Il Corriere della Sera fa le pulci al governo sulla guerra in Ucraina

L’editoriale del Corriere della Sera

         Sul Corriere della Sera, di cui è stato non una ma due volte direttore, ed è tuttora un editorialista di punta, Paolo Mieli è intervenuto con inusitata durezza, almeno per la sua abitudine di infarcire di ironie e attenuanti le sue osservazioni critiche, contro le reazioni delle competenti autorità di governo -ministro della Difesa Guido Crosetto e degli Esteri Antonio Tajani, sinora nel silenzio di Palazzo Chigi- allo “sconfinamento ucraino in territorio russo”. “Vatti a fidare dell’Italia come alleato”, ha esordito letteralmente Mieli. Che, essendo anche uno storico, sa bene quante altre volte l’Italia si sia guadagnata questa esclamazione chiudendo le guerre su fronti opposti a quelli iniziali.

         In particolare, oltre a distinguersi dalla linea indicata dai responsabili dell’Unione Europea e, singolarmente, dai nostri principali alleati, comprensivi delle esigenze politiche e militari dello “sconfinamento” ucraino in territorio russo, senza più limitarsi a difendersi dagli sconfinamenti russi, il ministro della Difesa si è guadagnato  il rimprovero di Mieli di avere messo “sullo stesso piano” le due invasioni, quasi accreditando il sarcasmo di Michele Ainis quando ha osservato che a questo punto meriterebbe un sostegno militare italiano anche la Russia di Putin. E mettendo in imbarazzo quella parte del Pd, a sinistra e all’opposizione, che sostiene l’Ucraina anche a costo di compromettere il progetto coltivato ora pure da Matteo Renzi di un campo largo e alternativo al governo in carica.

Crosetto e Tajani

         Alla “voce flebile” di Tajani d’accordo con Crosetto nell’avvertire nello sconfinamento ucraino un rischio di aggravamento della guerra e di un allontanamento delle trattative di pace, Mieli non ha voluto concedere neppure l’attenuante delle difficoltà in cui si trova il vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri per la situazione interna del suo partito. Che i figli di Silvio Berlusconi, volenti o nolenti, gli stanno complicando.

Le conclusioni di Paolo Mieli sul Corriere della Sera

         Alla fine, prendendosela solo con l’imponente ministro della Difesa, e con la sua pretesa di considerare le armi italiane fornite agli ucraini indisponibili per certi tipi di attacco ai russi, l’editorialista del Corriere ha scritto: “Crosetto non è il primo e, temiamo, non sarà l’ultimo a tirarsi indietro quando all’orizzonte si intravede il rischio di sconfitta. E sarebbe un’ingiustizia far pesare sulle sue spalle un giudizio così severo sull’affidabilità del nostro Paese. Ma è pur vero che in momenti come questo da un piccolo dettaglio si vede di che stoffa sono fatte le nostre classi dirigenti. Purtroppo, quasi sempre la stessa”. Parole durissime, di fronte alle quali forse la Meloni in vacanza in Puglia si consolerà solo pensando al fatto di essere stata appena inclusa per fortuna da Biden nelle consultazioni telefoniche sugli sviluppi nell’altro fronte bellico su cui l’Italia è impegnata, pur non sentendosi in guerra con nessuno: quello in Medio Oriente.

Il racconto un pò omerico del campo largo coltivato a sinistra

Dal Dubbio

Pur abituata da tanto tempo all’incertezza di come chiamare un progetto nuovo, o magari solo di ristrutturazione dell’esistente, come dimostra “la Cosa”, con la maiuscola, attorno alla quale lavorò Achille Occhetto quando decise di sottrarre il suo Pci alle macerie del muro del Berlino e di chiamarlo in altro modo, la politica si è lasciata sorprendere dal problema del nome all’alternativa che Pier Luigi Bersani, rinunciando una volta tanto alle sue note e divertenti  metafore, propone nei salotti televisivi.

L’esordio del governo Meloni al Quirinale

Mi riferisco naturalmente all’alternativa al centrodestra, come in tanti ancora continuano a chiamare quello che invece con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi è diventato “destra-centro”. E solo i familiari, quelli veri, che lo frequentavano davvero senza bisogno di passare per i segretari o le segretarie o i cerchi più o meno magici di turno, sanno quanto Silvio Berlusconi avesse faticato ad accettarlo o chiamarlo così. E ciò, ammesso e non concesso che lo abbia mai chiamato davvero così dopo la pur scontata, anzi scontatissima vittoria elettorale dei fratelli d’Italia nelle elezioni leggermente anticipate del 2022. Destinate peraltro a sfociare, per dannate circostanze di calendario istituzionale, fra insediamento delle Camere, consultazioni al Quirinale e nomine da parte del presidente della Repubblica, nella formazione del governo della Meloni il 22 ottobre, a ridosso del centenario della marcia fascista su Roma datata 28 ottobre 1922.

A Repubblica, quella di carta, la corazzata  della flotta mediatica d’opposizione, quell’incrocio di date,  quell’intreccio di storia e cronaca politica fu vissuto come un incubo, mi ha raccontato un collega che vi lavora.

Elly Schlein

Anche se Goffredo Bettini si è vantato di recente di avere chiamato lui per primo “campo largo” quello contro il centrodestra, quando esso si era praticamente formato preventivamente con la formazione del secondo governo di Giuseppe Conte, e prima ancora che quel presidente del Consiglio fosse sempre da lui indicato come il punto di riferimento più avanzato dei progressisti italiani, credo che la maternità spetti ad Elly Schlein dopo il suo arrivo alla segreteria del Pd succedendo ad Enrico Letta. Che il campo largo rivendicato da Bettini lo aveva sepolto affrontando come aveva voluto, cioè restringendo i confini delle alleanze a sinistra, le elezioni anticipate -ripeto- sopraggiunte alla crisi del governo di Mario Draghi.

Giuseppe Conte

Ma, una volta sentitolo pronunciare dalla Schlein, che pure aveva segnato nel Pd quella “discontinuità” che egli aveva reclamato per riprendere i contatti interrotti l’anno prima, Conte ebbe da eccepire. E reclamò che si considerasse e si chiamasse “giusto”, più che largo. Gli interessava più la qualità che la consistenza, la dimensione e quant’altro dello schieramento da allestire.

Titolo su Domani del 10 agosto

Quando il confronto politico, come lo chiamiamo noi giornalisti scimmiottandone protagonisti e attori, ha reso incontrovertibilmente largo il campo bersaniano dell’alternativa, esteso sino a Matteo Renzi, smanioso di parteciparvi giocando anche a pallone con la Schlein, si è scoperto che gli manca “il tavolo”. Ne ha scritto, in particolare, la collega di Domani Daniela Preziosi attribuendo alla segretaria del Pd una certa stanchezza di partecipare a manifestazioni, cortei e simili con i possibili alleati e voglia invece di riunirli finalmente attorno a un tavolo, appunto, per cominciare a stendere un programma. O qualcosa che gli assomigli. Un tavolo concreto, che risparmi a lei la fine di Penelope e ai pretendenti quella dei proci.

Il caso ha voluto che il richiamo omerico della collega di Domani alla Schlein-Penelope abbia coinciso con la pubblicazione su ItaliaOggi di un’arguta vignetta di Claudio Cadei su Matteo Renzi rappresentato come il cavallo inventato da Ulisse per penetrare a Troia ed espugnarla distruggendola. Diavolo di un Cadei. Che ci abbia fregato tutti nell’analisi e nell’epilogo di tutta questa lunga vicenda del campo lungo? La Campeide, direi, della sinistra.  

Pubblicato su Dubbio

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