L’opposizione ormai antropologica del Partito Democratico

Dal Foglio di ieri

Mi è capitato ogni tanto di dissentire da Claudio Cerasa, il direttore del Foglio al quale piace essere border line fra gli schieramenti che si alternano alla guida del Paese in una versione forse troppo spesso pasticciata del bipolarismo. Che, per quanto preceduto dalla lunga contrapposizione fra la Dc e il Pci cominciata con le elezioni del 18 aprile 1948, esordì nella cosiddetta seconda Repubblica con la vittoria del centrodestra improvvisato nel 1994 da Silvio Berlusconi e la sconfitta dell’altrettanto improvvisata e “gioiosa macchina da guerra” dell’ultimo segretario comunista, e primo-post comunista, Achille Occhetto.

         Come ad ogni acrobata di rispetto capita anche a Cerasa di cadere, fra esibizioni e allenamenti, dal filo su cui cammina. E persino di essere insultato dal solito Marco Travaglio, sul Fatto Quotidiano, che gli contesta antipaticamente il titolo di studio di ragioniere. Antipaticamente, per me, perché quello era anche il titolo di studio di mio padre.

Dal Foglio di ieri

         Ebbene, per quanto -ripeto- mi sia capitato ogni tanto di dissentire, ho trovato impeccabile il processo politico che Cerasa ha fatto ieri al Pd per “l’opposizione che non sa fare”. O per tutte “le occasioni perse” nella corsa in cui maggioranza e opposizioni fra di loro, o ciascun partito all’’interno dell’una o delle altre, sono o dovrebbero sentirsi impegnate democraticamente a “dettare l’agenda”, cioè a far prevalere il tema o problema più produttivo, almeno elettoralmente.

Claudio Cerasa

         Giustamente il direttore del Foglio ha lamentato “le occasioni” -ripeto- che il Pd, forse per non dispiacere a Giuseppe Conte e a quel che gli rimane del Movimento 5 Stelle, si è lasciato scappare di inserirsi nei contrasti esistenti nella maggioranza di governo sui temi delle carceri sovraffollate sino all’indecenza, della cittadinanza, delle pensioni, delle cosiddette autonomie differenziate ormai avviate sul percorso referendario, persino della politica estera dopo le incursioni ucraine in territorio russo, anziché viceversa come dall’inizio della guerra scatenata da Putin.

Dal Corriere della Sera di oggi

         Mi chiedo tuttavia se è solo per paura di Conte, spintosi oggi sul Corriere della Sera a sfidare i forzisti sul percorso parlamentare dello “ius scholae” per la cittadinanza, che il Pd della Schlein si sia lasciata perdere e si perda tutte queste “occasioni”. E non invece per una sua natura ormai culturale, strutturale, istintiva, antropologica, chiamatela come volete.

Massimo Giannini su Repubblica di ieri

  Ciò impedisce al Pd della Schlein, per esempio, di considerare Forza Italia, pur così frequentemente diversa dai suoi alleati di governo, un’interlocutrice non liquidabile per l’origine da quell’”unto del Signore” come ieri Massimo Giannini su Repubblica ha continuato a chiamare, cioè a sfottere, la buonanima di Silvio Berlusconi. La ciliegina – direi per tornare in qualche modo a Cerasa direttore del Foglio e alla sua firma grafica- sulla torta di una politica incapace di liberarsi delle sue peggiori, livorose catene.  

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Fra gli scampoli della vacanza di Giorgia Meloni in Puglia

         Ciascuno in fondo ha in politica la sua Gaza, e forse anche più di una. E non necessariamente strappandosi vesti e capelli, specie ora che l’amministrazione americana, operante anche mentre i contendenti della Casa Bianca se le dicono e se le danno di tutti i colori, ha cercato di diffondere ottimismo sui negoziati per una tregua in quella terra, e dintorni. Che è affollata di macerie, di morti e di ostaggi, ancora, del terrorismo palestinese e di chi finge di ignorare questa realtà scambiando gli israeliani, cioè gli ebrei, per i nuovi genocidi.

Massimo Boldi

         Ha le sue Gaze, al plurale, anche Giorgia Meloni, proposta dal vignettista del Foglio nella richiesta di lasciarle godere gli ultimi giorni di vacanza in Puglia, ormai la sua Puglia, senza “deprimerla” con i problemi che le crea persino chi la elogia, a quanto pare, come il suo scoperto, confesso estimatore Massimo Boldi. Che sta facendo perdere le ultime remore a sinistra nell’assalto quotidiano di reazione alla premier italiana.

Dal Corriere della Sera

         Fra le Gaze, sempre al plurale, della Meloni, sorvolando sulle grane che le creano gli alleati di governo polemizzando sugli argomenti più diversi, ciascuno alle prese -credo- con problemi di identità, che non sono solo quelli dei forzisti sferzati adesso anche dal co-fondatore superstite del partito che è Marcello Dell’Utri; fra le Gaze, dicevo, della Meloni la notista del Corriere della Sera Monica Guerzoni ci ha proposto oggi quella della Commissione europea che sta tessendo come una tela, in vacanza pure lei, la teutonica Ursula von der Leyen nella sua seconda versione, o edizione.

Meloni e Fitto d’archivio al Senato

         Fra un pisolino e l’altro immaginato dal vignettista del Foglio la premier tiene i suoi “contatti”, come li chiama la Guerzoni, “sulla trattativa per il nome di Raffaele Fitto da inserire nella Commissione” di Bruxelles. Dove il ministro dovrà portarsi sulle spalle, e cercare di non esserne schiacciato, un debito pubblico che proprio in questi giorni si è ulteriormente avvicinato nei calcoli della Banca d’Italia ai tremila miliardi di euro. Roba da schiantare un toro. Ma noi italiani anche ai tori più scatenati sappiano fare le pernacchie, bravi come siamo a fare aumentare insieme le entrate fiscali e le evasioni. E in questo destra e sinistra, lasciando da parte il centro ormai evanescente dell’una e dell’altra, si equivalgono. Anche se lo negano nei loro rispettivi campi, più o meno larghi, pasticciati e incolti che siano.

         Per questo giorno del lungo ponte di Ferragosto, in attesa dei temporali rinfrescanti promessi dai meteorologi, credo che possa bastare.

L’estate rovente e l’autunno caldo del partito berlusconiano

Dal Dubbio

Li ho conosciuti entrambi, Marcello Dell’Utri e Gianfranco Miccichè. Non so se siano ancora legatissimi come allora, ai tempi in cui lavoravano a Pubblitalia, lui da capo e l’altro da quasi attendente per la creazione di Forza Italia sfidando gli amici che sconsigliavano a Silvio Berlusconi l’avventura politica. Dalla quale temevano che i problemi del Cavaliere sarebbero aumentati e non diminuiti.

Berlusconi e Miccichè

         So che ci sono stati passaggi dell’attività politica di Miccichè negli ultimi anni, quando si allontanò una prima volta dal partito azzurro, non condivisi da Dell’Utri per racconto pubblico dello stesso Miccichè. Mi ha però colpito la sovrapponibilità di due interviste che essi hanno rilasciato a due giorni di distanza, ancora fresche di stampa, che penso non siano state gradite, per il loro contenuto, per il loro giudizio su Forza Italia e per le interpretazioni cui si prestano, da Antonio Tajani. Che guida il partito e contemporaneamente ricopre importanti incarichi di governo come solo certi leader della Dc erano riusciti a fare, per esempio Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita, finendone tuttavia entrambi danneggiati.

Miccichè a Repubblica del 13 agosto

         “Oggi nel centrodestra – ha dichiarato alla Repubblica del 13 agosto Miccichè raccontando e motivando l’abbandono questa volta definitivo del partito azzurro- non si può neppure parlare di diritti civili. Vietato. Quella di Meloni è una destra che sta rimuovendo i valori del congresso di Fiuggi. Sta facendo repressione. E’ ovvio che la maggior parte degli esponenti di Forza Italia che hanno una concezione riformista e liberale della vita stia male”.

         Le posizioni di Lega e Fratelli d’Italia “sono becere e contro la logica della Costituzione”, ha dichiarato Marcello Dell’Utri parlando al Foglio del 15 agosto della situazione nelle carceri, che lui conosce bene per esservi stato non da parlamentare in ispezione, come si dice del deputato o del senatore che le visita, ma da detenuto, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. E dove qualcuno lo vorrebbe ancora rimandare, ultraottantenne, per stragismo o qualcosa del genere.

Dell’Utri al Foglio del 15 agosto

         “Gli eredi di Berlusconi stanno ispirando Forza Italia”? , è stato chiesto a Dell’Utri dopo recenti interviste dei due figli maggiori dell’ex presidente del Consiglio e la decisione di Tajani di condividere e affiancare i radicali nella battaglia per carceri all’altezza di un paese civile. E lui: “Questo non glielo so dire. So che sono delle riflessioni molto giuste e positive. Conosco Marina e Pier Silvio e so bene come la pensano. Sono persone molto intelligenti e attente alla società civile. Poi non so se Forza Italia sarà capace di ascoltarli”. E alla domanda sulla possibilità di un loro “futuro impegno in prima persona nel partito” ha risposto: “Credo che una cosa del genere non avverrà mai”.

         Sollecitato a parlare praticamente dello stesso problema, Miccichè ha detto al Foglio due giorni dopo: “Marina esprime il pensiero di suo padre, che ho visto piangere davanti alla tragedia di migranti morti in mare mentre si dirigevano sulle coste adriatiche. Ma non credo che lei e Pier Silvio abbiano interesse a fare politica”.

Miccichè a Repubblica del 13 agosto

         Ancora Miccichè parlando dei rapporti tra Forza Italia e gli alleati di destra, peraltro dopo che già il vice presidente azzurro della Camera Giorgio Mulè si era pubblicamente posto quasi lo stesso problema: “Berlusconi non avrebbe mai permesso quello che sta accadendo. Questa Forza Italia non è quella di Berlusconi, è anonima e succube degli alleati di governo. Ma Lei ricorda i nomi dei ministri di Forza Italia? Si conosce solo Tajani. Basta questo per dire che c’è qualcosa che non va. Le scelte le fanno gli altri”.

Berlusconi e Dell’Utri

         E’ accaduto anche in altre estati roventi climaticamente di annunciare, prevedere e quant’atro autunni ancora “caldi” politicamente. Il prossimo minaccia di esserlo in particolare per Forza Italia, più ancora che per il governo assediato, secondo le opposizioni, dal referendum promosso contro la legge delle cosiddette autonomie differenziate, pur innescata dalla riforma costituzionale voluta in materia regionale dalla sinistra nel 2001, come ha appena ricordato al Dubbio Gianfranco Rotondi. E’ una Forza Italia in crisi d’identità, pare, sia per Dell’Utri sia per Miccichè: uno non so se facendone ancora parte, l’altro appena uscitone, ripeto, definitivamente. E abbastanza clamorosamente.

Pubblicato sul Dubbio

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Anche Clemente Mastella si affaccia sul campo largo della Schlein

Dal Foglio di Ferragosto

Gli addetti alla commercializzazione delle feste dovrebbero inventarsi  l’uovo di Ferragosto, dopo quello di Pasqua cui siamo abituati, perché la sorpresa è prepotentemente entrata nelle tradizioni politiche di questa stagione. L’ultima l’ha riservata proprio  Clemente Mastella in una intervista al Foglio proprio di Ferragosto con la quale si è guadagnato anche il soprannome di Mastelly, ricavato dalla somma del suo cognome e del nome della Schlein: la segretaria del Pd alla quale il sindaco di Benevento si è offerto per concorrere come Matteo Renzi al cosiddetto ma un pò fantomatico campo largo dell’alternativa al governo di Giorgia Meloni.

Dall’intervista di Mastella al Foglio

“Schlein non l’ho sentita”, ha precisato Mastella. E neppure ci ha giocato insieme in una partita di beneficienza calcistica come Renzi. “Io però -ha detto l’uomo allevato nella scuderia democristiana e campana del compianto Ciriaco De Mita- sono sempre a disposizione quando si tratta di costruire. Che sia a livello locale, regionale o nazionale. Ma ci devono essere le condizioni”. Quali?  “Per esempio, Schlein -ha risposto- potrebbe iniziare a dire al Pd di Benevento di parlare con Mastella anziché fare accordi con esponenti del centrodestra locale”, evidentemente contro di lui. Che pure con gli “oltre centomila voti” sostanzialmente personali, o familiari, ha già permesso alla sinistra di vincere elezioni anche a livello nazionale diventando per questo guardasigilli con Romano Prodi. Sino a quando i magistrati non colpirono la moglie presidente del Consiglio regionale campano, indussero lui a dimettersi da ministro, trascinarono appresso nella caduta l’intero governo e provocarono le elezioni anticipate. Storie di normale amministrazione, si potrebbe dire nella politica da quando i suoi rapporti con la Giustizia, generosamente con la maiuscola, furono rovesciati nel 1992 con l’inchiesta “Mani pulite” sul finanziamento abitualmente illegale dei partiti. E i reati connessi perseguiti dai magistrati a suon di manette: dalla corruzione alla concussione.

Dopo l’offerta di Mastella si aspettano, come dopo quella di Renzi, le reazioni sofferte delle altre presunte o aspiranti componenti del campo largo. Che tanto più si estende tanto meno diventa o appare “giusto”, per esempio, all’ex premier e ora presidente solo del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte.

La vignetta di Claudio Cadei su ItaliaOggi del 13 agosto

Da queste incursioni, chiamiamole così, nel campo dell’alternativa al centrodestra, o destra-centro, è già nata una vignetta che ho definito “omerica” di Claudio Cadei su ItaliaOggi che ha immaginato Matteo Renzi come il cavallo inventato da Ulisse per sconfiggere finalmente Troja penetrandovi con l’inganno. A quella è seguita un’altra vignetta di Cadei, sempre su ItaliaOggi, meno omerica, dove Renzi si lancia nella piccola e traballante piscina mobile della Schlein e Conte per svuotarla. Renzi o anche Mastella, dopo l’uovo di Ferragosto del sindaco di Benevento.  

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Un inedito agosto italiano, disturbato solo dall’invasione dei turisti stranieri

Dal Corriere della Sera

         Anche il buon Antonio Polito, sul Corriere della Sera, si è lasciato tentare dal paragone fra questo “Agosto italiano” politicamente tranquillo e quelli precedenti quasi abitualmente tesi, contenuti solo dall’omonimo generale che soccorreva i presidenti della Repubblica nelle soluzioni delle crisi. “Nell’incendio del mondo -ha scritto l’editorialista del maggiore giornale nazionale- una tranquilla estate italiana. Dalla tragedia dei delitti di mafia alla farsa del Papeete, spesso la stagione calda è stata la misura delle nostre crisi. Nell’estate del 2011 -ha ricordato Polito come apice delle tensioni agostane- la corsa dello spread, che segnala la differenza di credibilità finanziaria tra noi e la Germania, stava per buttarci fuori dall’Europa”.

  Finì invece, anche se Polito non lo ha ricordato, per essere buttato fuori dopo qualche mese da Palazzo Chigi Silvio Berlusconi, sostituito col suo stesso consenso da Mario Monti, pur se dopo qualche tempo, alla vigilia delle elezioni del 2013, lo contestò e denunciò di essere stato rovesciato con una mezza congiura internazionale, più particolarmente europea, inutilmente contrastata dagli americani. Ma è acqua passata.

Titolo di Domani

         Per tenere in piedi o riproporre la  rappresentazione di un agosto politicamente e domesticamente  turbolento, simile a molti altri del passato, il giornale di Carlo De Benedetti, Domani,  si è dovuto inventare in prima pagina un titolo di questo tipo sui “timori” che starebbero rovinando l’estate al governo: “Mattarella e Meloni, due anni di gelo”. E così il Quirinale sarebbe, per la premier nonostante tutto in vacanza in Puglia, l’unico ghiacciaio italiano, o del mondo, che resiste agli aumenti delle temperature.  

Polito sul Corriere della Sera

         Con i piedi, e altro ancora, ben saldi sulla terra Polito ha ricordato che in un mondo dove si inseguono le guerre e le invasioni, o sconfinamenti com’è chiamato in particolare quello delle truppe ucraine in territorio russo dopo due anni e mezzo di resistenza agli aggressori condotta solo nei confini nazionali, “l’unica invasione straniera” in Italia “è quella dei turisti. Benedetti per i soldi che portano, ma soffocanti per la vita di città troppo fragili e troppo poco attrezzate, non in grado di reggerne con civiltà l’abbraccio senza far pagare il prezzo ai residenti italiani. Che quest’anno -ha ricordato Polito cedendo a qualche osservazione di rammarico- sono andati meno in vacanza o per minor tempo o a causa dell’onda lunga dell’inflazione e di prezzi sempre più alti”.

La vignetta del Corriere della Sera

         All’”Agosto italiano” una volta tanto tranquillo in altra parte della prima pagina il Corriere ha opposto quello di Putin, rappresentato dal vignettista Emilio Giannelli alla presidenza di un “Consiglio di guerra” sopra una didascalia in cui si spiega, o si racconta, che “gli ucraini avanzano, i generali arretrano”.  Dopo avere già mancato nel febbraio del 2022 la conquista del paese limitrofo in un paio di settimane, se non di meno ancora, programmate al Cremlino.

In congedo il generale Agosto, con tutte le guerre in corso….

Dal Dubbio

Abituata alle crisi ministeriali in estate e alle sue soluzioni spesso solo provvisorie, grazie ad espedienti trovati all’ultimo momento per affrontare i problemi con maggiore calma e con altri governi    di più ampio respiro, come si diceva nei partiti, la politica italiana si inventò già negli anni Cinquanta -ahimè, del secolo scorso- la figura del generale Agosto. Che soccorreva il presidente della Repubblica nella soluzione della crisi di turno. Un generale che parlava rigorosamente e solamente italiano.

         Bettino Craxi, che proprio d’agosto, il 4 del 1983, formò il suo primo governo, ma due anni prima aveva partecipato al salvataggio di Giovanni Spadolini fra il 7 e il 23 agosto col famoso “bis” o “fotocopia”, cambiò il nome del generale da Agosto a Ferragosto. E così anche noi cronisti politici ci abituammo a chiamarlo, attribuendogli spesso con la nostra fantasia imprese magari superiori o persino diverse a quelle da lui effettivamente compiute, sia pure sul piano già di per sé immaginifico o metaforico.

         L’estate politicamente italiana più torrida rimane quella del 1964, sessant’anni fa, appena tornata di attualità sui giornali con gli articoli rievocativi di Lino Jannuzzi, scomparso nella settimana scorsa.  

Antonio Segni

Lino nel 1967 ricostruì la crisi di tre anni prima scrivendo sull’Espresso – e procurando anche al direttore Eugenio Scalfari una condanna vanificata solo dalla loro elezione a deputati nelle liste del Psi voluta cautelativamente da Pietro Nenni- di un “colpo di Stato” ordito più o meno consapevolmente  fra il presidente della Repubblica Antonio Segni e il comandante dell’Arma dei Carabinieri, il generale Giovanni De Lorenzo, destinato a diventare pure lui parlamentare, ma nelle liste della destra missina.

         In verità, nell’estate del 1964 la crisi con la quale Segni era stato alle prese ricevendo le dimissioni di Aldo Moro il 26 giugno, e mettendo nel conto il ricorso ad un altro presidente del Consiglio di tutt’altro segno politico, anche a costo di affrontare disordini di piazza, in agosto era stata già bella che risolta, avendo potuto Moro formare il suo secondo governo, con gli stessi partiti di centrosinistra, il 22 luglio. Ma in agosto, appunto, vi fu di quella crisi uno strascico drammatico sul piano umano e politico.

         Il 7 agosto furono ricevuti da Segni al Quirinale Moro e il ministro degli Esteri Giuseppe Saragat. Che andarono a sottoporgli una lista di ambasciatori predisposta per un’apposita riunione di governo, secondo una prassi imposta da Giovanni Gronchi. Che non si riteneva per niente obbligato a controfirmare quelle ed altre nomine, per esempio dei prefetti, senza averle prima conosciute e condivise. 

Giuseppe Saragat

         In quella lista del 7 agosto 1964 non c’era un diplomatico di cui al Quirinale si attendeva la promozione e una destinazione molto importante. Segni se ne dolse. E mentre Moro cercava di rabbonirlo, o assicurargli che non sarebbero mancate occasioni per soddisfarne le attese, Saragat sbottò con una sfuriata. Nella quale rimproverò a Segni di avere gestito la pur ormai chiusa crisi di governo in un modo che avrebbe potuto costargli anche un processo per alto tradimento davanti alla Corte Costituzionale.

Saragat e Moro nel 1964

Segni, che già soffriva di pressione alta, balbettò una protesta prima di perdere i sensi e cadere a terra. Non si sarebbe più ripreso. Ne fu accertato dopo qualche mese l’impedimento e a fine anno fu eletto dal Parlamento al suo posto proprio Saragat, con una regia dietro le quinte di un Moro che anche per questo cadde nel suo partito, la Dc, in una fase di logoramento o sofferenza, a dir poco. Da cui -tragedia nella tragedia- sarebbe uscito dopo qualche anno solo per poco, sequestrato e ucciso dalle brigate rosse nel 1978 tra misteri non tutti ancora risolti, per quanti processi si siano svolti e inchieste parlamentari siano state condotte.  

Immagini da Gaza

         Di fronte alle crisi politiche italiane contrassegnate dalla figura del generale Ferragosto di ricordo o denominazione craxiana, per quanto non se ne siano mancate poi altre abbastanza accidentate, come quella del governo di Mario Draghi, dimessosi il 21 luglio di due anni fa, può essere di una certa consolazione il fatto che quel generale abbia smesso di parlare solo italiano. Se ne avverte il bisogno a più alto livello, geografico e linguistico, con tutte le guerre in corso e le paure che ne scaturiscono.

In Italia per sedare i pasticci e i guai che certamente non mancano alla politica, pur stabilizzata da un governo che si considera nelle affermazioni quotidiane della premier Giorgia Meloni il più solido fra quelli europei, basta molto meno di un generale.

Pubblicato sul Dubbio

Il ministro della Difesa scrive al Corriere della Sera sul mistero ucraino

Dal Riformista

         Imitato, inseguito e quant’altro dal Riformista con un titolo di copertina sull’Italia che “si è persa”, di vista ed ascolto, sulla guerra in Ucraina dopo che il paese aggredito e invaso più di due anni ha portato le sue reazioni di difesa agli sconfinamenti in territorio russo sgraditi, quanto meno, al ministro della Difesa d’Italia Guido Crosetto e al ministro degli Esteri e vice presidente del Consiglio Antonio Tajani, il Corriere della Sera ha cercato oggi di andare incontro al governo con un titolo di prima pagina e una lettera, sempre in prima, dello stesso Crosetto.

Dal Corriere della Sera

         Il titolo attribuisce alla premier, blindatasi nella sua vacanza in Puglia col telefono però rovente, secondo cronache e retroscena, la precisazione o assicurazione, come preferite, senza virgolette, che la linea sull’Ucraina non cambia. Ma a capirla, questa linea, dopo che due ministri del peso della Difesa e degli Esteri, per non parlare di altri esponenti, diciamo così, minori della maggioranza hanno indicato negli “sconfinamenti” dell’Ucraina una complicazione, quanto meno, della guerra e precisato l’inutilizzabilità, in questa operazione, delle armi fornite dall’Italia al governo di Kiev.

         A Camere chiuse per ferie non c’è da attendersi a breve informative del governo e quant’altro, d’altronde neppure sollecitate dalle opposizioni, anch’esse divise sulla questione ucraina. E forse non è un male perché chissà che cosa verrebbe fuori da una discussione.

Dal Corriere della Sera

         Nella lettera che il ministro della Difesa ha ritenuto di dovere scrivere al Corriere della Sera per rispondere all’editoriale dell’ex direttore Paolo Mieli che esordiva ieri con “vatti a fidare dell’Italia come alleato”, si legge che “gli ucraini, a partire dal loro presidente Zelensky, ci considerano affidabili, seri e saldi nell’azione”. Si ringrazia insomma il presidente ucraino di avere avuto la cortesia, la diplomazia e altro di non essersi posto anche lui in pubblico i problemi, i dubbi, gli interrogativi dell’editorialista ed ex direttore, due volte, del giornale italiano più diffuso. Un po’ poco, sembra di poter dire a prima vista, limitandosi alla prima pagina del Corriere.

Nella lettera il ministro Crosetto ha lamentato il carattere sarcastico, approssimativo e poco informato, secondo lui, dell’editoriale di Mieli. Che ha reagito con bonomia invidiabile anche per un diplomatico che Crosetto peraltro non è. Paolo si è dichiarato “confortato” della considerazione attribuita agli ucraini di noi italiani ancora affidabili, seri e saldi. E ha ricambiato auguri di buon Ferragosto, rigorosamente al maiuscolo, anche in un’occasione incidentata  come questa.

Il Corriere della Sera fa le pulci al governo sulla guerra in Ucraina

L’editoriale del Corriere della Sera

         Sul Corriere della Sera, di cui è stato non una ma due volte direttore, ed è tuttora un editorialista di punta, Paolo Mieli è intervenuto con inusitata durezza, almeno per la sua abitudine di infarcire di ironie e attenuanti le sue osservazioni critiche, contro le reazioni delle competenti autorità di governo -ministro della Difesa Guido Crosetto e degli Esteri Antonio Tajani, sinora nel silenzio di Palazzo Chigi- allo “sconfinamento ucraino in territorio russo”. “Vatti a fidare dell’Italia come alleato”, ha esordito letteralmente Mieli. Che, essendo anche uno storico, sa bene quante altre volte l’Italia si sia guadagnata questa esclamazione chiudendo le guerre su fronti opposti a quelli iniziali.

         In particolare, oltre a distinguersi dalla linea indicata dai responsabili dell’Unione Europea e, singolarmente, dai nostri principali alleati, comprensivi delle esigenze politiche e militari dello “sconfinamento” ucraino in territorio russo, senza più limitarsi a difendersi dagli sconfinamenti russi, il ministro della Difesa si è guadagnato  il rimprovero di Mieli di avere messo “sullo stesso piano” le due invasioni, quasi accreditando il sarcasmo di Michele Ainis quando ha osservato che a questo punto meriterebbe un sostegno militare italiano anche la Russia di Putin. E mettendo in imbarazzo quella parte del Pd, a sinistra e all’opposizione, che sostiene l’Ucraina anche a costo di compromettere il progetto coltivato ora pure da Matteo Renzi di un campo largo e alternativo al governo in carica.

Crosetto e Tajani

         Alla “voce flebile” di Tajani d’accordo con Crosetto nell’avvertire nello sconfinamento ucraino un rischio di aggravamento della guerra e di un allontanamento delle trattative di pace, Mieli non ha voluto concedere neppure l’attenuante delle difficoltà in cui si trova il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri per la situazione interna del suo partito. Che i figli di Silvio Berlusconi, volenti o nolenti, gli stanno complicando.

Le conclusioni di Paolo Mieli sul Corriere della Sera

         Alla fine, prendendosela solo con l’imponente ministro della Difesa, e con la sua pretesa di considerare le armi italiane fornite agli ucraini indisponibili per certi tipi di attacco ai russi, l’editorialista del Corriere ha scritto: “Crosetto non è il primo e, temiamo, non sarà l’ultimo a tirarsi indietro quando all’orizzonte si intravede il rischio di sconfitta. E sarebbe un’ingiustizia far pesare sulle sue spalle un giudizio così severo sull’affidabilità del nostro Paese. Ma è pur vero che in momenti come questo da un piccolo dettaglio si vede di che stoffa sono fatte le nostre classi dirigenti. Purtroppo, quasi sempre la stessa”. Parole durissime, di fronte alle quali forse la Meloni in vacanza in Puglia si consolerà solo pensando al fatto di essere stata appena inclusa per fortuna da Biden nelle consultazioni telefoniche sugli sviluppi nell’altro fronte bellico su cui l’Italia è impegnata, pur non sentendosi in guerra con nessuno: quello in Medio Oriente.

Il racconto un pò omerico del campo largo coltivato a sinistra

Dal Dubbio

Pur abituata da tanto tempo all’incertezza di come chiamare un progetto nuovo, o magari solo di ristrutturazione dell’esistente, come dimostra “la Cosa”, con la maiuscola, attorno alla quale lavorò Achille Occhetto quando decise di sottrarre il suo Pci alle macerie del muro del Berlino e di chiamarlo in altro modo, la politica si è lasciata sorprendere dal problema del nome all’alternativa che Pier Luigi Bersani, rinunciando una volta tanto alle sue note e divertenti  metafore, propone nei salotti televisivi.

L’esordio del governo Meloni al Quirinale

Mi riferisco naturalmente all’alternativa al centrodestra, come in tanti ancora continuano a chiamare quello che invece con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi è diventato “destra-centro”. E solo i familiari, quelli veri, che lo frequentavano davvero senza bisogno di passare per i segretari o le segretarie o i cerchi più o meno magici di turno, sanno quanto Silvio Berlusconi avesse faticato ad accettarlo o chiamarlo così. E ciò, ammesso e non concesso che lo abbia mai chiamato davvero così dopo la pur scontata, anzi scontatissima vittoria elettorale dei fratelli d’Italia nelle elezioni leggermente anticipate del 2022. Destinate peraltro a sfociare, per dannate circostanze di calendario istituzionale, fra insediamento delle Camere, consultazioni al Quirinale e nomine da parte del presidente della Repubblica, nella formazione del governo della Meloni il 22 ottobre, a ridosso del centenario della marcia fascista su Roma datata 28 ottobre 1922.

A Repubblica, quella di carta, la corazzata  della flotta mediatica d’opposizione, quell’incrocio di date,  quell’intreccio di storia e cronaca politica fu vissuto come un incubo, mi ha raccontato un collega che vi lavora.

Elly Schlein

Anche se Goffredo Bettini si è vantato di recente di avere chiamato lui per primo “campo largo” quello contro il centrodestra, quando esso si era praticamente formato preventivamente con la formazione del secondo governo di Giuseppe Conte, e prima ancora che quel presidente del Consiglio fosse sempre da lui indicato come il punto di riferimento più avanzato dei progressisti italiani, credo che la maternità spetti ad Elly Schlein dopo il suo arrivo alla segreteria del Pd succedendo ad Enrico Letta. Che il campo largo rivendicato da Bettini lo aveva sepolto affrontando come aveva voluto, cioè restringendo i confini delle alleanze a sinistra, le elezioni anticipate -ripeto- sopraggiunte alla crisi del governo di Mario Draghi.

Giuseppe Conte

Ma, una volta sentitolo pronunciare dalla Schlein, che pure aveva segnato nel Pd quella “discontinuità” che egli aveva reclamato per riprendere i contatti interrotti l’anno prima, Conte ebbe da eccepire. E reclamò che si considerasse e si chiamasse “giusto”, più che largo. Gli interessava più la qualità che la consistenza, la dimensione e quant’altro dello schieramento da allestire.

Titolo su Domani del 10 agosto

Quando il confronto politico, come lo chiamiamo noi giornalisti scimmiottandone protagonisti e attori, ha reso incontrovertibilmente largo il campo bersaniano dell’alternativa, esteso sino a Matteo Renzi, smanioso di parteciparvi giocando anche a pallone con la Schlein, si è scoperto che gli manca “il tavolo”. Ne ha scritto, in particolare, la collega di Domani Daniela Preziosi attribuendo alla segretaria del Pd una certa stanchezza di partecipare a manifestazioni, cortei e simili con i possibili alleati e voglia invece di riunirli finalmente attorno a un tavolo, appunto, per cominciare a stendere un programma. O qualcosa che gli assomigli. Un tavolo concreto, che risparmi a lei la fine di Penelope e ai pretendenti quella dei proci.

Il caso ha voluto che il richiamo omerico della collega di Domani alla Schlein-Penelope abbia coinciso con la pubblicazione su ItaliaOggi di un’arguta vignetta di Claudio Cadei su Matteo Renzi rappresentato come il cavallo inventato da Ulisse per penetrare a Troia ed espugnarla distruggendola. Diavolo di un Cadei. Che ci abbia fregato tutti nell’analisi e nell’epilogo di tutta questa lunga vicenda del campo lungo? La Campeide, direi, della sinistra.  

Pubblicato su Dubbio

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Finite le distrazioni olimpiche, Macron dovrà ora decidersi a trovare un governo alla Francia

Emmanuel Macron

         Ora che ha finito di distrarsi con le Olimpiadi a Parigi, dove peraltro gli italiani sono riusciti a guadagnarsi 40 medaglie di cui 12 d’oro migliorando persino il risultato di quattro anni fa a Tokio, il presidente francese Emmanuel Macron riuscirà a concentrarsi sul problema irrisolto del nuovo governo col quale chiudere la partita elettorale anticipata delle elezioni svoltesi il 7 luglio nel loro secondo turno? Si accorgerà che, oltre all’acqua della Senna rimasta ancora troppo sporca dopo tutti i soldi spesi per farvi svolgere le gare, la Francia dispone di un governo in carica solo per gli affari ordinari, e ora post-olimpici, che contrasta un po’, diciamo così, con l’ambizione di un Paese tanto forte e stabile da potersi ancora dividere con la Germania, peraltro anch’essa in una certa difficoltà, la gestione dell’Europa?

Romano Prodi

Qui, in Europa, le opposizioni italiane nella loro solita specialità disfattistica denunciano, celebrano, festeggiano “l’isolamento” o “l’irrilevanza” del loro Paese, come ha appena preferito dire Romano Prodi a Repubblica parlandone in veste anche di ex presidente del Consiglio e di ex presidente della Commissione Europea. Carica, quest’ultima, rimediatagli a suo tempo da Massimo D’Alema per compensarlo del dispiacere procuratogli succedendogli personalmente a Palazzo Chigi nel 1998, circa un anno e mezzo dopo che il professore vi era arrivato con l’Ulivo  battendo nel 1996 Silvio Berlusconi in versione ridotta del centrodestra, essendosene ritirata la Lega di Umberto Bossi.  

Dal Foglio

L’isolamento della Meloni, alla quale si rimprovera soprattutto di non avere fatto votare dai deputati della sua parte politica la conferma della pur amica Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione di Bruxelles, decisa dai soliti come se non ci fossero state il 9 giugno elezioni europee di segno diverso dal passato, consiste per ora nelle vacanze che la premier ha deciso di trascorrere con amici e familiari in Puglia. “Una Meloni europeista sotto l’ombrellone”, ha riferito e commentato Il Foglio, che pure ha raccontato recentemente di “non amarla” in un bilancio ambivalente dei primi 650 giorni di governo stilato dal direttore Claudio Cerasa. Quanto davvero o incisivamente europeista, e quindi non isolata, si vedrà quando, magari trattando anche sotto quell’ombrellone nei dovuti modi consentiti dall’elettronica, la premier riuscirà a concordare con l’amica -ripeto- rimasta alla presidenza della Commissione europea le deleghe del rappresentante spettante all’Italia. Il tutto peraltro in un contesto internazionale non caldo ma rovente, più ancora dell’estate che attraversiamo, per le guerre che si svolgono ai confini, se non dentro la stessa Europa: dall’Ucraina a Gaza e dintorni.

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