Salvini rovina alla Meloni la festa del vertice e della ripresa

Dal Corriere della Sera

         Con quello che il Corriere della Sera ha voluto generosamente definire “il giallo” di un comunicato della Lega contro l’uso che l’Ucraina reclama di fare delle armi fornite dall’Occidente per resistere all’aggressione della Russia e contrattaccare -comunicato diffuso per anticipare le conclusioni dell’annunciato vertice della maggioranza Palazzo Chigi  e ritirato per intervento della premier-  il vice presidente del Consiglio, ministro delle Infrastrutture e soprattutto leader della Lega Matteo Salvini          ha rovinato, volente o nolente, quella che la premier voleva fosse la festa della ripresa dell’attività di governo dopo le pur brevi vacanze estive. Ma il sospetto è che sia stato volente, più che nolente.

Da Repubblica

         Grazie al giochetto del comunicato leghista diffuso e poi ritirato per riconoscersi in un altro “stilisticamente” -ha detto lo stesso Salvini con una certa disinvoltura- ridotto ad una generica “condivisione sulle posizioni del governo italiano relativamente alla guerra in Ucraina”, la nave ammiraglia della flotta di carta contro la Meloni, la Repubblica, ha potuto titolare sull’esecutivo “spaccato” senza forzare più di tanto la situazione. Perché vorrà pur dire qualcosa che lo “stilistico” contenimento del comunicato ufficiale del vertice voluto dalla premier di fatto smentisce anche il no di Antonio Tajani e di Guido Crosetto, non partecipi alla riunione, all’uso delle armi occidentali cui aspira l’Ucraina. Tajani, come si sa, è il segretario di Forza Italia, uno dei due vice presidenti del Consiglio e il ministro degli Esteri, ostinato nel ricordare ogni volta che può di non sentire l’Italia “in guerra contro la Russia”, pur nella partecipazione alla difesa dell’Ucraina dall’aggressione della stessa Russia. Crosetto, collega e cofondatore del partito della Meloni, è il ministro della Difes

La premier Giorgia Meloni

         In questa situazione, cioè nel racconto di quanto è avvenuto sul piano comunicativo e delle posizioni delle parti, c’è tutta la spiegazione della “generosità” che ho attribuito al Corriere della Sera nella formulazione del “giallo”. Che merita quanto meno il superlativo: giallissimo. Il governo, per carità, specie nelle condizioni in cui si trovano gli avversari aspiranti al cosiddetto campo largo dell’alternativa, continuerà a restare al suo posto, probabilmente sino alla fine ordinaria della legislatura, cioè fra tre anni, ma in una unità e stabilità relative. Che derivano, ripeto, più dalla mancanza di un’alternativa che da altro. E non è certamente poco, per carità.

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Il percorso di Fitto, anzi Fittissimo, verso la Commissione europea

Dal Foglio

Il ministro Raffaele Fitto -55 anni compiuti l’altro ieri, nato a Maglie come il compianto Aldo Moro, democristiano di origine familiare e controllata, approdato nel partito di Giorgia Meloni dopo un passaggio per Forza Italia gestito dalla buonanima di Silvio Berlusconi come peggio, francamente, non poteva fare, o  non potevano fargli fare quelli del cerchio magico di turno ad Arcore- è destinato alla nuova Commissione dell’Unione Europea con un portafogli di mille miliardi di euro su designazione, naturalmente, del governo italiano e con l’appoggio del Pd annunciato, prima che altri al Nazareno e dintorni potessero smentirlo, dall’eurodeputato del partito di Elly Schlein più votato nelle elezioni europee di giugno. Si tratta di Antonio Decaro, che prese nella circoscrizione del Sud 495 mila voti di preferenza, più del doppio dei 240 mila raccolti dalla capolista Lucia Annunziata, imposta da Roma.

Antonio Decaro al Foglio

Già sindaco di Bari e presidente dell’associazione nazionale dei Comuni italiani, Antonio Decaro ha testualmente dichiarato al Foglio: Al netto delle differenze e delle distanze politiche, note a tutti, tra me e Raffaele Fitto, posso dire che in questi anni in cui abbiamo lavorato insieme sull’attuazione del piano nazionale di ripresa nei comuni italiani, credo abbiamo dimostrato di sapere mettere l’interesse del paese davanti a tutto. Non sono mancati i diverbi, ma entrambi riconoscevamo all’altro la correttezza e l’onestà intellettuale delle reciproche posizioni. Spero di poter continuare a lavorare allo stesso modo nei prossimi mesi in Europa

Raffaele Fitto e Antonio Decaro d’archivio

Non Fitto ma Fittissimo, direi a questo punto del percorso del trasferimento del ministro degli affari europei da Roma, e dalla sua Puglia, a Bruxelles. Alla faccia anche qui, come dopo i 90 minuti di colloquio a Palazzo Chigi fra la premer e il presidente del primo gruppo dell’Europarlamento, il tedesco Manfred Weber, peraltro reduce da un incontro proprio con Fitto; alla faccia, dicevo, dell’isolamento dell’Italia in Europa addebitato a Giorgia Meloni dalle opposizioni, compresi il Pd e il quasi ritrovato e penultimo Mattei Renzi.  

La ciliegina sulla torta sarebbe naturalmente anche una vice presidenza esecutiva della Commissione per il rappresentante italiano. Una ciliegina negata al commissario italiano uscente Paolo Gentiloni ai tempi di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi e che gli avversari della Meloni sperano naturalmente negata anche a Fitto, pur di continuare lo spettacolo e il racconto di un’Italia all’angolo nell’Unione. Ma non è detto che essi riescano in quest’altra avventura dell’autorete nazionale appena chiamata dal sempre più apparentemente  mite Pier Luigi Bersani “l’autunno caldo” del governo.   Che, diversamente da quello da lui tentato nel 2013 e impeditogli al Quirinale da Giorgio Napolitano, non è “di minoranza” velleitariamente orgogliosa.  Ha la sua maggioranza, magari articolata come tutte quelle di coalizione sperimentate nelle varie edizioni di carta della nostra Repubblica.

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Tutte le sorprese del penultimo Matteo Renzi ospite del Pd a Pesaro

Dal Dubbio

E’ bello, divertente, persino educativo per una comunità politica che è stata abbandonata ma è in qualche modo rimasta nel proprio cuore, o è tornata fra quelle compatibili con le proprie visioni e ambizioni, che Matteo Renzi, ospite della festa dell’Unità a Pesaro, abbia preso le difese della segretaria del Pd Elly Schlein dall’opposizione o insofferenza interna. E abbia esortato i piddini, nella loro mescolanza fra post-comunisti, post-democristiani e altro ancora, a non indebolire la nuova leadership dopo averne prima indebolito e poi travolto altre: da lui stesso, risalendo sempre più indietro in meno di vent’anni di vita al Nazareno, sino al fondatore e primo segretario Walter Veltroni.

         E’ bello e persino divertente e educativo, ripeto, anche per un mancato figliuol prodigo come ha voluto precisare di sentirsi l’ospite di Pesaro rincontrando amici o facendosene nuovi. Un Renzi in cui altre volte ho intravisto una nuova edizione del “Rieccolo” affibbiato felicemente da Indro Montanelli ad Amintore Fanfani per la capacità che aveva di cadere e rialzarsi, sparire e tornare, in quell’associazione di scuderie o correnti che fu la Dc durando una cinquantina d’anni. Altre volte mi sono chiesto se non fosse il caso di soprannominarlo invece “Il pendolo”. Ma ora penso che a Renzi calzi meglio il soprannome di “Penultimo”, con la doverosa maiuscola, per la facilità alla quale ha abituato noi poveri cronisti politici, vecchi e giovani, di inventarsi, stampare e vendere di se stesso sempre nuove edizioni. Peraltro, senza mai rinnegare o scusarsi delle versioni precedenti, anzi vantandosene: dal riformatore costituzionale propostosi ultimativamente agli elettori nel 2016, dopo due anni di governo, e clamorosamente bocciato in un referendum, al salvatore di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi nel 2019, sottraendolo alle elezioni anticipate perseguite da Matteo Salvini per liquidarlo. E poi al rottamatore dello stesso Conte per sostituirlo alla guida del governo con Mario Draghi.

Giuseppe Conte

         Riconosciuti al Penultimo tutti i meriti che gli spettano, o demeriti secondo gli antipatizzanti e avversari, mi permetto di contestargli da un angolo di questo Dubbio, che migliore nome non poteva darsi all’anagrafe dei giornali, l’orecchio un po’ da mercante che ha fatto a Pesaro difendendo la segretaria del Pd Elly Schlein dal dissenso interno, ma non dalla contestazione che ne fa come candidata a Palazzo Chigi, se e quando verrà il momento, Giuseppe Conte. Che in quel palazzo, come si è già accennato, c’è già stato due volte, con maggioranze di segno opposto, e vorrebbe tornarci, per quanto sceso al di sotto del 10 per cento dei voti e in rotta ormai reciproca col fondatore, garante, elevato e quant’altro del suo MoVimento 5 Stelle Beppe Grillo. Che non mi sembra avere o solo avvertire le “trecentomila buone ragioni”, sarcasticamente ricordate dall’ex pentastellato Luigi Di Maio, per immaginarlo, con la sua consulenza ben retribuita in materia di comunicazione, innocuo per la sorte, il futuro e quant’altro di Conte.

Elly Schlein

         Di quest’ultimo, in particolare, il Penultimo ha ignorato o finto di non avere letto o capito la parte conclusiva di una recente, lunga intervista a Repubblica in cui il presidente del movimento ancora pentastellato ha declassato ad uno dei vari “criteri” possibili, accanto alle primarie e ad altri indefiniti, il diritto riconosciuto da Renzi alla Schlein di guidare il campo largo, o come altro si chiamerà diabolicamente se e quando scalzerà il centrodestra o destra-centro della Meloni, in quanto segretaria del partito più votato.

         In effetti, già nella prima Repubblica ad una Dc ancora pingue di voti, ma indebolita nel 1974 dalla sconfitta nel referendum contro il divorzio, capitò di cedere Palazzo Chigi prima a Giovanni Spadolini e poi a Bettino Craxi. Ma erano appunto la prima Repubblica e la Dc, estranei -a dir poco- alle origini, alla cultura e quant’altro del movimento voluto da Grillo gridando improperi sulle piazze. Ve lo immaginate così l’Alcide Gasperi di cui si sono appena celebrati, con le lacrime o gli applausi degli avversari sopravvissutigli, i 70 anni dalla morte? Piuttosto una certa cultura e pratica grillina, o pentastellare, dovrebbe riconoscersi paradossalmente in quella che portò Palmiro Togliatti a proporsi nella campagna elettorale del 1948 di cacciare a “calci in culo”, letterale, il leader democristiano dal Viminale, che allora condivideva col ministro dell’Interno Mario Scelba come sede del governo.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it il 31 agosto

L’incontro con Weber smentisce la Meloni isolata un Europa

Dal Corriere della Sera

         I 90 minuti trascorsi insieme da Giorgia Meloni a Palazzo Chigi col presidente e capogruppo del maggiore partito rappresentato nel Parlamento europeo, il tedesco Manfred Weber, reduce peraltro da un incontro col candidato a commissario europeo per l’Italia Raffaele Fitto, hanno smentito da soli la rappresentazione della premier isolata nell’Unione per avere resistito e poi fatto votare dai suoi a Strasburgo contro la conferma della pur amica Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione di Bruxelles. Dove l’Italia merita “un ruolo forte”, come lo stesso Weber ha detto in una intervista al Corriere della Sera prima di chiudere i suoi incontri romani con Antonio Tajani, vice presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e collega di partito europeo.

Giorgia Meloni

         Se questo ruolo sarà così forte da assicurare a Fitto, oltre alle importanti deleghe già concordate o in via di definizione, anche una vice presidenza esecutiva della Commissione si vedrà nei prossimi giorni. Ma pur se la Meloni non dovesse farcela a procurargliela, c’è già chi nello stesso partito della premier ha voluto mettere le mani avanti ricordando -come ha fatto in onda sulla 7 Giovanni Donzelli- che neppure nella commissione uscente l’ex presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni riuscì a suo tempo ad ottenere un simile incarico. A Palazzo Chigi c’era Giuseppe Conte, non ancora sceso al di sotto del 10 per cento dei voti, saltato furbescamente all’ultimo momento nella prima maggioranza di Ursula von der Leyen e tuttora considerato dal suo ammiratore Marco Travaglio il migliore capo del governo italiano fra tutti quelli succeduti a Camillo Benso di Cavour. Altro che il mago di Oz col quale l’ha invece scambiato Beppe Grillo in una delle sue dissacranti incursioni di piazza o di teatro. 

Renzi alla festa dell’Unità a Pesaro

         Il lungo incontro fra la Meloni e Weber deve avere sorpreso o spiazzato anche Matteo Renzi, distratto però ieri dal suo impegno nella festa dell’Unità a Pesaro, dove l’accoglienza è stata migliore del previsto, dopo tutti i timori avvertiti dagli stessi promotori marchigiani nell’invitarlo come aspirante al cosiddetto campo largo dell’alternativa al centrodestra. Il pubblico non gli ha fatto le feste evangeliche al “figliol prodigo”, nel quale lui stesso del resto  ha tenuto a non riconoscersi, ma lo ha accolto come un amico utile quanto meno a contenere in quel campo ciò che resta dei grillini e di Conte: poco ma non abbastanza da far passare all’ex “avvocato del popolo” la nostalgia di Palazzo Chigi e la voglia di tornarci. Perché -ha egli stesso avvertito di recente alla fine di una lunga intervista-  non potrà o dovrà bastare ad Elly Schlein di restare, quando dovesse arrivare il momento, la segretaria del partito più votato della coalizione eventualmente vincente. Di quel veleno nella coda anche ieri Renzi a Pesaro ha finto di non essersi accorto, limitandosi a raccomandare ai piddini di tenersi stretta la loro nuova segretaria, anche contro le abitudini di partito da lui subite.

Ripreso da http://www.statmag.it

La resa allegra della premier a chi le misurava l’assenza da Palazzo Chigi

Titolo di Domani

La resa di Giorgia Meloni -tra “l’ironia e la propaganda” lamentate da Domani- alla caccia condotta contro la sua assenza per per quattro giorni, 11 ore e 19 minuti registrati dal contatore della trasmissione televisiva “in onda” sulla  7, è ininfluente sui propositi di guerra, addirittura, delle opposizioni.

Dal Corriere della Sera

         Il pur solitamente mite, scanzonato, battutista Pier Luigi Bersani – l’ex segretario del Pd entrato praticamente nelle riserve della politica dopo il troppo ardimentoso tentativo del 2013 di allestire un governo “di minoranza e di combattimento”, impeditogli dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ritirandogli l’incarico di presidente del Consiglio-  ha annunciato sul Corriere della Sera che “in autunno sarà battaglia” contro il governo fra “voto regionale e riforme”.

Dalla Stampa

         Ma i problemi alla premier non vengono né verranno solo dalle opposizioni, visto che il suo “ritorno” dalle vacanze è avvenuto anche “tra gli alleati riluttanti”, su cui ha preferito titolare La Stampa, ritenendoli forse ancora più insidiosi degli avversari dichiarati. In effetti tra leghisti e forzisti si sono sprecati e si sprecano tuttora polemiche e sgambetti su diversi temi, e non solo su quello particolarmente vistoso della cittadinanza per cosiddetto ius scholae ai figli degli immigrati.

Vannacci e Salvini

         Ma leghisti e forzisti non sono solo in contrasto fra di loro. Hanno problemi pure al proprio interno: con Antonio Tajani più o meno assediato anche o soprattutto dai figli di Silvio Berlusconi e con Matteo Salvini che, pur negandolo a parole, deve guardarsi alle spalle anche dal generale Roberto Vannacci. Che alle elezioni europee di giugno ha raccolto più di mezzo milione di voti di preferenza destinati forse a creare all’arrembante leader del Carroccio più problemi di quanti egli non pensi di avere invece risolto arruolando nelle sue liste l’autore e nemico insieme del “mondo al contrario”.   

Dal Foglio

         L’unica o maggiore consolazione della Meloni finalmente tornata al suo posto, non riuscendo a guadagnarsi neppure il ringraziamento        di chi ne misurava l’assenza col calendario e il cronometro, sta forse nella consapevolezza dei problemi della sua antagonista Elly Schlein: la segretaria del Pd in arrivo  a Siena e poi a Procida dopo una vacanza che è riuscita a tenere segreta. Sul Foglio l’aspettano riduttivamente alle prese con i problemi di Andrea Orlando, da “scaricare” in Liguria come candidato alla presidenza della regione non gradito nel cosiddetto campo largo ai grillini, e di Paolo Gentiloni. Che, quasi ex commissario europeo oltre che ex presidente del Consiglio, va “sistemato” in qualche modo al Nazareno e dintorni.

Giuseppe Conte

         In realtà, il problema più spinoso della Schlein resta proprio quello del “campo largo”. Dove Conte contesta di Renzi non solo e non tanto l’ambizione a farvi parte ma l’opinione che la candidata delle opposizioni a Palazzo Chigi debba essere la stessa Schlein perché segretaria del partito più votato nell’area dell’alternativa al centrodestra.

Ripreso da http://www.startmag.it

Invettive e scomuniche contro il fascino della Meloni a sinistra

Da Libero

Franco Monaco, della sinistra post-democristiana benedetta dal compianto cardinale Carlo Maria Martini sino a diventare ai suoi tempi presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana, provvisto anche di una esperienza parlamentare fra il 1996 e il 2013 passando per le liste dell’Ulivo e del Pd, ha rimproverato a Giorgia Meloni su Domani, il giornale di Carlo De Benedetto, non solo “il rapporto irrisolto col suo passato”, per quanto la premier abbia soltanto 47 anni. Ma anche di avere “reclutato” nel suo governo “per occuparsi di fisco” Nicola Rossi, “economista in origine dalemiana”, già parlamentare pure lui. Che sarebbe solo “l’ultimo caso di aperto collaborazionismo con la destra di esponenti politici forgiati nel Pci e nei suoi epigoni”.

Ieri su Domani

Come si spiega questo in un centrodestra -ha chiesto Monaco a mezza strada fra l’analista politico e un potenziale pubblico ministero di un processo alla storia- che oltre al “passato” della Meloni ha l’inconveniente del “gene berlusconiano”? Già, dimenticavamo, c’è pure traccia di quel diavolaccio della buonanima di Silvio Berlusconi in questa maggioranza alla quale avrebbero ceduto e starebbero cedendo pezzi, o singoli esponenti, della sinistra proveniente dell’insospettabile Pci anche di Massimo D’Alema. Che, in verità, già il compianto Giampaolo Pansa aveva immaginato culo e camicia -si dice così- con Berlusconi chiamandolo “Dalemoni”. Ma Monaco, evidentemente, non se n’era accorto.

Nicola Rossi

Oltre che con Nicola Rossi- “ultimo caso”, ripeto, di una contaminazione con la destra oggi al governo guidato dalla Meloni- l’editorialista di Domani se l’è presa con quegli esponenti del Pd che praticano lo stesso atlantismo della premier italiana, altri già collaboratori di D’Alema a Palazzo Chigi che oggi dalle colonne del Riformista strizzereberro gli occhi, e non solo quelli, alla prima donna, e di destra, alla guida del governo, e Luciano Violante. Che fu “patrocinatore” già ai tempi in cui era presidente della Camera, della “pacificazione nazionale con la destra postfascista la cui evoluzione incerta e ambigua oggi sotto i nostri occhi suggerirebbe più di qualche ripensamento”.

Luciano Violante

Violante invece, benedett’uomo, deve avere sorpreso, deluso, allarmato Monaco anche o ancor più sul versante della Giustizia, dove il governo Meloni ha avviato una serie di riforme di fronte alle quali lui non si è strappato né i vestiti né i capelli, per quanto o proprio perché pochi rimastigli addosso. Sui magistrati, peraltro suoi ex colleghi, trincerati nella difesa degli spazi conquistati ribaltando agli inizi degli anni Novanta gli equilibri nei rapporti con la politica fissati nella Costituzione del 1947, Violante è di una criticità, anzi spietatezza che potrebbe invidiargli persino il guardasigilli in carica Carlo Nordio.

Scampati all’osservatorio, o alle batterie di carta di Franco Monaco, mi permetto di segnalare -naturalmente con fini tutt’altro di assalto o di scomunica, forse più incline alla formazione culturale dello stesso Monaco- altri casi, per giunta recenti, di esponenti di sinistra rifiutatisi di scambiare il governo Meloni per l’Inferno. Che persino Papa Francesco  da qualche tempo immagina vuoto, o quasi, essendo forse gli inquilini tornati fra di noi ad alimentare e condurre guerre.

Gianfranco Pasquino

Proprio su Domani, il giornale -ripeto- di Carlo De Benedetti, e in un editoriale posizionato meglio di quello di Monaco, l’ex parlamentare di sinistra e professore emerito di scienza della politica Gianfranco Pasquino ha bocciato in dottrina e azione le opposizioni per l’assalto alle sorelle Meloni in tema di nomine. Cui la premier e il suo governo -ha ricordato Pasquino- possono procedere avvalendosi del parere di chiunque, specie se dirigente del maggiore partito della coalizione, rispondendone nelle sedi opportune, parlamentari o improbabilmente giudiziarie che dovessero essere invocate all’ombra del fumoso e già ridotto reato del traffico d’influenze.

Enrico Morando

Enrico Morando, altro ex parlamentare di sinistra e già vice ministro dell’Economia che non dovrebbe essere ignoto a Monaco, ha invece bocciato, anche lui in dottrina e in azione, i referendum promossi dalle opposizioni contro le autonomie differenziate delle regioni, introdotte peraltro in Costituzione non dalla destra ma dalla sinistra nel 2001.

Pubblicato su Libero

La caccia alla premier e altre paranoie della politica, non solo d’agosto

Dal manifesto

         Con l’aria di un gioco, che tale però non è per la carica di critiche e allusioni che l’accompagna, alla 7, la rete televisiva dell’editore del Corriere della Sera Urbano Cairo, hanno cominciato ieri sera “in onda” il conteggio dei giorni, delle ore, dei minuti e dei secondi che la premier Giorgia Meloni si è presi di riservatezza assoluta nella parte conclusiva delle vacanze. Prima di sottoporsi allo “stress del rientro”, come l’ha definito il manifesto, forse prendendo alla lettera quei “mortacci” attribuiti ieri dal vignettista del Corriere, Emilio Giannelli, immaginandola affranta, sulla soglia dell’ufficio a Palazzo Chigi, davanti alla pila dei dossier sulla scrivania.

In onda ieri sera sulla 7

         I tre giorni, 17 ore, 45 minuti e 11 secondi d’avvio del conteggio della trasmissione televisiva della 7 sono naturalmente già saliti mentre scrivo. E chissà di quanto ancora saliranno prima che la premier deciderà di rifarsi vedere e riprendere da fotografi e telecamere. E senza dare le spiegazioni, giustificazioni e quant’altro della sua assenza ai curiosi che si aspettano da un presidente del Consiglio la reperibilità continua per tutti singolarmente i cittadini e le cittadine della Repubblica. Se manca questa reperibilità generalizzata, universale, gatto ci cova. Tutti i sospetti sono leciti in nome della libertà d’informazione, d’opinione e di immaginazione.

         Alla Rai, già sospettata, anzi accusata di telemelonismo, per liberarsi da questa fastidiosa prigionia che ha trovato eco anche all’estero, dove si scrive e si parla di un’Italia ormai tornata al fascismo, non resta forse che trasmettere in edizione straordinaria, e fuori stagione, della nota trasmissione “Chi l’ha visto?”.  Alla ricerca, appunto, della premier.

Da Libero

           Nel clima parossistico, a dir poco, della politica italiana, e delle polemiche che la condiscono, non deve stupire più di tanto neppure che qualcuno, alla ricerca delle ragioni e delle ispirazioni di Antonio Tajani sulla strada della cittadinanza per cosiddetto ius scholae, sia andato anche oltre i figli di Silvio Berlusconi e abbia indicato la deputata del Pd Cristina Tajani scambiandola per una figlia segreta del segretario di Foza Italia, vice presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Meno male che l’interessata, come riferisce Libero, ha accompagnato la smentita con una risata e con “un abbraccio al mio papà e alla figlia -quella vera-  del ministro”, sua mancata sorella. 

             La paranoia, più ancora del complottismo avvertito nel centrodestra anche dalla Meloni di recente a proposito delle polemiche sul ruolo della sorella Arianna nelle nomine, è forse l’erba che cresce spontanea nel fantomatico “campo largo” dell’alternativa al governo.

P.S. – La premier in mattinata si è fatta sentire e vedere sui cosiddetti social. La programmazione straordinaria di “Chi l’ha visto” sulla Rai è superata, si spera.

Tutto il contenzioso fra Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen dopo l’armonia

Dal Dubbio

Claudio Tito su Repubblica ha cercato di alzare ancora di più la pila delle pratiche accumulatesi sulla scrivania di Giorgia Meloni, sorpresa in una vignetta del Corriere della Sera al suo ritorno in ufficio nella classica invettiva romanesca contro “li mortacci” degli altri.

 In particolare,  Tito ha un po’ tirato sul ritardo, ormai in esaurimento, della designazione di chi rappresenterà l’Italia nella Commissione europea che la presidente confermata Ursula von der Leyen sta predisponendo.

         Lo stesso Tito, d’altronde, ha riconosciuto che in fondo l’Italia non è la sola ritardataria, essendovi altri Paesi dell’Unione incapaci di una designazione perché privi di un governo. Lo è persino la Francia, pur non menzionata nell’articolo di Repubblica, più di un mese e mezzo dopo elezioni anticipate. Ma la Francia, si sa, è particolare. Il presidente Macron non ha bisogno di nascondersi dietro un governo, né gradito né sgradito, per dare le sue indicazioni a Bruxelles.   E trattarne il corso dietro o davanti alle quinte.

Giorgia Meloni e Raffaele Fitto

         La presidente della Commissione europea sarebbe in “gelo” con la Meloni anche per le insistenze, probabilmente rinnovate attraverso la presidente del Parlamento europeo molto amica della premier italiana, nella richiesta di una vice presidenza della stessa Commissione per il rappresentante italiano. Insistenze che starebbero creando problemi alla von der Leyen, a prescindere dalle qualità personali del commissario di cui ormai si conosce il nome: l’attuale ministro agli affari europei e dintorni Raffaele Fitto. Qualità che la presidente della Commissione apprezza ma che sono politicamente in conflitto, diciamo così, con l’appartenenza ufficiale di Fitto ad un partito i cui rappresentanti nel Parlamento europeo hanno votato contro la sua conferma. E’ il partito della stessa Meloni, noto come Fratelli d’Italia. La cui convergenza con la Lega di Matteo Salvini nell’Europarlamento è stata ed è una circostanza aggravante, diciamo anche questo, per l’animosità dello stesso Salvini verso Ursula von der Leyen espressa anche quando la premier italiana era riuscita a instaurare con lei un rapporto ostentatamente eccellente, fra baci, abbracci e viaggi insieme.

il ministro della Giustizia Carlo Nordio

         Questo clima fra le due donne, per carità, potrà anche tornare perché in politica la regola è di non dire mai a niente e a nessuno. E le deleghe di Fitto, alla fine, potranno anche aiutare. Ma in questa estate torrida sotto tanti altri aspetti è intervenuto fra la Meloni e la von der Leyen un inconveniente, se non lo vogliamo chiamare incidente. E’ la mancata risposta, che la Meloni invece si aspettava per evidenti ragioni politiche, alla lettera di sfogo inviatale -e diffusa publicamente- contro le strumentalizzazioni alle quali, volente o nolente Bruxelles, si era prestato il famoso rapporto europeo sullo stato del diritto in Italia.  Dove, a leggere quel dossier per le fonti usate nella stessa Italia dagli estensori raccogliendo più opinioni che fatti, sarebbe tutto in pericolo, anche la libertà di una stampa che pure può scrivere del ministro della Giustizia in carica come di un ubriacone per le riforme della Giustizia che intende portare avanti in Parlamento. Dopo quella già approvata, e controfirmata dal capo dello Stato pur all’ultimo momento utile alla promulgazione, per l’abolizione del reato di abuso d’ufficio, la delimitazione di quello del traffico di influenze e un ricorso più garantista all’arresto prima del processo, affidandone in prospettiva la decisione ad un collegio di giudici.

         Solo a Bruxelles -diciamo la verità, anche a costo di apparire sovranisti della peggiore specie- poteva saltare in mente l’idea che in un’Italia dove si può scrivere -ripeto- anche di un ministro della Giustizia ubriacone per questi interventi o iniziative, o per avere dichiarato di non essere riuscito, con la sua esperienza di ex magistrato, a comprendere un’ordinanza giudiziaria relativa al caso di Giovanni Toti, fosse davvero in pericolo anche la libertà d’informazione e d’opinione.

Anche per questo penso che una risposta alla Meloni, pubblica e non privata, da parte di Ursula von der Leyen fosse e sia tuttora dovuta.

Pubblicato sul Dubbio

Il faticoso rientro di Giorgia Meloni dalle vacanze, senza braccialetto elettronico

Da Repubblica

         Non sono certo i “lampi di guerra” che continuano a venire dal Medio Oriente, per non parlare dell’Ucraina che si sta difendendo da due anni a mezzo dall’aggressione della Russia, ma non sono neppure gioie e delizie quelle di Giorgia Meloni avvertibili nella vignetta della prima pagina del Corriere della Sera sul ritorno in ufficio di Giorgia Meloni. Che grida contro “li mortacci” sempre immanenti sui romani vedendo la pila dei documenti, cioè dei problemi, accumulatisi sulla sua scrivania. E perde di colpo tutta la tintarella guadagnata nelle vacanze pugliesi: sia quelle aperte in qualche modo ai fotografi e ai cronisti postati davanti alla masseria che l’ospitava sia quelle, più brevi e finali, chiuse agli uni e agli altri. E trascorse “senza il braccialetto elettronico” preteso, secondo il suo portavoce, da chi reclamava di conoscere il nuovo recapito della premier, al pari dei servizi di sicurezza e altri cui un presidente del Consiglio ì tenuto a rendersi sempre disponibile e rintracciabile.

         E’ fatta più di spine che d’altro la corona della Meloni alla ripresa del suo lavoro, se mai si è davvero interrotto lontano da Palazzo Chigi. La sua maggioranza è affollata, direi, di tensioni, concorrenze, inseguimenti, trabocchetti che, per ammissione di suoi esponenti di un cero rilievo parlamentare, porrebbero anche compromettere la solidità, tenuta e quant’altro di un governo che pure è provvisto, fra Camera e Senato, di numeri più che sufficienti per arrivare alle elezioni ordinarie del 2027. Che qualcuno all’opposizione sogna anticipate, nonostante il cosiddetto “campo largo” dell’alternativa, come lo chiama Pier Luigi Bersani, abbia ancora più problemi della maggioranza, specie da quando vi si è affacciato il penultimo Matteo Renzi.

Antonio Tajani

         Ma per tornare appunto alla maggioranza, diventa sempre più inedita la figura di Antonio Tajani, autonomo o no dai figli di Silvio Berlusconi, in rotta di collisione con Matteo Salvini e, sotto sotto, con la stessa Meloni. E non solo per una riforma della cittadinanza che ne consenta l’assegnazione ai figli degli immigrati per cosiddetto “ius scholae”. Una riforma tuttavia che da sola, se passasse davvero con una spaccatura parlamentare del centrodestra, potrebbe esplodere come una bomba.

Dalla Stampa

         Una sollecitazione a Tajani è venuta nelle ultime ore, in una intervista raccolta dalla Stampa, anche dalla penultima fidanzata di Silvio Berlusconi, Francesca Pascale, convinta forse di rappresentare l’eredità politica del Cavaliere meglio dei figli e dell’ultima fidanzata.

Francesca Pascale alla Stampa

“I responsabili politici…immagino che prima di iniziare una battaglia abbiano considerato le conseguenze. Tajani sta dimostrando coraggio e spero che continui a farlo”, ha detto la Pascale. E sempre a proposito di Tajani: “l’ho conosciuto come un uomo molto diplomatico, e ci ho anche molto litigato. Ora faccio il tifo per lui: sono orgogliosa che tenga la schiena dritta su questo tema seguendo l’eredità di Berlusconi”.

Ripreso da http://www.startmag.it

Conte resiste a Grillo ma ancor più alla Schlein nel cosiddetto campo largo

Da Repubblica

         Da una lunga intervista strappatagli in vacanza da Stefano Cappellini, tra un  giro in gommone e una doccia, la Repubblica di carta ha attribuito a Giuseppe Conte, con tanto di titolo di sostanziale apertura del giornale, un appello a Beppe Grillo a “non frenare i 5S”. Cioè i cinque stelle, come vengono comunemente nelle cronache politiche al maschile degli elettri che le votano ancora con l’omonimo movimento. Non frenarli, naturalmente, sulla strada della famosa Costituente di ottobre dove tutto potrebbe accadere sorprendendo il fondatore, il garante, il consulente della comunicazione, l’elevato o come altro abbia il diritto o l’abitudine di essere chiamato Grillo, appunto. Che non vuole notoriamente sentire neppure parlare di un nuovo nome, di un nuovo simbolo, di più di due mandati da consentire agli eletti per non farne dei professionisti, o mestieranti, della politica anziché degli attori a tempo rigorosamente definito, come lui continua a preferirli dall’alto delle sue funzioni di vigilanza e di desiderato comando senza scadenza.

Grillo e Conte

         Ma il freno di Grillo temuto da Conte è anche, o soprattutto, quello sulla strada da lui imboccata già nell’estate del 2019, quando non solo cambiò alleati e maggioranza per restare a Palazzo Chigi dopo la rottura con la Lega di Matteo Salvini, ma si lasciò incoronare dai capi palesi e occulti del Pd -dall’allora segretario Nicola Zingaretti a Goffredo Bettini- come “il punto più alto di riferimento dei progressisti”, cioè della sinistra italiana. Una strada della quale l’ex presidente del Consiglio è ancora convinto, o innamorato, con vocazione ancora di guida del governo che ha voluto confermare alla fine dell’intervista, nella coda dove si nasconde sempre il veleno, come dice un vecchio proverbio latino. Un veleno almeno rispetto al cosiddetto campo largo -nome che continua a non piacergli- cui si è offerto il penultimo Matteo Renzi -neppure lui gradito a Conte- nella convinzione che a guidarlo da Palazzo Chigi sia destinata Elly Schlein in quanto segretario del partito ormai più votato fra quelli della possibile coalizione alternativa al centrodestra, o destra-centro, di Giorgia Meloni.

Il finale dell’intervista d Conte a Repubblica

         Ma chi l’ha detto ha praticamente chiesto Conte rispondendo ad una domanda rivoltagli in questa direzione da Cappellini? Quello del leader del partito che prende più voti destinato a Palazzo Chigi -ha detto Conte- “è un criterio, ce ne sono altri possibili”, Che in effetti furono  sperimentati o subìti a suo tempo dalla Dc, nella cosiddetta prima Repubblica, quando da partito più votato nella maggioranza cedette Palazzo Chigi prima al repubblicano Giovanni Spadolini e poi al più scomodo e temuto leader socialista Bettino Craxi.

         E le primarie?, gli ha chiesto l’intervistatore. “Non escludo nulla, ma è prematuro parlarne”, ha riposto sibillinamente Conte. E il sorteggio?, non ha fatto forse in tempo a chiedergli Cappellini.

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