Esattamente 70 anni fa moriva Alcide Gasperi, che ne aveva 73 ed era già passato alla storia come il protagonista della ricostruzione italiana dopo il disastro della seconda guerra mondiale, e il vincitore dello scontro elettorale col fronte popolare dei comunisti e dei socialisti di soli 6 anni prima, il 18 aprile 1948. Era stata sua anche la scelta dell’alleanza atlantica avversata dai comunisti, che però nel 1976 se ne sarebbero sentiti protetti anch’essi nei rapporti con Mosca.

Con un occhio rivolto alle cronache di questi giorni, anzi di queste ore, in cui la premier si sente oggetto di troppe attenzioni giudiziarie con familiari ed amici, sarebbe forse il caso di ricordare di Alcide De Gasperi anche l’avventura capitatagli di avvertire le prime commistioni fra cronache politiche e giudiziarie. L’anno prima della sua scomparsa era scoppiato il caso della morte di Wilma Montesi, in cui fu coinvolto, e alla fine arrestato ma poi assolto, Piero Piccioni. Che era il figlio di Attilio, costretto alle dimissioni dalle sue cariche di governo ed escluso dalla gara per la successione politica a De Gasperi.

Dieci anni e due giorni dopo la scomparsa di De Gasperi, il 21 agosto 1964, morì Palmiro Togliatti, lo storico segretario del Pci che ne era stato il maggiore antagonista, sino a proporsi sulle piazze di cacciarlo a calci in culo -testuale- dalla guida del governo se gli fosse riuscito il colpo di sconfiggerlo nelle urne. Esse si rivelarono invece, per quanto ad altissima affluenza, meno piene delle piazze, secondo una celebre e delusa constatazione del leader socialista Pietro Nenni, uscitone ancora peggio dei comunisti.
Anche i sessant’anni dalla morte di Togliatti vanno ricordati per riconoscergli il merito di avere accettato la sconfitta politica e di avere nella sua prima, precedente esperienza di governo come ministro della Giustizia con lo stesso De Gasperi un rapporto di correttezza esemplare, alla luce di quanto accade oggi, col cosiddetto potere giudiziario. E’ vero, come dicono i suoi critici, che egli vide nella magistratura anche una delle “casematte” da occupare ma è ancora più vero, in termini anche di tempo, che con l’amnistia egli tolse l’antifascismo -di cui tanto si abusa oggi sul piano della propaganda e della lotta politica- dal terreno di un uso improprio da parte della magistratura. Negargli questo merito sarebbe disonesto.

Così come sarebbe disonesto attribuire al più famoso e storico dei suoi successori alla guida del Pci, Enrico Berlinguer, del quale invece è ricorso quest’anno il quarantesimo anniversario della morte, magari forzando il significato della “diversità” e della “questione morale” da lui rivendicate; sarebbe disonesto, dicevo, attribuirgli una condivisione o partecipazione alla strumentalizzazione del potere giudiziario. Vi avrebbero provveduto con spietata spregiudicatezza i suoi successori, nel Pd e versioni o edizioni successive.
Il resto è cronaca, chissà quando destinata a diventare storia.