Conte resiste a Grillo ma ancor più alla Schlein nel cosiddetto campo largo

Da Repubblica

         Da una lunga intervista strappatagli in vacanza da Stefano Cappellini, tra un  giro in gommone e una doccia, la Repubblica di carta ha attribuito a Giuseppe Conte, con tanto di titolo di sostanziale apertura del giornale, un appello a Beppe Grillo a “non frenare i 5S”. Cioè i cinque stelle, come vengono comunemente nelle cronache politiche al maschile degli elettri che le votano ancora con l’omonimo movimento. Non frenarli, naturalmente, sulla strada della famosa Costituente di ottobre dove tutto potrebbe accadere sorprendendo il fondatore, il garante, il consulente della comunicazione, l’elevato o come altro abbia il diritto o l’abitudine di essere chiamato Grillo, appunto. Che non vuole notoriamente sentire neppure parlare di un nuovo nome, di un nuovo simbolo, di più di due mandati da consentire agli eletti per non farne dei professionisti, o mestieranti, della politica anziché degli attori a tempo rigorosamente definito, come lui continua a preferirli dall’alto delle sue funzioni di vigilanza e di desiderato comando senza scadenza.

Grillo e Conte

         Ma il freno di Grillo temuto da Conte è anche, o soprattutto, quello sulla strada da lui imboccata già nell’estate del 2019, quando non solo cambiò alleati e maggioranza per restare a Palazzo Chigi dopo la rottura con la Lega di Matteo Salvini, ma si lasciò incoronare dai capi palesi e occulti del Pd -dall’allora segretario Nicola Zingaretti a Goffredo Bettini- come “il punto più alto di riferimento dei progressisti”, cioè della sinistra italiana. Una strada della quale l’ex presidente del Consiglio è ancora convinto, o innamorato, con vocazione ancora di guida del governo che ha voluto confermare alla fine dell’intervista, nella coda dove si nasconde sempre il veleno, come dice un vecchio proverbio latino. Un veleno almeno rispetto al cosiddetto campo largo -nome che continua a non piacergli- cui si è offerto il penultimo Matteo Renzi -neppure lui gradito a Conte- nella convinzione che a guidarlo da Palazzo Chigi sia destinata Elly Schlein in quanto segretario del partito ormai più votato fra quelli della possibile coalizione alternativa al centrodestra, o destra-centro, di Giorgia Meloni.

Il finale dell’intervista d Conte a Repubblica

         Ma chi l’ha detto ha praticamente chiesto Conte rispondendo ad una domanda rivoltagli in questa direzione da Cappellini? Quello del leader del partito che prende più voti destinato a Palazzo Chigi -ha detto Conte- “è un criterio, ce ne sono altri possibili”, Che in effetti furono  sperimentati o subìti a suo tempo dalla Dc, nella cosiddetta prima Repubblica, quando da partito più votato nella maggioranza cedette Palazzo Chigi prima al repubblicano Giovanni Spadolini e poi al più scomodo e temuto leader socialista Bettino Craxi.

         E le primarie?, gli ha chiesto l’intervistatore. “Non escludo nulla, ma è prematuro parlarne”, ha riposto sibillinamente Conte. E il sorteggio?, non ha fatto forse in tempo a chiedergli Cappellini.

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Scomparso con Ottaviano Del Turco l’ultimo segretario del Partito Socialista

Da Libero

Con Ottaviano Del Turco, morto a quasi 80 anni, che avrebbe compiuto il 7 novembre, è scomparso l’ultimo testimone diretto della capitolazione imposta una trentina d’anni fa al Partito Socialista. Di cui egli fu eletto segretario nel 1993 succedendo a Giorgio Benvenuto, che Bettino Craxi aveva preferito quattro mesi prima come suo successore quando risultò coinvolto a tutti gli effetti, e non solo a voce, nell’uragano giudiziario di Tangentopoli.

Bettino Craxi e Ottaviano Del Turco

Craxi era ancora estraneo all’inchiesta già nota come “Mani pulite” nel mese di giugno del 1992, quando la Dc lo aveva designato per il ritorno a Palazzo Chigi dopo il quadriennio 1983-87. Ma l’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, peraltro già suo ministro dell’Interno, gli negò l’incarico a seguito di una consultazione a dir poco irrituale col capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli.

         In quella procura, diventato segretario del Psi, Del Turco si presentò spontaneamente per offrire la collaborazione alle indagini sul finanziamento diffuso e abituale dei partiti e, più in generale, della politica. Ma il gesto non servì a nulla. Il trattamento giudiziario, oltre che politico, del Psi continuò in quella che dopo una ventina d’anni il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano definì di “una severità senza uguali” scrivendone in una lettera pubblica all’ormai vedova di Bettino Craxi, morto ad Hammamet col marchio del “latitante” inutilmente contestato in ogni sede, anche giudiziaria, dal suo avvocato Nicolò Amato.

La sede storica del Psi a Roma, in via del Corso

         Lo stesso Del Turco raccontò, dopo quella visita alla Procura di Milano che sotto la sua segreteria, quasi per scoraggiarlo a insistere nell’intenzione di mantenere vivo il partito, si sprecavano quasi quotidianamente le iniziative dissuasive, fra perquisizioni, sequestri ed altro. Non sarebbe bastato neppure cambiargli il nome, e più volte. Il partito doveva morire a tutti gli effetti. Bisognava fargli “passare la voglia o fargli tornare il gusto” -come qualcuno attribuì, a torto o a ragione, a Massimo D’Alema in una confidenza ad amici- di chiedere e raccogliere voti.

         Per quanto colpito da un’esperienza così dura, ma incline forse alla fiducia che gli ispirava anche il suo hobby di pittore, l’ex segretario del Psi, e prima ancora esponente fra i più alti della Cgil, volle partecipare alla fondazione del Partito Democratico. Dove, dopo essere stato parlamentare e ministro delle Finanze, particolarmente nel secondo governo di Giuliano Amato, egli approdò come presidente della sua regione abruzzese.  Ma fu poi arrestato con pesanti accuse di corruzione e associazione a delinquere nei rapporti con la sanità privata.

Alla fine di una lunga vicenda giudiziaria ch’egli fece in tempo ad avvertire, prima di entrare nel tunnel di una malattia dell’oblio forse anche peggiore della morte, il mio amico Ottaviano   risultò condannato solo per induzione indebita, assolto da tutto il resto. Ma già all’esplosione del caso, con l’arresto, il Pd lo aveva scaricato. E di brutto.

Addio, carissimo Ottaviano. La cui vicenda ho voluto tuttavia ricordare, pur in estrema sintesi, anche per rilevare come il tempo in Italia -a proposito di diritti di cui tanto si parla in questi giorni, forse più per brandirli come armi di lotta e manovra politica che per difenderli davvero- il tempo si sia fermato a una trentina d’anni fa. 

A un ministro della Giustizia come Carlo Nordio, la cui esperienza di magistrato d’accusa sembra una circostanza aggravante, che si è messo in testa di cambiare registro può capitare di trovarsi dileggiato come un ubriacone, da liquidare -ho letto sulla solita stampa manettara- con un “barile” di vino o liquore. Che tristezza. Anzi, che schifo.

Pubblicato su Liberoi

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