Dietro, e sotto, la rinuncia di David Ermini alla direzione del Pd

Dal Tempo

         La pur breve, debole resistenza opposta alla richiesta di dimissioni dalla direzione del Pd da David Ermini, già vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura col presidente Sergio Mattarella dal 2018 al 2023, ha procurato all’interessato una lezione etica, diciamo così, con presunzione però giuridica, del solito Marco Travaglio. Che non gli perdona, fra l’altro, di essersi doluto del sacrificio scrivendone al presidente tuttora del partito Stefano Bonaccini. Non o non anche alla segretaria Elly Schlein, penso, perché troppo presa in questo periodo dalla caccia al fascista, tanto da essersi procurata sul Tempo dall’ex parlamentare del Pd Tommaso Cerno, che lo dirige con brillantezza, il sarcastico soprannome di “Sfascistelly”. Inteso come Elly, appunto, impegnata – “dalle stragi a Telemeloni”- a inanellare accuse “estive” di fascismo alla premier per “scaldare la piazza e dividere il Paese”.

Marco Travaglio sul Fatto

         A costare ad Ermini, su pressione soprattutto dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando in corsa per la guida della regione Liguria, la partecipazione alla direzione del Pd è stata la presidenza, offertagli ed accettata con una remunerazione attribuita dallo stesso Travaglio in centomila euro l’anno, della Spininvest. Che è così stata correttamente definita dal direttore del Fatto Quotidiano. “la holding del gruppo di logistica portuale che fa capo ad Aldo Spinelli e al figlio Roberto, entrambi indagati e il primo tuttora agli arresti con l’accusa di avere corrotto l’allora presidente Giovanni Toti”. Che si è irrevocabilmente dimesso dalla presidenza della regione ligure per ottenere la libertà sottratta anche a lui una novantina di giorni fa.

Ancora Travaglio sul Fatto

         Dove Travaglio si è fatto prendere la mano dalla pratica giustizialista, ricorrendo cioè ad espressioni da condanna implicita o auspicabile, è in questo successivo passaggio dell’editoriale: “L’idea che chi ricopre cariche di partito non possa presiedere il gruppo di un detenuto per corruzione è considerata lunare anche da chi da trent’anni finge di voler proibire i conflitti d’interesse e poi lo non lo fa mai perché dovrebbe vietare pure i propri”.  In quel “gruppo di un detenuto per corruzione” c’è tutta la distorsione informativa, concettuale, direi addirittura antropologica, della detenzione intesa non come una misura cautelare disposta in pendenza di indagini ma come stato di reclusione e basta, avvertita come un anticipo, un assaggio di pena.

         So bene che queste osservazioni sono liquidate dai manettari come sofisterie, come processi alle intenzioni, come espedienti polemici. Ma è proprio in questa liquidazione la drammatica serietà e pericolosità del giustizialismo: così innaturato da diventare inconsapevole. Ma non agli occhi di chi è un avvocato, come Ermini, ed è stato, ripeto, vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, di provenienza per sua sfortuna democristiana in un partito sempre più chiaramente insofferente verso quel tipo di origine e cultura.

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