Scomparso con Ottaviano Del Turco l’ultimo segretario del Partito Socialista

Da Libero

Con Ottaviano Del Turco, morto a quasi 80 anni, che avrebbe compiuto il 7 novembre, è scomparso l’ultimo testimone diretto della capitolazione imposta una trentina d’anni fa al Partito Socialista. Di cui egli fu eletto segretario nel 1993 succedendo a Giorgio Benvenuto, che Bettino Craxi aveva preferito quattro mesi prima come suo successore quando risultò coinvolto a tutti gli effetti, e non solo a voce, nell’uragano giudiziario di Tangentopoli.

Bettino Craxi e Ottaviano Del Turco

Craxi era ancora estraneo all’inchiesta già nota come “Mani pulite” nel mese di giugno del 1992, quando la Dc lo aveva designato per il ritorno a Palazzo Chigi dopo il quadriennio 1983-87. Ma l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, peraltro già suo ministro dell’Interno, gli negò l’incarico a seguito di una consultazione a dir poco irrituale col capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli.

         In quella procura, diventato segretario del Psi, Del Turco si presentò spontaneamente per offrire la collaborazione alle indagini sul finanziamento diffuso e abituale dei partiti e, più in generale, della politica. Ma il gesto non servì a nulla. Il trattamento giudiziario, oltre che politico, del Psi continuò in quella che dopo una ventina d’anni il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano definì di “una severità senza uguali” scrivendone in una lettera pubblica all’ormai vedova di Bettino Craxi, morto ad Hammamet col marchio del “latitante” inutilmente contestato in ogni sede, anche giudiziaria, dal suo avvocato Nicolò Amato.

La sede storica del Psi a Roma, in via del Corso

         Lo stesso Del Turco raccontò, dopo quella visita alla Procura di Milano che sotto la sua segreteria, quasi per scoraggiarlo a insistere nell’intenzione di mantenere vivo il partito, si sprecavano quasi quotidianamente le iniziative dissuasive, fra perquisizioni, sequestri ed altro. Non sarebbe bastato neppure cambiargli il nome, e più volte. Il partito doveva morire a tutti gli effetti. Bisognava fargli “passare la voglia o fargli tornare il gusto” -come qualcuno attribuì, a torto o a ragione, a Massimo D’Alema in una confidenza ad amici- di chiedere e raccogliere voti.

         Per quanto colpito da un’esperienza così dura, ma incline forse alla fiducia che gli ispirava anche il suo hobby di pittore, l’ex segretario del Psi, e prima ancora esponente fra i più alti della Cgil, volle partecipare alla fondazione del Partito Democratico. Dove, dopo essere stato parlamentare e ministro delle Finanze, particolarmente nel secondo governo di Giuliano Amato, egli approdò come presidente della sua regione abruzzese.  Ma fu poi arrestato con pesanti accuse di corruzione e associazione a delinquere nei rapporti con la sanità privata.

Alla fine di una lunga vicenda giudiziaria ch’egli fece in tempo ad avvertire, prima di entrare nel tunnel di una malattia dell’oblio forse anche peggiore della morte, il mio amico Ottaviano   risultò condannato solo per induzione indebita, assolto da tutto il resto. Ma già all’esplosione del caso, con l’arresto, il Pd lo aveva scaricato. E di brutto.

Addio, carissimo Ottaviano. La cui vicenda ho voluto tuttavia ricordare, pur in estrema sintesi, anche per rilevare come il tempo in Italia -a proposito di diritti di cui tanto si parla in questi giorni, forse più per brandirli come armi di lotta e manovra politica che per difenderli davvero- il tempo si sia fermato a una trentina d’anni fa. 

A un ministro della Giustizia come Carlo Nordio, la cui esperienza di magistrato d’accusa sembra una circostanza aggravante, che si è messo in testa di cambiare registro può capitare di trovarsi dileggiato come un ubriacone, da liquidare -ho letto sulla solita stampa manettara- con un “barile” di vino o liquore. Che tristezza. Anzi, che schifo.

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Ripreso da http://www.statmag.it il 26 agosto

Anche Arianna Meloni lascia, come Giorgia, il padre delle sue figlie

Dal Foglio

         Mentre Gorgia Meloni, finita la vacanza in Puglia senza rientrare nella sua abitazione romana, rivendicava il diritto alla riservatezza, non essendo ancora un premier -come dice lei parlando al maschile neutro- costretto a indossare il braccialetto elettronico di un sorvegliato, la sorella Arianna si è nuovamente imposta alla cronaca politica con un annuncio di carattere personalissimo. Che in qualche modo però l’affianca anche sotto questo profilo alla sorella anagraficamente minore ma politicamente maggiore. Pure lei si è lasciata dal padre delle sue figlie: due, non una come la sorella.

         Mentre si  conosce la ragione della rottura consumatasi l’anno scorso fra Giorgia Meloni e Andrea Giambruno, colto in un fuori onda poi mandato in onda da Mediaset in atteggiamenti sconvenienti, non si conosce il motivo dell’esaurimento del rapporto fra Arianna e Francesco Lollobrigida: sì, proprio lui, il ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, “il cognato” nelle cronache politiche in questo comuni fra prima, seconda e non so quante altre edizioni attribuibili alla Repubblica in corso dal 1946.

Arianna Meloni al Foglio

         “I nostri rapporti personali -ha dichiarato Arianna Meloni ad un giornalista del Foglio riuscito a raggiungerla telefonicamente, credo in Sardegna- sono ancora solidi, poi l’amore è un’altra cosa. L’affetto e la stima rimangono intatti. Per ora è così. E visto che sono affari nostri e ci sono tante persone che amiamo in mezzo, la finirei con la curiosità morbosa. Grazie”.

         Quel “per ora è così” è diverso dal “definitivo” apposto recentemente dalla sorella Giorgia, in una intervista a Chi, parlando dello stato di separazione da Giambruno, pur partecipe in qualche modo delle sue vacanze in Puglia con la figlia Ginevra. Può darsi quindi che le cose per Arianna possano tornare ad essere come prima, una volta chiariti gli eventuali dissapori che hanno fatto distinguere l’affetto e la stima dall’amore. Che peraltro è una parola magica anche politicamente per il ministro quasi consorte, o ex, che l’ha adoperata ieri a Rimini, anche lui al raduno dei ciellini come Antonio Tajani e Matteo Salvini, per parlare dei requisiti necessari alla cittadinanza nella riforma che divide rumorosamente i due vice presidenti del Consiglio.

         L’aspetto paradossale di questo annuncio tutto privato di Arianna Meloni, completamente estraneo ai “complotti” evocati o temuti ai suoi danni a mezza strada fra cronache giudiziarie e politiche sul versante delle nomine di competenza governativa, è costituito dal giornale al quale la sorella della premier ha ritenuto di doverlo riservare. Il Foglio è, fra tutti  i quotidiani, forse quello più ostinato in una specie di assedio critico al ministro dell’Agricoltura, rimediando -se non ricordo male- anche una denuncia.

Tutte le trappole fra le quali si muove Tajani in attacco o in difesa

Dal Dubbio

La polemica fra Matteo Salvini e Antonio Tajani, in ordine rigorosamente alfabetico, c’è tutta, per carità E anche diretta, non più per interposta persona. Ci sono anche lo strappo e la sfida che hanno ispirato i titoli di molti giornali sulla partita in corso fra i due pur alleati del centrodestra sul percorso politico e parlamentare della cittadinanza da concedere per il cosiddetto ius scholae, al posto di altre formule legislative ricavate sempre dal latino.

C’è anche lo strappo, ripeto, per quanto la parola mi sembri esagerata dopo quello cui ci aveva abituati negli anni Settanta Enrico Berlinguer prima prendendo le distanze genericamente dall’Unione Sovietica, considerata ancora madrepatria da tanti comunisti italiani, poi rifugiandosi in una intervista sotto l’ombrello della Nato per proteggersi pure lui da Mosca, infine rimediandosi un attentato di reazione per sua fortuna fallito in territorio bulgaro, e costata la vita solo al camionista che ne doveva travolgere l’auto e ucciderlo.  

         Poi, a dire la verità, ad esperienza conclusa della stagione della cosiddetta solidarietà nazionale con la Dc di Aldo Moro o proprio per concluderla, una volta morto Moro per mano dei brigatisti rossi, e forse anche di complici sfuggiti a tutte le inchieste e a tutti i processi, Berlinguer si rifiutò di partecipare alla riparazione dell’ombrello della Nato. Che nel frattempo era stato bucato metaforicamente dai missili SS20 puntati dalla Russia contro le capitali dell’Europa occidentale, installati nelle basi dell’alleanza rossa del Patto di Varsavia. E lo strappo rimase solo quello da tutti gli altri partiti italiani in una esaltazione moralistica della “diversità”, cioè superiorità, del Pci. Nella cui convinzione il povero Berlinguer morì sul campo quarant’anni fa comiziando sino all’estremo delle sue forze fisiche. E riuscendo da morto a sorpassare la Dc, sia pure di poco e in un turno elettorale europeo, ininfluente sugli equilibri interni italiani.

Tajani e Salvini

         Ma torniamo ai nostri giorni e al loro più modesto strappo, che è quello annunciato dai giornali fra Salvini e Tajani. L’uno avvertendo che la cittadinanza è solo formalmente fuori dal programma di governo, come ritiene l’altro prendendosi la libertà di votare come vuole in Parlamento, ma è riconducibile al problema dell’immigrazione. Che di quel programma fa invece parte importante, anzi dirimente. E l’altro continuando a reclamare libertà d’azione e d’iniziativa, cioè ignorando o facendo finta di non avere sentito la musica dell’altro.

Tajani e Renzi

         Torniamo a questo argomento per chiederci tuttavia se l’apparenza equivalga alla sostanza. Se lo scontro sia davvero, o soprattutto, quello fra Salvini e Tajani e se esso invece non nasconda o non sia addirittura funzionale ad un’altra partita, Che è quella in corso, con tanto di titoli -anch’essi- sui giornali e di sfide, almeno nei fatti, fra Matteo Renzi e Antonio Tajani, pure loro in ordine rigorosamente alfabetico.

         Renzi, a dire la verità, è impegnato da qualche tempo nella sua penultima scoperta, che è quella del cosiddetto campo largo dell’alternativa alla Meloni, cui si è proposto giocando, fra l’altro, al pallone con la segretaria del Pd Elly Schlein e passandogliene uno peraltro sfortunato, finito in porta ma annullato.  Ma l’ex premier cerca di far capire agli elettori moderati del centrodestra, che continuano ad essere i suoi interlocutori preferiti e immaginari, che è costretto a giocare a sinistra per l’incapacità di Tajani, appunto, di occupare, salvaguardare, difendere e fare avanzare lo spazio di centro nella coalizione di destra.

Dagospia assemblea Tajani e i figli di Berlusconi

Così Tajani diventa nelle interviste scritte e parlate di Renzi “Re Tentenna”. E se ne prevede alla fine la resa a Salvini pur di evitare una crisi di governo. E magari Tajani alla fine sarà costretto per disperazione anche alla crisi pur di difendere l’elettorato del suo partito non dalle invadenze e quant’altro dei figli di Silvio Berlusconi, di cui tutti scriviamo un giorno sì e l’altro pure, bensì dall’assedio o dalle incursioni propagandistiche di Renzi. Ma forse mi sono spinto troppo avanti con l’immaginazione, le previsioni, i timori, chiamateli come volete. E mi fermo al triangolo Renzi-Salvini-Tajani, sempre in ordine alfabetico, attendendo pazientemente e prudentemente la fine dell’estate, l’autunno, l’inverno e forse anche la primavera dell’anno prossimo.  

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Lo strappo di Tajani da Salvini sulla cittadinanza ostentato a Rimini

Dalla Stampa

         A Rimini pure lui per il raduno estivo dei ciellini nella sua triplice veste di segretario di Forza Italia, di vice presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri, Antonio Tajani ha voluto non solo confermare ma anche ostentare, prendendo in braccio una bimba di colore come se ne fosse il nonno, quello che La Stampa ha definito “lo strappo” dalla Lega dell’altro vice presidente del Consiglio, Matteo Salvini, sulla cittadinanza ai figli di immigrati che compiono un intero ciclo di studi in Italia.

Dal manifesto

         Dallo “strappo”, evocativo di quelli storici di Enrico Berlinguer dai sovietici abituati a dettare la linea al suo Pci, o di quelli più modesti che si consumavano ogni tanto nelle correnti democristiane fra capi e delfini, il manifesto è passato a scrivere di “provocazione” di Tajani nei riguardi degli “alleati” in un governo che potrebbe finire per esserne travolto.

Massimiliano Romeo

         Anche se non esplicitato del tutto, questo rischio di crisi lo si avverte in una dichiarazione del capogruppo della Lega al Senato Massimiliano Romeo. Che ha accusato il leder forzista di fare “da sponda” alle opposizioni e di potere “compromettere”, data l’importanza del tema, la stabilità tanto vantata come l’unica o la maggiore in Europa dalla premier Giorgia Meloni. Che forse per vigilarla meglio ha concluso la sua vacanza pugliese in masseria.

         Se Tajani insiste nel considerare il tema della cittadinanza da ius scholae estraneo al programma di governo, e quindi non impugnabile come motivo di crisi, rottura e quant’altro in caso di voto parlamentare difforme dagli alleati, i leghisti seguendo un’indicazione partita da Salvini in persona ritengono che il problema va considerato in quello più generale e dirimente, per loro, dell’immigrazione.

Natteo Salvini

         In questa offensiva contro Tajani il partito di Salvini si è messo a spulciare negli archivi stampati e audiovisivi di Silvio Berlusconi per rivendicare una fedeltà della Lega al Cavaliere maggiore di quella del partito che ne porta ancora il nome nel simbolo. Cosa che ha parecchio infastidito il vice presidente forzista del Consiglio, facendogli parlare di cose e tempi “superati”.

D’altronde, la pesca nelle acque del compianto ex presidente del Consiglio può raccogliere tutto e  il suo contrario, come nel caso del conflitto in Ucraina e delle ragioni ch’egli una volta riconobbe all’amico Putin imbarazzando non poco altri amici: quelli del Partito Popolare Europeo.  Che protestarono sino ad annullare un incontro programmato in Italia con esponenti della formazione politica dell’ex premier. Qualcuno in Forza Italia colse l’occasione anche per uscirne, o avviare il percorso di uscita.

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La penultima di Matteo Salvini contro Antonio Tajani sulla cittadinanza

Dal Corriere della Sera

         L’ultima, anzi la penultima del loquacissimo leader della Lega Matteo Salvini, in attesa della prossima dalla stessa Rimini, dove ha parlato ieri, o da chissà quale altra tappa del suo viaggio permanente in Italia tra cantieri e convegni,  non è il confermato no -su cui hanno titolato giornaloni e giornali-  al cosiddetto ius scholae condiviso da Forza Italia per disciplinare le concessioni della cittadinanza. Che, secondo lui, sono già abbondanti nel nostro Paese.

Antonio Tajani

         No, l’ultima anzi penultima di Salvini è quella che, sempre da Rimini, ha sparato davanti ai microfoni e alla telecamere della trasmissione “In onda” della 7, dicendo che la materia della cittadinanza non è così estranea al programma di governo concordato fra i partiti della maggioranza come ritiene il segretario di Forza Italia Antonio Tajani. Che così ha prospettato e prospetta la possibilità di un voto favorevole del suo partito, con le opposizioni, senza compromettere solidità e sorti della coalizione.

Screenshot

  La cittadinanza -ha avvertito Salvini- è un tema non estraneo o persino riconducibile a quello dell’immigrazione che fa parte -eccome- del programma e delle intese di governo. Per cui di fatto il leader leghista e vice presidente del Consiglio ha espresso la certezza che dello ius scholae non si  farà nulla perché -ha lasciato capire- l’altro vice presidente e suo amico Tajani non avrà il coraggio di rompere la maggioranza. Che, peraltro, è anche la convinzione espressa durante la stessa trasmissione della 7, ospite nello studio, da Matteo Renzi nella polemica continua che svolge contro il “re Tentenna” di Forza Italia. Cui egli vorrebbe contendere voti nelle urne pur dal cosiddetto campo largo al quale si è proposto.   

         E’ ancora estate. Un vertice della maggioranza per fare il punto della situazione è stato preannunciato per la fine del mese, ma la situazione nel centrodestra si complica, almeno con le parole. E la premier Giorgia Meloni, alle prese anche con altri problemi, ha della politica una pratica sufficiente a farle avvertire o capire che oltre un certo ottimismo verbale non potrà andare a lungo. E così anche Tajani, a dire il vero. Che peraltro ha appena dichiarato a Repubblica di perseguire sul terreno della cittadinanza una linea tradizionale del suo partito, dai tempi di Silvio Berlusconi, senza correzioni impostegli dai figli.

Tajani a Repubblica

         “La famiglia Berlusconi -ha detto Tajani- non mi ha mai imposto niente. Non chiamano e non condizionano, esprimono singole posizioni, che tra l’altro coincidono con quelle del padre, e che io raccolgo come quelle di veri amici”.

Gasparri al Foglio

         Al Foglio il capogruppo di Forza Italia al Senato Maurizio Gasparri ha detto: “I figli di Berlusconi non interferiscono con le scelte del partito. Abbiamo avuto modo di parlare con Marina e Pier Silvio recentemente. Apprezzano molto ciò che sta facendo Foza Italia, sono stati contenti del risultato delle elezioni. Hanno le loro idee, legittime, ma questo non si riflette automaticamente sul partito”.

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Gianfranco Pasquino boccia l’offensiva contro le sorelle Meloni per le nomine

Dal Dubbio

Come una pasquinata dell’omonima, celeberrima statua parlante della vecchia Roma che troneggia dietro Piazza Navona, Gianfranco Pasquino ha rovesciato una salutare secchiata di buon senso sulle polemiche provocate dall’ipotesi, prospettata dal direttore del Giornale, di un’inchiesta giudiziaria combinata con una campagna politica contro Arianna Meloni, la sorella della premier e dirigente di spicco del suo partito. Che in un eccesso -per me- di difesa ha negato di essersi occupata di nomine e simili di competenza del governo. Come se avesse fatto davvero qualcosa di sconveniente e per giunta sanzionabile giudiziariamente occupandosene davvero, o solo mettendoci il becco con consigli, pareri, solleciti, raccomandazioni al confine del reato di traffico d’influenze, pur ridimensionato da una recentissima legge più nota per l’abolizione di un altro reato: quello di abuso d’ufficio.    

L’editoriale di Domani

         Con la dottrina di un ex professore universitario di scienza della politica e l’esperienza di un senatore, eletto a suo tempo per tre legislature da vero indipendente di sinistra nelle liste del Pci e successive edizioni, Gianfranco Pasquino ha fatto un’autentica lezione dalle colonne di Domani a protagonisti e attori della tragicommedia, chiamiamola così, del caso Arianna Meloni. Cui ha finito per contribuire la sorella Giorgia facendo da controcanto ad una difesa della congiunta ben oltre i limiti che il caso meritava. E merita tuttora, visto che la polemica continua con rilanci più o meno da acquazzoni di un’estate ormai rotta.

Pasquino su Domani

         “Chi e come nella maggioranza -ha scritto Pasquino- sceglierà le persone da reclutare e da promuovere nelle cariche disponibili è un problema che riguarda quasi esclusivamente la maggioranza stessa. Delegare a una persona di famiglia, a una sorella, a un amico, a un collaboratore fidato è, prima di tutto, assolutamente comprensibile. In secondo luogo, non prefigura e non costituisce reato a meno che, in estrema sintesi, i reclutamenti non si caratterizzino come fattispecie di voto di sambio. Se sono soltanto errori sarà nell’interesse di chi ha nominato procedere a rettificarli il prima possibile con opportune sostituzioni”, essendo e rimanendo sua la responsabilità di quella scelta.

         “Gridare frequentemente e ossessivamente al “fuoco al fuoco” rischia di essere controproducente…e diseducativo”, ha ricordato Pasquino alle opposizioni, “peggio quando si rincorrono per scavalcarsi in denunce esagerate e implausibili, ma anche in concessioni furbette”.

Pasquino su Domani

         “Fuori dalla brutta estate del nostro scontento -ha concluso Pasquino- c’è molto da fare per migliorare il funzionamento della democrazia parlamentare, per l’appunto riportando con ostinazione e virtù la politica in Parlamento che, se formato da ina legge elettorale decente, dimostrerebbe tutte le sue qualità e potenzialità istituzionali, e di rappresentanza dei cittadini”. Per quanti danni -mi permetto di osservare- esso abbia subito in una lunghissima campagna di delegittimazione populistica, con le forbici sventolate in piazza, e tradotte addirittura in una riforma costituzionale, per ridurne la consistenza e i costi. Ogni allusione ai grillini e a chi è andato loro appresso in questa deriva è naturalmente voluta.

Le sorelle Meloni

         La funzione dirigenziale svolta da Arianna Meloni nel maggiore partito di governo rafforza il ragionamento e le osservazioni controcorrente di Pasquino rispetto all’andazzo di certe polemiche e di un certo modo di fare politica. Ragionamento e osservazioni peraltro riscontrabili anche in un’intervista del non dimenticato Antonio Di Pietro a Libe

La statua parlante a Roma

Ciò che la sorella della premier e la stessa premier hanno curiosamente dimenticato o sottovalutato finendo per prestarsi nella polemica agli strafalcioni istituzionali e logici delle opposizioni, è l’articolo 49 della Costituzione. Esso dice, testualmente: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. E della politica nazionale fa parte anche l’azione di governo, comprensiva del diritto e della responsabilità delle nomine che competono all’esecutivo. Non mi pare che ci voglia molto a capirlo, signori e signore delle opposizioni, e persino -ripeto- del governo.

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E’ guerra anche sotto le cinque stelle, dichiarata dallo stesso Beppe Grillo

Dal Tempo

         In questa estate pur spezzata dai temporali le guerre aumentano. L’elenco si allunga: dall’Ucraina a Gaza e a Sant’Ilario, a Genova, dove Beppe Grillo dalla sua postazione elettronica ha dichiarato guerra appunto a Giuseppe Conte, come ha titolato Il Tempo. Una guerra sulla strada dell’assemblea costituente programmata in ottobre dall’ex premier per ridefinire tutto del Movimento di cui ha assunto la presidenza dopo avere perso quella del Consiglio dei Ministri.

Dal blog di Beppe Grillo

       Da fondatore e garante dei valori delle 5 Stelle, pur a contratto come consulente per la comunicazione, Grillo ne ha sentito e denunciato in pericolo “Il Dna”. Come un generale Vannacci qualsiasi quando scrive e parla delle abitudini o normalità italiane compromesse da gente di colore, omosessuali e vari rimediandosi del “coglione” dall’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Che per questo si è beccato una multa contestandola per poter ribadire la sua offesa in un processo.

Giuseppe Conte

  Conte al “coglione” contro Grillo non è arrivato, e probabilmente non arriverà mai, ma sembra ben deciso a difendere il suo percorso di cambiamento. Che non esclude la rinuncia, o “l’archiviazione”, come la chiama il manifesto, a ciò che il fondatore considera invece irrinunciabile: il simbolo, il nome del movimento e il limite dei due mandati elettivi alle Camere. Oltre i quali, secondo Grillo, l’attività parlamentare diventerebbe “un mestiere” e non un’esperienza tanto più apprezzabile eticamente quanto temporanea, a garanzia del ricambio o rinnovamento della classe dirigente, che mancherebbero in tutte le altre forze politiche. Siano ad una specie di variante della “diversità” del Pci a suo tempo vantata da Enrico Berlingue

Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano

         Alla registrazione di questa guerra di Sant’Ilario, chiamiamola così, quasi una guerra civile perché tutta interna al movimento, non ha potuto sottrarsi , con un titolo in prima pagina in cui si parla tuttavia solo di “scontro”, un giornale molto in sintonia con le 5 Stelle come Il Fatto Quotidiano, spesso anticipatore delle sue decisioni o ispiratore.

Dal Fatto Quotidiano, pagina 6

         Come per consolarsene, a voler essere maliziosi, il giornale diretto da Marco Travaglio oggi offre al suo interno, a pagina 6, la rappresentazione di un altro partito scosso da divisioni, contrasti, tensioni e simili. Sarebbe naturalmente Forza Italia della buonanima di Silvio Berlusconi, il cui figlio secondogenito avrebbe programmato la replica della discesa in campo politico del padre, inevitabilmente ridimensionando quanto meno la figura dell’attuale segretario Antonio Tajani, nonché vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. “Pronta la truppa”, ha titolato Il Fatto facendo nomi e cognomi di quanti starebbero già preparando il campo a livello locale e nazionale a “Pier Silvio”. Di cui bastano e avanzano anagraficamente i due nomi datigli dal padre.

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Temporali d’agosto sulle sorelle Meloni, e loro dintorni

Da Repubblica

         Sarò franco, al solito, sino alla provocazione contro me stesso, su questa storia del complotto ai danni delle sorelle Meloni, e dintorni, caduta sulla cronaca politica come uno degli acquazzoni sull’Italia in questa estate che si è finalmente rotta, anche del caldo che ci ha procurato. “Un complotto all’italiana” -ha scritto il consumatissimo e ottimo Filippo Ceccarelli su Repubblica- “di sicurezza, di famiglia e di masseria”. Ma soprattutto di carta, aggiungerei, perché di una notizia giudiziaria, o solo paragiudiziaria, non ne ho avvertita sinora una, e neppure mezza, per quanto sia facile, anzi facilissimo, imbattersi in Italia in un avviso di garanzia o arresto non sempre ad orologeria, qualche volta anche a caso, senza collegamenti seri con i calendari politici sempre intensi, fra elezioni, convegni, passaggi parlamentari delicati, eventi persino internazionali.

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

         L’accennata provocazione contro me stesso è la condivisione di quanto ha scritto sul Fatto Quotidiano –e non è la prima volta che accade, per cui comincio davvero a preoccuparmi- Marco Travaglio scrivendo proprio del timore avvertito dalle parti meloniane di una contestazione del famoso traffico d’influenze, pur appena ridotto da una legge  approvata, intestata al ministro della Giustizia Carlo Nordio e promulgata, ad Arianna Meloni:  la sorella anagraficamente maggiore ma politicamente minore della premier Giorgia. Una sorella “dirigente di partito -ha scritto Travaglio- che fa ciò che fanno tutti da sempre e non risulta che riceva in cambio soldi o altre utilità”. Anche se l’interessata ha smentito di essersi mai occupata di nomine, magari anche di avere detto la sua su qualcuna di quelle fatte o da fare in sede di governo nelle consultazioni politiche, e partitiche, che di solito le precedono o acccompagnano.

Sempre Travaglio sul Fatto Quotidiano

         In un estremo atto di generosità, conoscendo l’opinione che Travaglio ha dell’interessato, come del migliore presidente del Consiglio italiano dopo la buonanima di Camillo Benso conte di Cavour, il direttore del Fatto Quotidiano ha riconosciuto a Giorgia Meloni di essere stata vista “come Conte”, il “Giuseppi” dell’allora presidente americano Donald Trump, “un’intrusa dalle elite più putride, use a scalzare gli outsider tramite qualche infiltrato”. “Ma Conte -ha precisato Travaglio- aveva la sfortuna di avere Renzi in casa”, che riuscì a fargli perdere Palazzo Chigi nel 2021 spedendovi Mario Draghi con la complicità, diciamo così, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “Lei -ha aggiunto il direttore del Fatto riferendosi alla Meloni- ha la fortuna di averlo fuori” questo maledetto Renzi, ora attratto dal cosiddetto campo largo dell’alternativa al governo in carica. “Perciò, più che dall’esterno” la premier “dovrebbe guardare all’interno della sua maggioranza”, perché “gli unici complotti che funzionano sono gli autocomplotti”, visto che obiettivamente non mancano divisioni e simili nel centrodestra, o destra-centro.

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Ripreso da http://www.startmag.it il 21 gennaio

Dove Pier Silvio Berlusconi vorrebbe spingere Forza Italia

Da Repubblica

Con un’analisi delle sue, ragionata e dettagliata, Ezio Mauro su Repubblica ha visto e indicato nei recenti interventi dei due figli maggiori di Silvio Berlusconi, ma soprattutto di Pier Silvio, “la metamorfosi” di Forza Italia in una nuova Democrazia Cristiana, destinata a soffrire l’alleanza con la destra sin forse a doversene prima o poi separare.

Dal Fatto Quotidiano

Allo stesso Pier Silvio Berlusconi invece Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio ha attribuito il giorno prima, sparandolo in prima pagina, questo “ordine” alla sua Mediaset non so se complementare o cos’altro rispetto all’analisi dell’ex direttore di Repubblica: “Più spazio ai dem nel talk show”. Dem intesi naturalmente come Partito Democratico, dove notoriamente convivono, bene o male, post-democristiani e post-comunisti, anche se i primi sono diminuiti da quando è segretaria Elly Schlein.

Dal Dubbio

  Gli ordini dalle parti del Biscione normalmente si eseguono, pur non mancando eccezioni clamorose come nel caso dell’ex compagno di Giorgia Meloni, e collega giornalista Andrea Giambruno, sorpreso l’anno scorso fuori onda in comportamenti inopportuni negli studi televisivi, poi trasmessi con gli effetti a tutti noti. Cioè con la fine della relazione sentimentale della premier col padre di sua figlia Ginevra, per niente preclusiva -si assicura negli ambienti qualificati, diciamo così- di rapporti amichevoli fra la Meloni e i figli ed eredi di Berlusconi, anche ora che questi ultimi stanno scuotendo Forza Italia per una maggiore autonomia dalla destra nella maggioranza. Ciò almeno secondo la rappresentazione che si sta facendo della vicenda sui maggiori giornali con contributi di esponenti anche del partito lasciato dal compianto Berlusconi nelle mani del fidato Antonio Tajani. Che ha dovuto aggiungere alle sue fatiche di governo, tra guerre fredde, calde e roventi, il fastidio di allontanare quanto meno il sospetto di essere in difficoltà a casa sua.

Sono cose, d’altronde, che capitano in politica. Capitavano già ai tempi della cosiddetta prima Repubblica dei partiti molto tradizionali e forti: per esempio nella Dc, dove le correnti ogni tanto si decapitavano da sole con clamorose rotture fra capi e delfini, veri o presunti. Figuriamoci se si possono evitare ora che i partiti sono meno tradizionali, meno forti e più personali, o personalizzati, con tutti gli inconvenienti anche umorali che ne derivano.

Non so francamente se sia vero l’”ordine” -ripeto- attribuito a Pier Silvio Berlusconi, e magari smentito prima che voi passiate leggermi, di aprire di più le sue reti e salotti televisivi ad ospiti del Pd, sorpassando in questo caso se stesso dopo l’approdo a Mediaset di Bianca Berlinguer, non certo indifferente ai ricordi e ai sentimenti politici di suo padre Enrico. So però che dalle parti del Pd, nonostante le tante esperienze politicamente condominiali giù vissute con Berlusconi in persona all’epoca delle “larghe intese”, protette al Quirinale prima da Giorgio Napolitano e poi dal successore Sergio Mattarella, quando si parla e si scrive del compianto Cavaliere si avvertono mal di pancia anche rumorosi. Come quello scappato su Repubblica di sabato scorso a Massimo Giannini scrivendone beffardamente come dell’”unto del Signore”. Sempre meglio, per carità, dello “psiconano” gridato sulle piazze e nei teatri da Beppe Grillo quando il Cavaliere era vivo -salvo invidiarne poi i voti da morto e rinfacciarli a Giuseppe Conte- ma pur sempre dileggiante. E perfino blasfemo per i credenti, vista l’opinione che si continua a coltivare del compianto Cavaliere, abituato del resto ad immaginarsi da solo camminare sulle acque.  

Pubblicato sul Dubbio

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Il trittico delle celebrazioni di quest’anno: De Gasperi, Togliatti e Berlinguer

Esattamente 70 anni fa moriva Alcide Gasperi, che ne aveva 73 ed era già passato alla storia come il protagonista della ricostruzione italiana dopo il disastro della seconda guerra mondiale, e il vincitore dello scontro elettorale col fronte popolare dei comunisti e dei socialisti di soli 6 anni prima, il 18 aprile 1948. Era stata sua anche la scelta dell’alleanza atlantica avversata dai comunisti, che però nel 1976 se ne sarebbero sentiti protetti anch’essi nei rapporti con Mosca.

Attilio Piccioni

         Con un occhio rivolto alle cronache di questi giorni, anzi di queste ore, in cui la premier si sente oggetto di troppe attenzioni giudiziarie con familiari ed amici, sarebbe forse il caso di ricordare di Alcide De Gasperi anche l’avventura capitatagli di avvertire le prime commistioni fra cronache politiche e giudiziarie. L’anno prima della sua scomparsa era scoppiato il caso della morte di Wilma Montesi, in cui fu coinvolto, e alla fine arrestato ma poi assolto, Piero Piccioni. Che era il figlio di Attilio, costretto alle dimissioni dalle sue cariche di governo ed escluso dalla gara per la successione politica a De Gasperi.

Palmiro Togliatti

         Dieci anni e due giorni dopo la scomparsa di De Gasperi, il 21 agosto 1964, morì Palmiro Togliatti, lo storico segretario del Pci che ne era stato il maggiore antagonista, sino a proporsi sulle piazze di cacciarlo a calci in culo -testuale- dalla guida del governo se gli fosse riuscito il colpo di sconfiggerlo nelle urne. Esse si rivelarono invece, per quanto ad altissima affluenza, meno piene delle piazze, secondo una celebre e delusa constatazione del leader socialista Pietro Nenni, uscitone ancora peggio dei comunisti.  

         Anche i sessant’anni dalla morte di Togliatti vanno ricordati per riconoscergli il merito di avere accettato la sconfitta politica e di avere nella sua prima, precedente esperienza di governo come ministro della Giustizia con lo stesso De Gasperi un rapporto di correttezza esemplare, alla luce di quanto accade oggi, col cosiddetto potere giudiziario. E’ vero, come dicono i suoi critici, che egli vide nella magistratura anche una delle “casematte” da occupare ma è ancora più vero, in termini anche di tempo, che con l’amnistia egli tolse l’antifascismo -di cui tanto si abusa oggi sul piano della propaganda e della lotta politica- dal terreno di un uso improprio da parte della magistratura. Negargli questo merito sarebbe disonesto.

Enrico Berlinguer

         Così come sarebbe disonesto attribuire al più famoso e storico dei suoi successori alla guida del Pci, Enrico Berlinguer, del quale invece è ricorso quest’anno il quarantesimo anniversario della morte, magari forzando il significato della “diversità” e della “questione morale” da lui rivendicate; sarebbe disonesto, dicevo, attribuirgli una condivisione o partecipazione alla strumentalizzazione del potere giudiziario. Vi avrebbero provveduto con spietata spregiudicatezza i suoi successori, nel Pd e versioni o edizioni successive.

         Il resto è cronaca, chissà quando destinata a diventare storia.

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