Atto secondo, e non ultimo, dell’abuso di critica al Capo dello Stato

Dalla Stampa

         In quel governo accusato oggi dalla Stampa di “farsi scudo del capo dello Stato”, ringraziato pubblicamente dal ministro della Giustizia Carlo Nordio di avere firmato la legge che abolisce il reato di abuso d’ufficio, e rende meno facile in prospettiva il ricorso al carcere nella fase pur preliminare delle indagini, c’è qualcosa di critico che va oltre lo stesso governo. E’ inutile, o ipocrita, negarlo o fare finta di niente.

Se il governo si fa scudo, in modo presumibilmente arbitrario, del capo dello Stato, quest’ultimo evidentemente glielo consente, risparmiandogli le proteste ogni tanto levatesi dal Quirinale quando ad usarlo come scudo hanno tentato le opposizioni, politiche o mediatiche che fossero.

Dal Fatto di ieri

         Più esplicitamente di oggi sulla Stampa era stato ieri il solito Fatto Quotidiano, in un editoriale del suo direttore Marco Travaglio, a rimproverare al presidente della Repubblica “un segno di debolezza dinanzi all’arroganza delle destre e dei loro complici calendiani e renziani (quelli che intanto vorrebbero entrare nel centrosinistra), che si erano financo permesse di mettergli fretta via Twitter” a firmare la legge intestata a Nordio. E a permettere “grazie a quella firma” che “chi abuserà del suo potere per favorire i soliti noti e danneggiare chi non ha santi in paradiso sa di poterlo fare impunemente col consenso del capo dello Stato”.

I critici lamentano infine che quanti sono stati già condannati per abuso d’ufficio possano liberarsi degli effetti senza le procedure ormai impraticabili dell’amnistia e dell’indulto, occorrendo a questo scopo dal 1992 una legge “deliberata a maggioranza dei due terzi di componenti di ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale”. Parole, testuali, dell’articolo 79 della Costituzione, modificato nello spirito giacobino dell’epoca di “Mani pulite”, quando le Camere si ridussero spontaneamente anche l’immunità voluta dai costituenti, memori di quanto il fascismo  avesse voluto e potuto fare contro i parlamentari d’opposizione.  Dopo l’assassinio del deputato socialista  Giacomo Matteotti, appena intervenuto contro il governo, Mussolini volle assumersene spavaldamente la responsabilità a Montecitorio, nella colpevole indifferenza di una Monarchia ormai suicida. E destinata non a caso a perdere il referendum popolare del 1946.

Dal Corriere della Sera di ieri

Per essere onesto e franco sino in fondo, considero un abuso offensivo nei riguardi del capo dello Stato anche la vignetta di ieri del Corriere della Sera in cui Emilio Giannelli gli faceva firmare la legge intestata a Nordio col piede, anziché con la mano, sopra il titolo di “obbligo di firma”. Che in Costituzione esiste solo se una legge rinviata alle Camere dovesse essere approvata “nuovamente”. In tutti gli altri casi quella del presidente della Repubblica è una firma in totale libertà di coscienza.  Un ripasso dell’articolo 74 della Costituzione è consigliabile anche ai vignettisti.

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Il Quirinale reale e quello immaginario, dalla scena al retroscena

Da Repubblica

         E così, prima di andare in ferie pure lui, anche se negli ultimi momenti utili sul piano costituzionale, il presidente della Repubblica ha firmato la legge che, fra l’altro,  abolisce il reato di abuso di ufficio. E che alcuni, sentendo puzza addirittura di “Stato canaglia”, speravano egli rinviasse invece alle Camere. O la firmasse accompagnandola con una lettera di osservazioni spendibile nella cronaca politica come contributo all’opposizione al governo.

         Di Sergio Mattarella sono destinati a rimanere nella storia politica non i suoi presunti abusi ma quelli compiuti da retroscenisti e simili nell’attribuirgli continuamente un’azione di sabotaggio, o quasi, del governo di Giorgia Meloni. Della quale non sono mai bastate le smentite, e i racconti della collaborazione sempre trovata al Quirinale ogni volta che ha avuto o avvertito problemi. 

Dal Corriere della Sera di ieri

         L’ultima che è stata attribuita al presidente della Repubblica, non so francamente se per eccesso più di zelo verso la fonte o altro, è “la sorpresa”, come ha titolato ieri il Corriere della Sera, per un incontro chiestogli dal ministro della Giustizia Carlo Nordio sui problemi delle carceri, del loro sovraffollamento, delle tragedie che vi avvengono. Una sorpresa che stride fortemente, logicamente, politicamente, umanamente con quanto lo stesso Mattarella ha detto a proposito della questione penitenziaria nell’incontro recente con la stampa parlamentare per la consegna del tradizionale ventaglio anche a lui, e non solo ai presidenti delle Camere.

Mattarella alla cerimonia del Ventaglio

         “Vi è un tema -ha detto testualmente il capo dello Stato in quell’occasione- che sempre più richiede una vera attenzione: quello della situazione nelle carceri. Basta ricordare le decine di suicidi, in poco più di sei mesi, quest’anno. Condivido con voi una lettera che ho ricevuto da alcuni detenuti di un carcere di Brescia: la descrizione è straziante. Condizioni angosciose agli occhi di chiunque abbia sensibilità e coscienza. Indecorose per un Paese civile qual è e deve essere l’Italia. Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza, non va trasformato in palestra criminale”.

Dichiarazioni di Crosetto

         A e di chi ha potuto soltanto immaginare, dopo parole del genere, un fastidio del capo dello Stato ad una richiesta di parlarne da parte del Guardasigilli si può dire che “il vero giornalismo in agosto va in vacanza”, come ha dichiarato il ministro della Difesa Guido Crosetto commentando i retroscena che hanno attribuito anche a lui divergenze con Mattarella sulla giustizia e dintorni.  

Mattarella e Crosetto

“Non attaccherei mai Mattarella, che considero un pilastro della nostra Nazione, non solo per il ruolo istituzionale che riveste in questi anni ma anche per la sua storia e per l’amicizia che mi lega a lui”, ha detto il ministro della Difesa. Le cui parole non basteranno, temo, a chiarire i suoi rapporti col Quirinale e dintorni a certi giornalisti dei quali si può ben dire anche, con un vecchio proverbio, che non c’è sordo peggiore di chi non vuole sentire.   

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Tutte le sorprese di Matteo Renzi…in onda televisiva

Lilli Gruber ed Enrico Mentana

         Con Lilli Gruber, ora in ferie non so se al mare in attesa di andare in montagna, dalle sue parti altoatesine, o viceversa, erano “otto e mezzo” di nome – un orario difeso dalla conduttrice come una guerriera, anche a costo di dare del maleducato ad Enrico Mentana che sforava col suo telegiornale- e di audience. A volte anche di più di otto e mezzo, secondo l’argomento e l’ospite, in genere da strapazzare anche quando è solo contro tutti.  

La puntata del 6 agosto in onda su la 7

         Con Marianna Aprile e Luca Telese, in ordine rigorosamente alfabetico, oltre per ragioni di galanteria pur non più tanto di moda in questi tempi bizzarri, si va invece all’incirca alla stessa ora “in onda” di nome e di fatto. L’audience rispetto alla “mezz’ora” delle altre stagioni è invece inferiore, ma sempre di tutto rispetto: circa il sette per cento. Ma il 6 agosto scorso si è quasi dimezzato scendendo ad un 4 rivelato dal Fatto Quotidiano: sospetto con qualche soddisfazione perché di collegamenti col giornale di Travaglio la coppia Aprile-Telese in genere non ne fa, diversamente dalla Gruber.

         La differenza il 6 agosto non l’ha fatta però il mancato collegamento col giornale di Travaglio ma la presenza nello studio televisivo di un Matteo Renzi particolarmente debordante. E anche carino con la vice direttrice della Stampa Annalisa Cuzzocrea, seduta accanto a lui, che gli aveva tirato la volata nell’inseguimento della segretaria del Pd Elly Schlein raccogliendone, in una intervista, la promessa di liberare il cosiddetto campo largo dell’alternativa al centrodestra dai veti risalenti ai tempi di Enrico Letta. Veti a cominciare naturalmente da quello contro Renzi, spesosi poi in una partita del cuore, di nome e di fatto, con un passaggio di palla proprio alla Schlein perché segnasse un gol, per quanto fuori gioco e perciò annullato.

Dal Fatto Quotidiano

         Per quanta vivacità verbale e mimica ci abbia messo, per quanti calcoli alla mano abbia fatto per dimostrare che di solito si vince più facilmente insieme che separati, a meno che l’insieme non sia troppo confuso e quindi elettoralmente indigesto, Renzi non è riuscito a tenere su l’audience. E si è beccato dal Fatto Quotidiano -chissà se nell’intimo anche dai conduttori della trasmissione- l’accusa di “non essere più una calamita né per gli elettori né per gli spettatori”.

Dalla Verità

         Ancora più feroce con lui è riuscito però ad essere sulla Verità Maurizio Belpietro, che forse non gli ha ancora perdonato di averlo fatto litigare anzi rompere con l’editore di Libero ai tempi del referendum sulla riforma costituzionale, destinato peraltro a costare Palazzo Chigi a chi pure due anni prima, sempre da Palazzo Chigi, aveva portato il Pd nelle elezioni europee a più di un 40 per cento di voti irripetibile, quasi democristiano.  “Misteri della fede- Renzi, più interviste che voti: piace solo ai giornalisti”, ha titolato personalmente Belpietro sulla sua Verità, ripeto.  

La trasparente preferenza di Meloni per Trump travisata dai retroscenisti

Dal Dubbio

In una lunga intervista a Chi molto intrigante sul piano personale, sul piano cioè dei suoi problemi di donna, di madre, di separata “definitivamente” dal pur meraviglioso padre, il migliore che potesse capitare alla loro comune bambina, la premier italiana non si è sottratta a questioni politiche rilevantissime per il suo governo, la sua maggioranza, gli interessi del paese che governa.

Kamala Harris

         Richiesta, per esempio, di pronunciarsi sulla corsa alla Casa Bianca ora che si è ritirato il presidente uscente, il democratico Joe Biden, e la gara è fra Trump e la vice di Biden, Kamala Harris, la Meloni ha testualmente risposto: “Tutti sanno che sono presidente del Consiglio dei conservatori europei, e che tra i partiti esterni all’Europa che aderiscono ai conservatori ci sono anche i repubblicani americani, quindi le mie preferenze sono note”. Note cioè a favore dei repubblicani statunitensi il cui candidato alla Presidenza è l’ex presidente Donald Trump, che in Italia quindi non raccoglie l’appoggio, le simpatie e quant’altro solo del vice presidente del Consiglio e leader leghista Matteo Salvini.

Meloni con Biden

         E’ una “preferenza” -ripeto- quella della Meloni che -ha precisato responsabilmente la stessa premier-  “non mi ha impedito di lavorare bene con l’amministrazione democratica di Biden, perché tra grandi Nazioni alleate i rapporti non cambiano col mutare dei governi. Saranno gli americani a scegliere. E sono certa che comunque vada, continueremo a lavorare bene con gli Stati Uniti”.

         Sono grato come giornalista di lungo corso per la trasparenza con la quale la Meloni ha dichiarato la sua “preferenza”, ripeto ancora, per i repubblicani degli Stati Uniti e per il loro candidato alla Casa Bianca. Grato perché mi risparmia la tentazione un po’ dietrologica  di altri colleghi di attribuirle la solita doppiezza del politico, uomo o donna che sia, di dire una cosa e pensarne un’altra. Di attribuirle, in particolare, il sostegno palese a Trump e sottinteso alla concorrente Harris, che lei peraltro ha tenuto anche a precisare di “non conoscere”, per quanto vice presidente in carica degli Stati Uniti.

Aldo Moro a Terracina nell’estate del 1968

         Di questa nostra mania o abitudine professionale -scusatemi il plurale maiestatis- di sdoppiare il politico di turno, facendogli dire una cosa e pensare o desiderare un’altra, feci personalmente le spese tanti anni fa, esattamente nell’estate del 1968, insieme al compianto collega Guido Quaranta, in un incontro a Terracina con Aldo Moro. Del quale, estromesso da Palazzo Chigi con un governo “balneare” affidato al pur amico e collega di partito Giovanni Leone, non si riusciva a sapere, capire e quant’altro quale atteggiamento avrebbe assunto nella preannunciata sessione autunnale del Consiglio Nazionale della Dc. Dove si sarebbe consumata clamorosamente la rottura dell’ormai ex presidente del Consiglio con i suoi colleghi dorotei di corrente e il passaggio all’opposizione interna, accettando la sfida a chi avrebbe saputo, voluto o potuto aprire di più il centro-sinistra all’opposizione comunista.

         Moro, che stava riflettendo appunto su questo ed altro, di carattere anche personale, ci accolse sul lungomare di Terracina, accennando alla scorta di non allontanarci, nel suo solito modo cortese. Che non gli impedì però ad un certo punto di perdere la calma e di abbandonarsi ad uno sfogo contro “voi giornalisti -disse, pur conoscendo le personali simpatie che Guido e io non avevamo nascosto nei suoi riguardi scrivendone, rispettivamente, su Paese sera e Momento sera– che anziché aspettare le decisioni dei politici avete la presunzione di anticiparle”.

         Dopo qualche tempo Guido e io, che a Terracina ci eravamo sentiti in imbarazzo, ci consolammo raccogliendo dallo stesso Moro, una sera davanti ad un cinema romano, uno sfogo mirato contro l’allora direttore del Corriere della Sera Giovanni Spadolini, che pure nel 1974 sarebbe diventato ministro del suo quarto governo.  

Giovanni Spadolini

In un editoriale domenicale dedicato ad una temuta “Repubblica conciliare” Spadolini ne aveva visto e indicato  un segnale in un voto espresso dall’ex premier in commissione alla Camera, con i comunisti, a favore della promozione agli esami di Stato a parità di voti. “Ma io -ci spiegò Moro- ho solo condiviso per gli esami di Stato un principio di diritto penale”, di cui egli era peraltro professore universitario.

Pubblicato sul Dubbio

Addio a Lino Jannuzzi, maestro di giornalismo e di vita

Mi mancava già da tempo per una di quelle malattie che ci sottraggono gli amici già in vita, ma la notizia della morte di Lino Jannuzzi, procuratagli da una polmonite a 96 anni, non è per questo meno dolorosa anche per il giornalismo. Che Lino ha onorato come pochi altri, non lasciandosene distrarre anche quando è stato parlamentare. E ha saputo essere trasversale pure in Parlamento, come un buon radicale, di scuola pannelliana e autenticamente garantista, della cui radio non a caso fu il primo direttore.

Giuliano Ferrara sul Foglio di oggi

         Grazie, Lino, di tutte le cose, a cominciare dall’arguzia e dall’ironia, che ci hai insegnato. Grazie del tuo calore, del tuo intuito, dei fatti e delle passioni, delle ossessioni civili che hanno fatto di te “un caso unico”, come ti ha riconosciuto in un breve, toccante ricordo sul Foglio Giuliano Ferrara. Che ha saputo accettare da te anche i rimproveri non permessi ad altri se non al prezzo di durissime reazioni e della interruzione dei rapporti personali, in una logica totalizzante della sua originaria formazione culturale e politica.

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La politica in vacanza, non la fantasia nelle redazioni dei giornali

         La politica in vacanza, anch’essa sotto l’ombrellone, ora che le Camere hanno smaltito gli arretrati, o ne hanno rinviato la gestione all’autunno, è quanto di più illusorio si possa annunciare. La politica e le sue propaggini, o origini, informative continuano inesorabilmente a lavorare, diventando magari ancora più fantasiose del solito. Supplendo appunto l’immaginazione a ciò che potrebbe mancare per motivi stagionali.

Giorgia Meloni

         Ne ha dato un esempio ieri un giornale quasi di nicchia, come si dice nel nostro ambiente per la sua limitata diffusione nelle edicole, peraltro sempre meno numerose, ma di buona risonanza come Il Foglio. Al cui direttore Claudio Cerasa deve essere sfuggito il piede non so se più sulla frizione o sull’acceleratore facendo del dichiarato “pettegolezzo” su un argomento non da poco come quello delle elezioni americane e di ciò che si aspetta la premier italiana. O comunque le conviene.  

Claudio Cerasa sul Foglio di ieri

         “Tra i meravigliosi pettegolezzi estivi che animano da giorni i sonnolenti palazzi della politica -ha scritto testualmente Cerasa- ce n’è uno che riguarda una convinzione profonda maturata dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.  Una convinzione non virgolettabile, come si dice, neppure attribuibile, neppure confessabile ma che spiega bene qual è il bivio internazionale di fronte al quale si trova il capo del governo italiano: che fare con Donald Trump?”.

         Il dichiaratamente “non virgolettabile”, e quindi non dimostrabile, sarebbe la propensione della Meloni per una vittoria di Kamala Harris, la vice presidente uscente, sull’ex presidente ma nuovamente aspirante Trump nella corsa alla Casa Bianca.

Giorgia Meloni al settimanale Chi

         Sentite, anzi, rileggete con me invece il virgolettato della Meloni, comprensivo di maiuscole, minuscole e punteggiature, in una intervista al settimanale mondadoriano Chi uscito ieri ma noto già il giorno prima al Foglio che ne aveva anticipato una parte:   “Tutti sanno che sono presidente dei Conservatori europei, e che tra i partiti esterni all’Europa che aderiscono ai conservatori ci sono anche i repubblicani americani, quindi le mie preferenze sono note”. Cioè sono per Trump, il candidato dei repubblicani. Non c’è pettegolezzo che possa smentire una così chiara preferenza, ripeto, della Meloni per Trump.

Kamala Harris

         E’ una “preferenza”, quella della Meloni per l’ex presidente di nuovo in corsa, e aiutato paradossalmente anche dal cecchino che lo ha mancato di qualche millimetro, completata ma non smentita dalla successiva precisazione della premier: “Questo però non mi ha impedito di lavorare bene con l’amministrazione democratica di Biden perché tra grandi Nazioni alleate i rapporti non cambiano con il mutare dei governi. Saranno gli americani a scegliere”. E se sarà eletta invece Kamala Harris la premier italiana saprà o vorrà andare d’accordo anche con lei, pur se “non la conosco”, ha avvertito lei stessa, pur essendo da quasi due anni la prima alla Casa Bianca, con Biden, e l’altra a Palazzo Chigi.  Capito, Cerasa?  

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La democrazia sulfurea delle bollicine contrapposta a quella delle urne

Da Libero

Provate a chiudere gli occhi e ad immaginare la Camera e il Senato, con tutti gli altri palazzi politici intorno, ma anche sopra, sino al Quirinale, poggiati come i Campi Flegrei su quel vulcano che da Napoli raggiunge Monte di Procida, al centro del quale c’è quel Lago d’Averno che Virgilio avvertì come la bocca degli Inferi. E’ quello che ho fatto dopo avere letto una lunga intervista al Fatto Quotidiano rilasciata da Gustavo Zagrebelsky, presidente della Corte Costituzionale per nove mesi nel 2004, e perciò tuttora emerito.

Il duello televisivo fra Zagrebelsky e Renzi nel 2016

Egli si porta così bene i suoi 81 anni da poterne prevedere la guida della campagna referendaria contro il premierato, quando vi si arriverà, come già fece nel 2016 contro la riforma costituzionale voluta dal governo di Matteo Renzi. Il quale si confrontò con lui in televisione battendolo, secondo il giudizio espresso da Eugenio Scalfari su Repubblica fra la sorpresa di buona parte della redazione e dei collaboratori esterni, ma venendone battuto poi nelle urne.

Sc coppia d’archivio Scalfari-Renzi

         Definita quella derivante da un’elezione diretta del presidente del Consiglio una “politica autoritaria”, che “scende dall’alto e si stende sulla società, sugli individui e i loro diritti, e le loro diverse articolazioni economiche e culturali, associazioni, partiti, sindacati….insomma un potere conformativo, per non dire repressivo, a cascata, dall’alto verso il basso”, il professore di scuola giuridica e storica rigorosamente torinese le ha contrapposto e preferito “la politica partecipata”. Che “si muove dal basso e procede verso l’alto…come una corrente alimentata da tante bolle sorgive che confluiscono e producono energia, ciascuna secondo la propria consistenza”.  Siamo a Procida, appunto.

Gustavo Zagrebelsky al Fatto del 6 agosto

         Come con le ciliegie, che purtroppo sono verso l’epilogo della loro stagione, e di cui si dice che a mangiarle l’una tira l’altra, il professore ha proposto la politica “come l’arte non del comando ma della sintesi”. Ed ha riconosciuto con un certo dispetto, dall’alto della sua sapienza e dottrina, che “la democrazia del vincitore è bella perché è semplice”, ma troppo semplice, e naturalmente pericolosa. “La democrazia della sintesi -ha avvertito- è ancora più bella perché è difficile, complicata, faticosa”. Di una fatica e complessità che tuttavia andrebbero, anzi sono preferite, come dimostra la bocciatura referendaria della riforma costituzionale di Renzi, e domani di Meloni chissà,  da chi “teme l’arrivo dei vincitori, quali che siano le loro bandiere”.

         Lui, intanto, il professore, pur sapendosi districare per dottrina tra tanta confusione e complessità scrivendone o parlandone ai lettori, come prima facendo le sue lezioni agli studenti, che cosa fa nella pratica elettorale, quando è chiamato a votare non contro una riforma ma per un partito o per l’altro della democrazia delle bollicine, chiamiamola così?  Par di capire che si astenga. O comunque riconosca le ragioni di chi appunto si astiene.

         “Come tanti astenuti, anche Lei è perplesso, professore?”, gli ha chiesto l’intervistatrice Silvia Truzzi. “Certo che sì”, ha risposto. E aggiunto, sempre all’insegna delle bollicine: “Amiamo i perplessi. Solo che le perplessità devono essere momenti di passaggio alle convinzioni…..Atrimenti sono astenie, pericoli mortali per la democrazia”, cui si approda -temo-  proprio ragionando e indottrinando come il professore.

Il compianto Francesco Cossiga

         Ricordo ancora con nitidezza una chiacchierata verso la fine degli anni Ottanta al Quirinale con Francesco Cossiga. Che si sfogò con me contro la “superbia scientifica”- la chiamava così- del presidente da poco emerito della Corte Costituzionale Leopoldo Elia. Cui in fondo non aveva mai perdonato di avergli, volente o nolente, conteso dietro le quinte la Presidenza della Repubblica alla scadenza del mandato di Sandro Pertini. “Ma ve n’è uno ancora più superbo di lui”, mi disse facendomi il nome di Gustavo Zagrebelsky. Che nel 1995 sarebbe stato nominato giudice costituzionale dal suo successore Oscar Luigi Scalfaro sul Colle più alto di Roma. Che acume, oltre che passione per la politica, non credo del modello Procida, quello del mio compianto amico Cossiga.

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Le ….vacanze romane di Giovanni Toti, rigorosamente in auto

Gregory Peck e Audrey Hepburn nel celebre film del 1953

         Non si poteva certo chiedere a Giovanni Toti – “sceso” ieri nella Capitale dalla sua Liguria dopo una novantina di giorni di arresti domiciliari per prepararsi non tanto al processo che lo aspetta a novembre quanto alle elezioni regionali anticipate di ottobre, se non accorpate a quelle del mese successivo programmate in Emilia-Romagna e in Umbria-  di replicare su una Vespa le vacanze romane di Gregory Peck con Audrey Hepburn nel celebre film di 71 anni fa. Lui si è mosso rigorosamente in auto. E di cinematografico ha offerto solo un aspetto molto sorridente, nonostante tutto.

Giovanni Toti con Matteo Salvini

         L’ormai ex governatore della Liguria, dimessosi irrevocabilmente dal mandato conferitogli dagli elettori proprio per affrontare da libero il processo per corruzione con finanziamenti addirittura trasparenti, ha fatto nella Capitale le visite politiche del caso con gli alleati del centrodestra. La più importante delle quali è stata con il leader della Lega e vice presidente del Consiglio Matteo Salvini nella sede di quello che era una volta il Ministero dei Lavori Pubblici, e ora delle Infrastrutture. Visite che hanno smentito la rappresentazione fatta delle sue dimissioni da Matteo Renzi, nella sua nuova veste di aspirante al cosiddetto campo largo dell’altrettanto cosiddetto centrosinistra, come di un passaggio politico avvenuto per difetto di sostegno convinto degli alleati.

Antonio Tajani

         Anche il leader forzista e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, non avendolo potuto incontrare per i suoi impegni di ministro degli Esteri in questi giorni e in queste ore di guerre, ha voluto far sentire la propria voce a sostegno di Toti denunciando la coincidenza inquietante di per sé, ma non avvertita in sede giudiziaria, fra la campagna elettorale d’autunno in Liguria e il processo che l’ha innescata. Non avvertita, dicevo, in sede giudiziaria e neppure dalla stampa o, più in generale, da quella parte non piccola dell’informazione da più di trent’anni appiattita anche sulla scenografia dei processi e degli arresti disposti ben prima dei rinvii a giudizio, spesso mancati peraltro nella storia, per esempio, delle “Mani pulite” di memoria o di rito ambrosiano.

Toti a Roma

         Qualcuno avrà continuato ad avvertire negli incontri romani dell’ex governatore, pur dichiaratamente incerto anche di un suo futuro ancora politico, e non di un ritorno alla professione giornalistica, chissà quali manovre o brighe -ha titolato giorni fa il Fatto Quotidiano-  per approdare in Parlamento addirittura in questa stessa legislatura, senza neppure attendere le elezioni ordinarie del 2027. D’altronde già Humphrey Bogart in un altro celebre film diceva a Casablanca nel 1942: “E’ la stampa, bellezza”. Diventata poi anche il titolo di alcune rassegne televisive di giornali, del ciclo in cui non si butta mai niente.

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Almeno per ora, la Meloni non c’entra con la caduta e quant’altro delle Borse

Da Repubblica

         Avviso ai naviganti nelle acque della politica italiana già intorpidite dalle polemiche stagionali sugli anniversari delle stragi nere, con tanto di certificazioni giudiziarie, o ai frequentatori dei boschi esposti sempre ai rischi di incendi, e non solo alle incursioni recenti degli orsi: con  la caduta delle Borse, al plurale e al maiuscolo, anzi il crollo, il panico che le ha accompagnate, i falò che bruciano fra le tasche di chi negli investimenti finanziari gioca pesante rischiando,  con   tutto questo che ha alimentato i titoli delle prime pagine di oggi Gorgia Meloni non c’entra. E neppure il suo ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, e tanto meno quella stazza di pacioso ministro degli Esteri che è ormai diventato anche fisicamente il vice presidente forzista del Consiglio Antonio Tajani.

Dal Giornale

         Magari non c’entrerà neppure, o del tutto, la maledetta intelligenza artificiale con la quale ha preferito prendersela il governativo Giornale delle famiglie Angelucci e Berlusconi, ma la Meloni questa volta non c’entra proprio, neppure per chi di solito dall’opposizione la vede in ogni angolo buio o sfortunato del Paese. Anche nei suoi recenti viaggi all’estero la premier si è fermata in Cina, senza spingersi in Giappone, dove la Borsa di Tokio ha avuto la caduta peggiore, quasi di sei volte superiore, se non ho calcolato male, a quella di Milano. Dove neppure, rientrata in Italia, la premier peraltro si è spinta, quasi sentendo puzza  di bruciato e temendo di lasciare un’impronta.

Federico Fubini sul Corriere della Sera

         Pur non volendoci scherzare sopra come Stefano Rolli sulla prima pagina del Secolo XIX, che aspetta fiducioso che qualche borsa gli cada addosso con i soldi che ancora contiene, possiamo tranquillamente consolarci leggendo sul Corriere della Sera Federico Fubini. Il quale ha scritto che “se si mettono da parte i social media, se si taglia fuori il rumore di fondo, la vicenda che si si delinea” nei mercati finanziari di tutto il mondo “è meno semplice e forse -per il momento- meno drammatica di quella che presentano i più o meno interessati profeti di sventura”.

Dal Foglio

         Stefano Cingolani sul Foglio, dove sono stati appena celebrati i primi 650 giorni del governo Meloni con giudizi cerchiobottisti di un direttore scrupoloso di avvertire che “non ama” l’esecutivo in carica; Stefano Cingolani, dicevo, ha scritto che “la tempesta era attesa da tempo” nelle Borse e ne ha indicato le cause nel “freno delle big tech, la crisi cinese, il voto Usa e, ovviamente, i venti di guerra”. Sui quali Giuseppe Conte in Italia, sorpassando la segretaria del Pd Elly Schlein nel cosiddetto campo largo dell’alternativa, accusa notoriamente la Meloni di soffiare. Ma forse così egli cerca di distrarsi solo da Beppe Grillo che soffia contro di lui, come un gatto stanco dalla sua postazione di “garante dei valori”, per quanto remunerato come consulente della comunicazione, di sopportarlo da così tanto.

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Più allargano il campo della sinistra e più protestano i loro elettori

Dal Dubbio

Era già noto il fatto che in politica l’aritmetica fa cilecca, per cui non è detto che due più due equivalgano a quattro.   

         Rimase celebre nella storia della sempre più lontana e rimpianta prima Repubblica il flop dell’unificazione socialista realizzata nel 1966, auspice Aldo Moro a Palazzo Chigi, che pensava di rafforzare così il suo centro-sinistra ancora col trattino. Tornarono insieme il Psi del vice presidente del Consiglio Pietro Nenni e il Psdi di Giuseppe Saragat, trasferitosi due anni prima al Quirinale subentrando all’impedito Antonio Segni. I due elettorati tuttavia non si sommarono, e in fondo neppure i due partiti, che infatti tornarono a separarsi nel 1969 provocando, fra l’altro, la caduta del secondo governo di centrosinistra, senza più il trattino, formato da Mariano Rumor succedendo a Moro.

         Anche alle coalizioni elettorali succede un po’ come alle unificazioni, nel senso che i votanti non si sommano come i dirigenti dei loro partiti vorrebbero. Lo ha appena verificato Antonio Noto in un sondaggio commissionatogli da Repubblica sul cosiddetto campo largo, esteso sino a Matteo Renzi dopo una partita “del cuore”, con abbraccio finale, in cui l’ex premier aveva passato la palla alla segretaria del Pd Elly Schlein facendole segnare un gol, ma fuori gioco, cioè inutil, contro una squadra di cantanti.

         Dal sondaggio di Noto è uscito non solo confermato il carattere divisivo, sul piano degli elettori, di un’alleanza fra il Pd e le 5 Stelle, ma anche aggravato con l’eventuale allargamento a Renzi e, sia pure separatamente, a Carlo Calenda.

         Se, per esempio, un’alleanza fra Pd e 5 Stelle non piace al 24 per cento degli elettori piddini e al 40 per cento degli elettori grillini o contiani, che già non sono più assimilabili come prima, aggiungendo Renzi alla combinazione l tensioni aumentano. La partecipazione dell’ex premier alla combinazione è contestata dal 71 per cento degli elettori piddini e dall’81 per cento degli elettori pentastellati ancora considerati ottimisticamente uniti. Calenda risulta meno indigesto, ma non di tanto: al 57 per cento degli elettori piddini e all’80 per cento degli elettori delle 5 Stelle.

A Matteo Renzi più no che sì nel sondaggio di Noto su Repubblica

         Manca nella ricerca sondaggistica di Antonio Noto il riscontro – obiettivamente più difficile per l’estrema confusione esistente nell’area dell’ex terzo polo sperimentato nelle elezioni politiche di due anni fa- delle reazioni degli elettorati separati di Renzi e di Calenda se davvero confluissero nel cosiddetto campo largo. Ma penso che se si fosse avventurato anche in questo tipo di ricerca Noto avrebbe riscontrato effetti ancora più divisivi. Gli stessi Renzi e Calenda, d’altronde, per la propensione ad accordarsi con Pd e 5 Stelle si sono visti contestate le loro leadership, già ammaccate, dai parlamentari che sono riusciti insieme a portare in Parlamento nel 2022. Figuriamoci dai loro elettori.

         I numeri insomma non sembrano francamente promettenti per questo campo largo di cui tanto si parla e si scrive da tempo, nonostante l’ottimismo che cerca di diffondere nei salotti televisivi l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Che vede crescere la pianta dell’”alternativa” -come la chiama- al governo e alla maggioranza in corso.

Dubito, francamente che le cose siano messe meglio sul piano preferito o raccomandato di recente da Goffredo Bettini: l’uomo che ha un po’ sussurrato all’orecchio di tutti i cavalli del Pd e scommette adesso sul campo largo come “sentimento”, riconoscendo pure lui che la “sommatoria” dei partiti e dei loro elettorati non è scontata. Sentimento, ripeto. E’ una bella parola, ceto, ma pur sempre una parola in un campo come la politica, dove prevale la convenienza, non sempre generale. 

Pubblicato sul Dubbio

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