendo sui malumori e quant’altro di De Mita. Che nel referendum del 1985 sui tagli antinflazionistici apportati dal governo alla scala mobile dei salari non ritenne di fare un solo comizio -dico uno- a favore di Craxi e contro i promotori dell’abrogazione di quel provvedimento.  Esso fu bocciato in alcune località grandi e piccole, come la Nusco di De Mita, in Irpinia, ma a livello nazionale confermato dal 54,3 per cento degli elettori contro il 45,7. E con un’affluenza alle urne di quasi il 78 per cento.

Craxi e De Mita

Fu uno smacco non so, francamente, se più feroce, come apparve, per l’ormai buonanima di Berlinguer, morto dopo avere imposto il referendum alla Cgil, o per De Mita rimasto tuttavia in sella al cavallo democristiano per continuare nella sua opera non proprio di fiancheggiamento al governo, dove pure la Dc era rappresentata dalla maggioranza dei ministri.

Nell’autunno di quello stesso anno il governo Craxi sopravvisse anche alla crisi tentata dal ministro della Difesa Giovanni Spadolini dimettendosi per protesta dopo uno scontro fra Craxi in persona e l’allora presidente americano Ronald Reagan sull’epilogo del sequestro terroristico della nave italiana Achille Lauro nelle acque del Mediterraneo. “Dear Bettino”, scrisse Reagan in persona al premier italiano per chiudere l’incidente scoppiato sulla pretesa della Casa Bianca di processare gli autori palesinesi di quel sequestro in America e non in Italia, dove i terroristi erano atterrati con un aereo egiziano che li trasportava in Tunisia, intercettato dai caccia statunitensi.

Amintore Fanfani

Per liberarsi di quel governo, dopo una crisi tentata nell’estate del 1986 dalla Dc cercando di mettere in pista per Palazzo Chigi Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri di Craxi, il segretario dello scudo crociato dovette ricorrere nel 1987 all’allora presidente del Senato Amintore Fanfani per un governo monocolore democristiano da fare bocciare a Montecitorio dalla stessa Dc perché l’imbarazzatissimo  presidente della Repubblica Francesco Cossiga potesse, anzi dovesse sciogliere anticipatamente le Camere. E mandare gli italiani alle urne con un anno di anticipo rispetto alla scadenza ordinaria.

Ai fortunatamente più giovani cronisti di me questo racconto risulterà forse incredibile. Ma corrisponde alla realtà, oggi improponibile e inimmaginabile per le diverse forze in campo e gli ancor più diversi rapporti di forza. Tutto è davvero cambiato da allora in Italia, anche con nuove edizioni della Repubblica: quella vera. Ma non nelle abitudini e aspirazioni della Repubblica di carta alla crisi di un governo sgradito. Eppure essa nel frattempo è cambiata di proprietà e più volte anche di direttore.

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