Almeno per ora, la Meloni non c’entra con la caduta e quant’altro delle Borse

Da Repubblica

         Avviso ai naviganti nelle acque della politica italiana già intorpidite dalle polemiche stagionali sugli anniversari delle stragi nere, con tanto di certificazioni giudiziarie, o ai frequentatori dei boschi esposti sempre ai rischi di incendi, e non solo alle incursioni recenti degli orsi: con  la caduta delle Borse, al plurale e al maiuscolo, anzi il crollo, il panico che le ha accompagnate, i falò che bruciano fra le tasche di chi negli investimenti finanziari gioca pesante rischiando,  con   tutto questo che ha alimentato i titoli delle prime pagine di oggi Gorgia Meloni non c’entra. E neppure il suo ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, e tanto meno quella stazza di pacioso ministro degli Esteri che è ormai diventato anche fisicamente il vice presidente forzista del Consiglio Antonio Tajani.

Dal Giornale

         Magari non c’entrerà neppure, o del tutto, la maledetta intelligenza artificiale con la quale ha preferito prendersela il governativo Giornale delle famiglie Angelucci e Berlusconi, ma la Meloni questa volta non c’entra proprio, neppure per chi di solito dall’opposizione la vede in ogni angolo buio o sfortunato del Paese. Anche nei suoi recenti viaggi all’estero la premier si è fermata in Cina, senza spingersi in Giappone, dove la Borsa di Tokio ha avuto la caduta peggiore, quasi di sei volte superiore, se non ho calcolato male, a quella di Milano. Dove neppure, rientrata in Italia, la premier peraltro si è spinta, quasi sentendo puzza  di bruciato e temendo di lasciare un’impronta.

Federico Fubini sul Corriere della Sera

         Pur non volendoci scherzare sopra come Stefano Rolli sulla prima pagina del Secolo XIX, che aspetta fiducioso che qualche borsa gli cada addosso con i soldi che ancora contiene, possiamo tranquillamente consolarci leggendo sul Corriere della Sera Federico Fubini. Il quale ha scritto che “se si mettono da parte i social media, se si taglia fuori il rumore di fondo, la vicenda che si si delinea” nei mercati finanziari di tutto il mondo “è meno semplice e forse -per il momento- meno drammatica di quella che presentano i più o meno interessati profeti di sventura”.

Dal Foglio

         Stefano Cingolani sul Foglio, dove sono stati appena celebrati i primi 650 giorni del governo Meloni con giudizi cerchiobottisti di un direttore scrupoloso di avvertire che “non ama” l’esecutivo in carica; Stefano Cingolani, dicevo, ha scritto che “la tempesta era attesa da tempo” nelle Borse e ne ha indicato le cause nel “freno delle big tech, la crisi cinese, il voto Usa e, ovviamente, i venti di guerra”. Sui quali Giuseppe Conte in Italia, sorpassando la segretaria del Pd Elly Schlein nel cosiddetto campo largo dell’alternativa, accusa notoriamente la Meloni di soffiare. Ma forse così egli cerca di distrarsi solo da Beppe Grillo che soffia contro di lui, come un gatto stanco dalla sua postazione di “garante dei valori”, per quanto remunerato come consulente della comunicazione, di sopportarlo da così tanto.

Ripreso da http://www.startmag.it

Più allargano il campo della sinistra e più protestano i loro elettori

Dal Dubbio

Era già noto il fatto che in politica l’aritmetica fa cilecca, per cui non è detto che due più due equivalgano a quattro.   

         Rimase celebre nella storia della sempre più lontana e rimpianta prima Repubblica il flop dell’unificazione socialista realizzata nel 1966, auspice Aldo Moro a Palazzo Chigi, che pensava di rafforzare così il suo centro-sinistra ancora col trattino. Tornarono insieme il Psi del vice presidente del Consiglio Pietro Nenni e il Psdi di Giuseppe Saragat, trasferitosi due anni prima al Quirinale subentrando all’impedito Antonio Segni. I due elettorati tuttavia non si sommarono, e in fondo neppure i due partiti, che infatti tornarono a separarsi nel 1969 provocando, fra l’altro, la caduta del secondo governo di centrosinistra, senza più il trattino, formato da Mariano Rumor succedendo a Moro.

         Anche alle coalizioni elettorali succede un po’ come alle unificazioni, nel senso che i votanti non si sommano come i dirigenti dei loro partiti vorrebbero. Lo ha appena verificato Antonio Noto in un sondaggio commissionatogli da Repubblica sul cosiddetto campo largo, esteso sino a Matteo Renzi dopo una partita “del cuore”, con abbraccio finale, in cui l’ex premier aveva passato la palla alla segretaria del Pd Elly Schlein facendole segnare un gol, ma fuori gioco, cioè inutil, contro una squadra di cantanti.

         Dal sondaggio di Noto è uscito non solo confermato il carattere divisivo, sul piano degli elettori, di un’alleanza fra il Pd e le 5 Stelle, ma anche aggravato con l’eventuale allargamento a Renzi e, sia pure separatamente, a Carlo Calenda.

         Se, per esempio, un’alleanza fra Pd e 5 Stelle non piace al 24 per cento degli elettori piddini e al 40 per cento degli elettori grillini o contiani, che già non sono più assimilabili come prima, aggiungendo Renzi alla combinazione l tensioni aumentano. La partecipazione dell’ex premier alla combinazione è contestata dal 71 per cento degli elettori piddini e dall’81 per cento degli elettori pentastellati ancora considerati ottimisticamente uniti. Calenda risulta meno indigesto, ma non di tanto: al 57 per cento degli elettori piddini e all’80 per cento degli elettori delle 5 Stelle.

A Matteo Renzi più no che sì nel sondaggio di Noto su Repubblica

         Manca nella ricerca sondaggistica di Antonio Noto il riscontro – obiettivamente più difficile per l’estrema confusione esistente nell’area dell’ex terzo polo sperimentato nelle elezioni politiche di due anni fa- delle reazioni degli elettorati separati di Renzi e di Calenda se davvero confluissero nel cosiddetto campo largo. Ma penso che se si fosse avventurato anche in questo tipo di ricerca Noto avrebbe riscontrato effetti ancora più divisivi. Gli stessi Renzi e Calenda, d’altronde, per la propensione ad accordarsi con Pd e 5 Stelle si sono visti contestate le loro leadership, già ammaccate, dai parlamentari che sono riusciti insieme a portare in Parlamento nel 2022. Figuriamoci dai loro elettori.

         I numeri insomma non sembrano francamente promettenti per questo campo largo di cui tanto si parla e si scrive da tempo, nonostante l’ottimismo che cerca di diffondere nei salotti televisivi l’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Che vede crescere la pianta dell’”alternativa” -come la chiama- al governo e alla maggioranza in corso.

Dubito, francamente che le cose siano messe meglio sul piano preferito o raccomandato di recente da Goffredo Bettini: l’uomo che ha un po’ sussurrato all’orecchio di tutti i cavalli del Pd e scommette adesso sul campo largo come “sentimento”, riconoscendo pure lui che la “sommatoria” dei partiti e dei loro elettorati non è scontata. Sentimento, ripeto. E’ una bella parola, ceto, ma pur sempre una parola in un campo come la politica, dove prevale la convenienza, non sempre generale. 

Pubblicato sul Dubbio

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